Cass. Civ., Sez. 5, Sent. Del 16 settembre 2021, n. 25014


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18839/2013 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;                                                                                                       – ricorrente –

contro

P.V.;                                                                                                                                                                                        – intimato –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle Marche n. 58/7/13, pronunciata il 27.3.2013 e depositata l’8.5.2013;

Udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio in data 28 maggio 2021 dal consigliere Dott. Giuseppe Saieva;

Lette le conclusioni scritte depositate ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso;

Letta la memoria depositata in data 18 maggio 2021 dall’Avvocato dello Stato Alessandro Maddalo.

Svolgimento del processo

P.V. impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ancona la cartella di pagamento recante l’importo a debito di Euro 1.762.059,59 con cui l’Agenzia delle Entrate di Ancona aveva determinato l’importo dovuto per l’anno d’imposta 1992 per IRPEF, interessi e sanzioni.

L’accertamento traeva origine da un maggior imponibile accertato nei confronti della … s.r.l. di cui il ricorrente era socio con una partecipazione del 75% in conseguenza del recupero a tassazione di costi fittizi per L. 1.298.473.396 e di ricavi non contabilizzati per L. 2.142.256.269 che l’Ufficio, in considerazione della ristretta base azionaria (a carattere familiare) della società, aveva ritenuto distribuiti ai soci in proporzione alle rispettive quote, accertando così nei confronti del P. il maggior reddito di L. 2.692.907.000.

La C.T.P. accoglieva il ricorso e la C.T.R. delle Marche, con sentenza n. 139/06/01, depositata in data 06/02/2002, confermava la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione proposto dall’Amministrazione Finanziaria avverso l’anzidetta sentenza (n. 139/06/01 della C.T.R. Marche) veniva accolto da questa Corte, che, con sentenza n. 6198/07 del 16.3.2007, cassava la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione del giudice a quo.

Il giudizio non veniva riassunto nei termini di legge e l’Ufficio, ritenendo che, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 63, comma 2 si fosse verificata l’estinzione dell’intero processo, con conseguente reviviscenza dell’avviso di accertamento impugnato, in data 14.11.2008 provvedeva a notificare al P. una cartella di pagamento di Euro 1.762.059,59 che il contribuente impugnava dinanzi alla C.T.P. di Ancona, sostenendo che la sentenza della C.T.R. delle Marche n. 139/06/01 doveva intendersi passata in giudicato soltanto nella parte non investita dal ricorso per Cassazione e, in particolare, nella parte in cui, l’imponibile accertato, era stato definitivamente fissato in L. 418.000.000 dalla C.T.R. che aveva rettificato i ricavi dell’… s.r.l. e l’imponibile su cui tassare i soci della società.

La C.T.P. di Ancona respingeva il ricorso, ritenendo che il riconoscimento della estinzione del processo D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 63 era assorbente rispetto ad ogni altra questione sollevata dal ricorrente.

Avverso tale decisione il contribuente proponeva appello, chiedendo che il suo maggior reddito imponibile fosse commisurato all’importo recuperato a tassazione nei confronti della società partecipata pari a L. 418.000.000.

La Commissione Tributaria Regionale delle Marche con sentenza n. 58/7/13, depositata l’8.5.2013, accoglieva l’appello del P..

Detta sentenza veniva quindi impugnata dall’Agenzia delle entrate dinanzi a questa Corte con ricorso affidato a due motivi cui il contribuente non ha opposto alcuna difesa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia deduce violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 63, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ritenendo che, non avendo alcuna delle parti provveduto a riassumere nei termini di legge l’originario giudizio, concluso con sentenza di cassazione con rinvio di questa Corte (Sez. 5, n. 6198 del 16.3.2007), questo doveva ritenersi definitivamente estinto ai sensi della disposizione evocata.

Il motivo è fondato.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte “nel processo tributario, l’omessa o tardiva riassunzione, nel termine di legge, del giudizio a seguito di rinvio dalla Corte di cassazione, ne determina l’estinzione che, differentemente da quanto avviene nel giudizio ordinario, è rilevabile anche d’ufficio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 45, comma 3, e art. 63 e comporta il venir meno dell’intero procedimento, con conseguente definitività dell’avviso di accertamento” (v. Cass. Sez. 5, 13/12/2018, n. 32276; Sez. 5, 23/11/2016, n. 23922; e, da ultimo, Sez. 5, 05/03/2021, n. 6142).

Invero, poichè l’opposizione avverso l’imposizione fiscale integra una mera azione di accertamento negativo della legittimità della pretesa tributaria, l’eventuale estinzione di tale processo di opposizione (nella specie, per mancata riassunzione davanti al giudice di rinvio) non può implicare l’estinzione dell’obbligazione tributaria, la quale rinviene alla propria base l’atto impositivo stesso, trovando in questo il titolo costitutivo. In tal senso, la pronuncia di estinzione del giudizio comporta ex art. 393 c.p.c., il venir meno dell’intero processo ed in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario la definitività dell’avviso di accertamento e quindi l’integrale accoglimento delle ragioni erariali. La pretesta tributaria vive, infatti, di forza propria proprio in virtù dell’atto impositivo in cui è stata formalizzata e l’estinzione del processo travolge la sentenza di primo grado (e quelle eventualmente successive), ma non l’atto amministrativo che – come noto – non è un atto processuale, bensì l’oggetto dell’impugnazione (cfr. Cass. Sez. 5, 20/04/2021, n. 10288; Cass. n. 9521 del 2017; Cass. n. 15589 del 2013; n. 22548 del 2012).

Ciò posto, a nulla rileva che la C.T.R. Marche con la sentenza n. 139/6/01, in accoglimento del ricorso del contribuente, abbia annullato l’avviso di accertamento impugnato “nella parte non investita dal ricorso per cassazione e cioè in quella parte in cui, implicitamente rettificando l’imponibile accertato (…), lo aveva definitivamente fissato in L. 418.000.000”, trattandosi di statuizione assolutamente inidonea a limitare l’effetto estintivo totale derivante dalla omessa riassunzione della causa di appello, che aveva reso definitivo l’originario avviso di accertamento impugnato.

Quanto alla specificità del diverso regime operante in sede tributaria, rispetto a quello civilistico, questa Corte ne ha chiarito la ragione, evidenziando che “nel giudizio tributario, l’omessa riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio determina l’estinzione del processo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 63, comma 2, e la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, sicchè il termine di prescrizione della pretesa tributaria, necessariamente incorporata nell’atto impositivo, decorre dalla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione, momento dal quale l’Amministrazione finanziaria può attivare la procedura di riscossione”. Quanto alle ragioni che giustificano, nel processo tributario, la deviazione dalla regola generale di cui all’art. 2945, comma 3, le stesse vanno individuate nei seguenti elementi di specialità: 1. la natura impugnatoria del medesimo e, in particolare, la natura amministrativa, e non processuale, rivestita dall’atto impositivo, il quale costituisce non atto di impulso del processo, ma il suo oggetto (Cass. 21143/15; 16689/13; 5044/12); 2. la conseguente definitività che deriva all’atto impositivo dall’estinzione del giudizio di impugnazione contro di esso proposto dal contribuente; 3. l’irrazionalità di una soluzione che, ritenendo applicabile anche al processo tributario il disposto generale di cui all’art. 2945, comma 3, verrebbe a far decorrere la prescrizione, a carico dell’amministrazione finanziaria, da una data (l’introduzione del giudizio) antecedente alla definitività dell’atto impositivo che realizza (“incorpora”) la pretesa tributaria medesima; con la conseguenza paradossale che il titolo dell’imposizione potrebbe risultare ineseguibile (perchè estinto per prescrizione) ancor prima di essere divenuto definitivo; 4. l’insussistenza, nel processo tributario, della ratio ispiratrice l’art. 2945, comma 3, dal momento che, proprio per la sua natura impugnatoria e per la definitività che l’atto impositivo assume per effetto dell’estinzione del giudizio in caso di mancata riassunzione, è il solo contribuente ad avere interesse alla riassunzione sicchè, diversamente argomentando sulla base della regola generale, l’eliminazione dell’effetto sospensivo della prescrizione in pendenza di un giudizio tributario – che poi si estingua per mancata riassunzione opererebbe a favore proprio della parte processuale (il contribuente) che, mostrando disinteresse per la coltivazione del giudizio, ha consentito che l’atto impugnato divenisse definitivo; 5. il regime della riscossione frazionata in pendenza di giudizio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 68 non è dirimente in senso contrario alla soluzione qui accolta, posto che: se è ammessa, e nei limiti in cui lo è (sentenze intermedie favorevoli all’amministrazione finanziaria), la riscossione frazionata non realizza in via definitiva la pretesa tributaria (sussistendo, in caso di diverso esito finale del giudizio, l’obbligo di restituzione al contribuente delle somme da questi medio tempore pagate), ma opera sul piano meramente anticipatorio ed interinale degli effetti di un accertamento giudiziale ancora in itinere; se, al contrario, la riscossione frazionata non è ex lege ammessa (sentenze intermedie favorevoli al contribuente), sussiste un impedimento di diritto alla realizzazione della pretesa, con conseguente mancato decorso, per regola generale, del termine prescrizionale (cfr. Cass. Sez. 5, sentenza 18/11/2016, n. 23502).

Ferme tali premesse, nel caso di specie l’atto impositivo (avviso di accertamento) è, quindi, divenuto definitivo in mancanza della riassunzione del giudizio innanzi al giudice del rinvio, talchè la cartella di pagamento emessa dall’Ufficio appare del tutto legittima.

La mancata riassunzione non poteva peraltro determinare il passaggio in giudicato della sentenza riformata, ma causava l’estinzione dell’intero giudizio, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p.c., che disciplinano specificamente il giudizio di rinvio cui non è applicabile la disposizione di cui all’art. 338 c.p.c., dettata per la diversa ipotesi del procedimento di impugnazione.

Ne consegue che l’estinzione dell’intero processo implica il venir meno dell’efficacia di tutte le precedenti pronunce, poichè al giudizio di rinvio non è applicabile l’art. 338 c.p.c. secondo cui l’estinzione del processo di appello determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, come chiarito peraltro anche da questa Corte con sentenza n. 17372 del 6 dicembre 2002, secondo cui la pronuncia di estinzione del giudizio comporta ex art. 393 c.p.c. il venir meno dell’intero processo ed, in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento e quindi l’integrale accoglimento delle ragioni erariali.

Con il secondo motivo l’Agenzia ha dedotto – in via subordinata violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ritenendo comunque errato l’assunto secondo cui nel processo avente a oggetto l’avviso di accertamento a seguito della cui definitività è stata emessa la cartella di pagamento si sarebbe formato un giudicato interno circa la riduzione dell’importo accertato, che, secondo l’assunto del contribuente fatto proprio dai giudici a quibus, sarebbe stata statuita della sentenza della C.T.R. Marche n. 139/6/01 e non investita dal ricorso per Cassazione.

Il pieno accoglimento del primo motivo ed il carattere subordinato della censura consentono di ritenere quest’ultima interamente assorbita.

Il ricorso dell’Agenzia delle entrate va pertanto accolto e, non sussistendo l’esigenza di ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Vanno viceversa interamente compensate le spese del giudizio di merito.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate; cassa la sentenza impugnata e decidendo la causa nel merito, ex art. 384 c.p.c., rigetta il ricorso introduttivo del contribuente che condanna al rimborso delle spese di giudizio sostenute dall’Agenzia delle Entrate liquidate in 6.700,00 Euro, oltre spese prenotate a debito. Compensa interamente le spese delle due fasi del giudizio di merito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021


Commento: Le ragioni della mancata applicazione della predetta regola generale sono le seguenti: a) la natura impugnatoria del processo tributario e la natura amministrativa, e non processuale, dell’atto impositivo, con la conseguente definitività di questo per effetto dell’estinzione del giudizio di impugnazione di esso proposto dal contribuente; b) l’irrazionalità della soluzione opposta, atteso che essa farebbe decorrere la prescrizione a carico dell’amministrazione finanziaria da una data (l’introduzione del giudizio) antecedente alla definitività dell’atto impositivo, con la paradossale conseguenza che il titolo dell’imposizione potrebbe risultare ineseguibile (perché estinto per prescrizione) ancor prima di essere divenuto definitivo; c) l’insussistenza, nel processo tributario, della “ratio” dell’art. 2945, comma 3, c.c., atteso che, data la natura impugnatoria di tale processo, e per la definitività che assume l’atto impositivo per effetto dell’estinzione nel caso di mancata riassunzione, è il solo contribuente ad avere interesse alla riassunzione, con la conseguenza che, qualora si applicasse la regola generale dell’art. 2945, comma 3, c.c., l’eliminazione dell’effetto sospensivo della prescrizione in pendenza del processo tributario, che poi si estingua per la mancata riassunzione, opererebbe a favore della parte processuale (il contribuente) che, mostrando disinteresse per la coltivazione del giudizio, ha consentito che l’atto impugnato divenisse definitivo. Né a tale soluzione può opporsi il regime della riscossione frazionata in pendenza di giudizio, a norma dell’art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, atteso che: se è prevista (sentenze intermedie favorevoli all’amministrazione finanziaria), essa non realizza in via definitiva la pretesa tributaria, ma opera sul piano meramente anticipatorio e interinale degli effetti di un accertamento giudiziale ancora “in itinere”; se non è prevista (sentenza intermedie favorevoli al contribuente), sussiste un impedimento di diritto alla realizzazione della pretesa tributaria, con il conseguente mancato decorso, per regola generale, del termine prescrizionale. 

Il dettato dell’art. 2945 c.c. dispone al comma 3: “se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo ed il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto interruttivo”.

Questa disposizione è riferita, genericamente, ad ogni ipotesi di estinzione del processo e, pertanto, anche a quella prevista dall’art. 393 c.p.c., per il caso di estinzione per mancata riassunzione del giudizio a seguito di cassazione con rinvio.

Il problema del rapporto tra decorrenza della prescrizione e pendenza del giudizio ordinario ha trovato soluzione nella giurisprudenza di legittimità, nel senso che la domanda giudiziale comporta sia un effetto interruttivo istantaneo, ai sensi dell’art. 2943, comma 1 c.c. e dell’art. 2945, comma 1 c.c., sia un effetto sospensivo (o “interruttivo permanente”), con la conseguenza che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio” (art. 2945, comma 2). 

La ratio legis è finalizzata ad evitare che il tempo necessario all’accertamento giurisdizionale del diritto possa produrre effetto estintivo in pregiudizio della parte alla quale il diritto sia infine riconosciuto con sentenza passata in giudicato. 

Nel caso di estinzione del giudizio, resta fermo l’effetto interruttivo istantaneo della prescrizione (per cui, dalla data della domanda si inizia un nuovo periodo di prescrizione), non anche quello sospensivo in pendenza di causa; giacchè intanto la suddetta ratio legis è meritevole di attuazione, in quanto la parte che essa vorrebbe tutelare dimostri di avere concreto interesse all’accertamento giurisdizionale, coltivando con diligenza il processo. 

Al contrario, qualora il giudizio si estingua per inerzia della parte, non vi è ragione di preservare quest’ultima dagli effetti estintivi riconducibili alla durata della lite, sicchè si mantiene il solo effetto interruttivo istantaneo; con la conseguenza che la prescrizione decorre non già dalla data di estinzione del giudizio, ma dall’originario atto interruttivo, vale a dire dalla domanda giudiziale (art. 2945, comma 3).

Questa soluzione interpretativa si rinviene nella Corte di Cassazione, Sezioni Unite sentenza n.15756/07, la quale ha precisato che: “Nell’ipotesi di estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 50 c.p.c., comma 2, che può essere dichiarata dal giudice della riassunzione (o della prosecuzione) o dal giudice appositamente adito, ovvero, “incidenter tantum”, da quello dinanzi al quale è proposta nuovamente la stessa domanda di merito, la notifica dell’atto introduttivo del primo giudizio ha soltanto effetto interruttivo della prescrizione, e non anche sospensivo, poichè quest’ultimo è operante, ai sensi dell’art. 2945 c.c., solo se l’estinzione del giudizio viene evitata”. 

Nella motivazione si evidenzia inoltre che: “La conseguenza ulteriore da trarre era che la notificazione dell’atto introduttivo del primo giudizio aveva avuto soltanto un effetto interruttivo istantaneo della prescrizione, non anche quello sospensivo che il Tribunale superiore delle acque pubbliche le ha attribuito: effetto, quest’ultimo, che si sarebbe potuto riconoscere operante, a norma dell’art. 2945 c.c., , soltanto se l’estinzione del processo fosse stata evitata, mediante la tempestiva riassunzione della causa”. 

In tal senso si è consolidato il principio per cui l’estinzione del processo comporta, ai sensi dell’art. 2945 c.c., comma 3, il permanere dell’effetto interruttivo della prescrizione provocato dalla domanda giudiziale, dalla quale comincia a decorrere il nuovo periodo di prescrizione, restando escluso l’effetto permanente dell’interruzione previsto dal comma 2 dello stesso articolo. Tale principio vale anche nel caso di estinzione del processo, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., per mancata riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio”.

Più contrastata si rivela l’evoluzione giurisprudenziale del principio con riguardo all’estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo; alla luce di quanto stabilito dall’art. 653 c.p.c., comma 1, secondo cui: “se l’opposizione è rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva, oppure è dichiarata con ordinanza l’estinzione del processo, il decreto, che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva”.

Il punto di equilibrio tra mantenimento dell’efficacia del decreto ingiuntivo a seguito di estinzione del giudizio di opposizione ex art. 653 cit., ovvero estinzione dell’intero giudizio ed inefficacia del decreto per mancata riassunzione a seguito di cassazione con rinvio ex art. 393 cit., è stato infine individuato da SSUU n. 4071 del 22/02/2010, secondo cui occorre distinguere a seconda che l’estinzione ex art. 393 c.p.c., sia successiva ad una pronuncia di merito di accoglimento dell’opposizione, ovvero di rigetto; posto che, nel primo caso, per effetto dell’estinzione del giudizio il decreto ingiuntivo diventa inefficace; mentre, nel secondo caso, esso acquista efficacia esecutiva ex art. 653 cit..

Tuttavia, l’evoluzione giurisprudenziale fin qua tratteggiata non ha preso in esame la specificità del processo tributario, in ordine al quale si è recentemente formato un orientamento di legittimità opposto a quello maturatosi con riguardo al processo ordinario. 

Infatti nel giudizio tributario, l’omessa riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio determina l’estinzione del processo, ai sensi dell’art. 63, comma 2 del D. Lgs. 546/1992 e la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, sicchè il termine di prescrizione della pretesa tributaria, necessariamente incorporata nell’atto impositivo, decorre dalla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione, momento dal quale può essere attivata la procedura di riscossione.

In sostanza, le ragioni che giustificano, nel processo tributario, la deviazione dalla regola generale di cui all’art. 2945, comma 3 trova fondamento in ipotesi individuate in elementi di specialità quali: 

  1. a) la natura impugnatoria del medesimo e, in particolare, la natura amministrativa, e non processuale, rivestita dall’atto impositivo, il quale costituisce non atto di impulso del processo, ma il suo oggetto; b) la conseguente definitività che deriva all’atto impositivo dall’estinzione del giudizio di impugnazione proposto dal contribuente; 
  2. c) la non condivisibilità della impostazione interpretativa per la quale, ritenendo applicabile anche al processo tributario il disposto generale di cui all’art. 2945, comma 3, verrebbe a far decorrere la prescrizione, a carico dell’ente impositore, da una data (l’introduzione del giudizio) antecedente alla definitività dell’atto impositivo che realizza (“incorpora”) la pretesa tributaria medesima; con la conseguenza che il titolo dell’imposizione potrebbe risultare ineseguibile (perchè estinto per prescrizione) ancor prima di essere divenuto definitivo; 
  3. d) l’insussistenza, nel processo tributario, della ratio ispiratrice l’art. 2945, comma 3, dal momento che, proprio per la sua natura impugnatoria e per la definitività che l’atto impositivo assume, per effetto dell’estinzione del giudizio in caso di mancata riassunzione, è il solo contribuente ad avere interesse alla riassunzione.

Ne deriva che, diversamente argomentando sulla base della regola generale, l’eliminazione dell’effetto sospensivo della prescrizione in pendenza di un giudizio tributario che poi si estingua per mancata riassunzione opererebbe a favore proprio della parte processuale (il contribuente) che, mostrando disinteresse per la coltivazione del giudizio, ha consentito che l’atto impugnato divenisse definitivo. 

Infine la pronuncia in commento richiama il regime della riscossione frazionata in pendenza di giudizio ex art. 68, D. Lgs. 546/1992.

Tale ipotesi non è dirimente in senso contrario a quanto affermato, : se è ammessa, e nei limiti in cui lo è (sentenze intermedie favorevoli all’amministrazione finanziaria), la riscossione frazionata non realizza in via definitiva la pretesa tributaria (sussistendo, in caso di diverso esito finale del giudizio, l’obbligo di restituzione al contribuente delle somme da questi medio tempore pagate), ma opera sul piano meramente anticipatorio ed interinale degli effetti di un accertamento giudiziale ancora in itinere; se, al contrario, la riscossione frazionata non è ex lege ammessa (sentenze intermedie favorevoli al contribuente), sussiste un impedimento di diritto alla realizzazione della pretesa, con conseguente mancato decorso, per regola generale, del termine prescrizionale.

In definitiva, per le esposte considerazioni, vale il principio per cui, in caso di estinzione del processo tributario dovuta all’omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, la regola generale dell’art. 2945, comma 3, c.c., non trova applicazione e il termine di prescrizione della pretesa fiscale decorre dalla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione. 

Prof. Bruno Cucchi

Diritto processuale tributario

Unicusano Roma