Il regime patrimoniale legale e le convenzioni matrimoniali.

Il regime patrimoniale costituisce la disciplina delle spettanze e dei poteri dei coniugi in ordine all’acquisto ed alla gestione dei beni (BIANCA).

In mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162 c.c., il regime legale è costituito dalla comunione dei beni (art. 159 c.c.).

La Riforma del diritto di famiglia del 1975 ha profondamente innovato la precedente disciplina, che al contrario prevedeva come regime legale, operante in mancanza di una diversa scelta dei coniugi, quello della separazione dei beni.

Benché il sistema preveda come regola la comunione legale dei beni tra i coniugi, questi ultimi possono tuttavia, mediante un’apposita convenzione, optare per un regime di separazione dei beni o di comunione convenzionale.

È inoltre possibile creare un vincolo di destinazione dei beni, attraverso l’istituto del fondo patrimoniale.

L’autonomia dei coniugi non è tuttavia assoluta, ma incontra alcuni limiti, quali:

  1. il divieto di derogare ai diritti e ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio (art. 160 c.c.);
  2. il divieto per gli sposi di pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ed il corrispondente onere di enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare i loro rapporti patrimoniali (art. 161 c.c.);
  3. il divieto di costituzione di dote (art. 166-bis c.c.);
  4. l’inderogabilità, in caso di modifica della comunione legale, delle norme relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’eguaglianza delle quote.

Secondo quanto stabilito dall’art. 162 c.c., le convenzioni matrimoniali devono essere stipulate, sotto pena di nullità, per atto pubblico.

È inoltre sempre necessaria la presenza di due testimoni (art. 48 Legge notarile n. 89/1913).

La scelta del regime di separazione dei beni può anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio.

Sotto il profilo temporale, le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni sulla divisione dei beni della comunione (art. 194 c.c.).

Esse sono in qualunque momento modificabili, ma le modifiche, anteriori o successive al matrimonio, non hanno effetto se l’atto pubblico non è stipulato con il consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime, o dei loro eredi (art. 163, comma 1, c.c.)

Per poter essere opponibili ai terzi, e quindi efficaci anche nei loro confronti, le convenzioni matrimoniali devono essere annotate a margine dell’atto di matrimonio. In particolare, devono essere annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta del regime di separazione dei beni.

Si tratta di una forma di pubblicità dichiarativa, conditio sine qua non per l’opponibilità della convenzione matrimoniale ai terzi.

Inoltre, se la convenzione matrimoniale ha per oggetto beni immobili, la stessa (e le sue eventuali modifiche) devono anche essere trascritte nei registri immobiliari ex art. 2647 c.c. In questo caso, però, la trascrizione svolge una mera funzione di pubblicità-notizia e non è rilevante per l’opponibilità a terzi.

Questi ultimi possono comunque provare con ogni mezzo la simulazione delle convenzioni matrimoniali (art. 164, comma 1, c.c.).

Il minore ammesso a contrarre matrimonio è capace di prestare il consenso per tutte le relative convenzioni matrimoniali, le quali sono valide se egli è assistito dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale su di lui o dal tutore o dal curatore speciale (art. 165 c.c.).

Analoga norma vale anche per l’inabilitato, per il quale è necessaria l’assistenza del curatore già nominato o, se questi non è stato ancora nominato, di un curatore speciale nominato espressamente a tal fine (art. 166 c.c.).

La comunione legale.

In mancanza di diversa convenzione, i rapporti patrimoniali tra i coniugi sono disciplinati secondo le regole della comunione legale, che attribuisce ad entrambi i coniugi eguali poteri sugli acquisti ed eguali poteri di co-gestione.

La comunione legale tra coniugi presenta dunque i seguenti caratteri:

  1. non è necessaria, perché i coniugi possono adottare convenzionalmente un diverso regime patrimoniale;
  2. non è universale, perché alcuni beni ne sono espressamente esclusi;
  3. è vincolata, nel senso che ciascun coniuge perde la propria autonomia, non potendo acquistare un bene solo per sé (ad eccezione che per i beni personali ex art. 179 c.c.), disporre da solo dei beni comuni, alienare a terzi la quota di sua pertinenza o acquistare beni in quote diseguali rispetto a quelle dell’altro coniuge.

Sono oggetto di comunione legale immediata:

  1. gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali (art. 177, comma 1, lettera a, c.c.);
  2. le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio (art. 177, comma 1, lettera d, c.c.);
  3. i soli utili ed incrementi, qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi (art. 177, comma 2, c.c.).

Sono invece oggetto della cd. comunione de residuo:

  1. i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione (art. 177, comma 1, lettera b, c.c.);
  2. i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati (art. 177, comma 1, lettera c, c.c.);
  3. i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente (art. 178 c.c.).

Con tale concetto si intende una comunione solo eventuale e differita, formata da beni che durante il matrimonio appartengono al coniuge che li ha percepiti e che, solo se non consumati al momento dello scioglimento della comunione, vengono divisi, per la parte residua, in parti eguali tra i coniugi.

Restano invece in ogni caso estranei alla comunione, e dunque costituiscono beni personali di ciascun coniuge (art. 179 c.c.):

  1. i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
  2. i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o con il loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto (è il caso, ad esempio, dei titoli e dei depositi bancari acquistati dal coniuge in costanza di matrimonio con denaro di cui lo stesso era esclusivo titolare prima del matrimonio).

L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili registrati (art. 2683 c.c.), effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f ) dell’art., 179, comma 1, c.c., quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge (art. 179, comma 2, c.c.).

Secondo parte della giurisprudenza, l’intervento adesivo del coniuge non acquirente, il quale dichiari che il bene appartiene esclusivamente all’altro coniuge, è di per sé sufficiente all’esclusione di tale bene dalla comunione legale, indipendentemente dall’effettiva natura personale del bene (Cass. civ., sez. I, 02 giugno 1989 n. 2688).

Secondo altro orientamento più recente, invece, il sistema dell’acquisto solo personale dei beni immobili e mobili registrati, previsto dall’art. 179 c.c., costituisce una fattispecie complessa al cui perfezionamento concorrono contemporaneamente:

  1. la sussistenza dei presupposti di cui alle lett. c), d) e f ) dell’articolo sopra menzionato;
  2. la relativa dichiarazione resa dal coniuge “acquirente esclusivo”;
  3. la partecipazione all’atto dell’altro coniuge, il quale presti adesione alla dichiarazione resa da quello acquirente.

 

Tale adesione assume il contenuto di una ricognizione dell’esistenza dei presupposti per la personalità dell’acquisto, dalla quale non si può in ogni caso prescindere (Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2004 n. 19250).

Tale ultimo indirizzo ha trovato il definitivo avallo anche da parte delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ., Sezioni Unite, 28 ottobre 2009 n. 22755, secondo le quali “in regime di comunione legale, la dichiarazione di assenso del coniuge non acquirente all’intestazione personale del bene all’altro coniuge non vale ad escluderlo dalla comunione in mancanza dell’effettiva natura personale del bene”).

L’amministrazione ordinaria dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi (art. 180, comma 1, c.c.).

Pertanto, ciascuno dei coniugi può, anche disgiuntamente dall’altro, compiere gli atti di utilizzazione, conservazione e manutenzione che riguardano i bisogni ordinari della famiglia, nonché gli atti processuali ad essi relativi.

Il compimento degli atti di straordinaria amministrazione e la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano invece congiuntamente ad entrambi i coniugi (art. 180, comma 2, c.c.).

Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione, nel caso in cui la stipulazione dell’atto sia necessaria nell’interesse della famiglia o dell’azienda inclusa nella comunione ai sensi dell’art. 179, comma 1, lettera d) (art. 181 c.c.).

In caso di lontananza o di altro impedimento di uno dei coniugi l’altro, in mancanza di procura del primo risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, può compiere, previa autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo stabilite, gli atti necessari per i quali è richiesto il consenso di entrambi i coniugi. Nel caso di gestione comune di azienda, uno dei coniugi può essere delegato dall’altro al compimento di tutti gli atti necessari all’attività dell’impresa (art. 182 c.c.).

Se uno dei coniugi è minore, non può amministrare o ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione. Resta sempre salva la facoltà di successiva reintegrazione, quando siano venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione.

L’esclusione opera di diritto riguardo al coniuge interdetto e permane sino a quando non sia cessato lo stato di interdizione (art. 183 c.c.).

Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro (art. 184 c.c.):

  1. se riguardano beni immobili o beni mobili registrati, sono annullabili. L’azione può essere proposta dal coniuge, il cui consenso era necessario, entro il termine di decadenza di un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e, in ogni caso, entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione, l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento della comunione stessa;
  2. se riguardano beni mobili non registrati, restano validi, ma il coniuge che li ha compiuti è obbligato a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente in denaro.

Ai sensi dell’art. 186 c.c., i beni della comunione rispondono:

  1. di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto;
  • di tutti i carichi dell’amministrazione;
  1. delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia;
  2. di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.

Quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti, i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito (art. 190 c.c.).

Si tratta di una responsabilità sussidiaria, perché destinata ad operare solo in caso di preventiva escussione ed incapienza dei beni della comunione, e limitata, nel senso che il patrimonio personale di ciascuno dei coniugi può essere aggredito solo in misura di metà del credito vantato verso la comunione.

In ogni caso, i beni della comunione non rispondono:

  1. delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio (art. 187 c.c.);
  2. delle obbligazioni da cui sono gravate le donazioni e le successioni conseguite dai coniugi durante il matrimonio e non attribuite alla comunione (art. 188 c.c.);
  3. delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi per interessi estranei a quelli della famiglia.

Tali disposizioni hanno indotto parte della dottrina a considerare la comunione legale come un patrimonio autonomo.

Detta autonomia è tuttavia limitata, in quanto il creditore particolare di ciascun coniuge può soddisfarsi sui beni della comunione (art. 189 c.c.):

  1. solo in via sussidiaria, ossia previa infruttuosa escussione del patrimonio personale del socio debitore (si ritiene peraltro che sia onere dell’altro coniuge, non personalmente debitore, indicare quali siano i beni personali dell’altro, da aggredire in sede esecutiva);
  2. solo fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato,
  3. con il limite per cui i creditori della comunione sono in ogni caso preferiti ai creditori personali, se chirografari.

Ai sensi dell’art. 191 c.c., la comunione legale tra i coniugi si scioglie:

  1. per la morte di uno dei coniugi;
  2. per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi;
  3. per l’annullamento del matrimonio;
  4. per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
  5. per la separazione personale dei coniugi (in tal caso, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al Presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione. La separazione personale tra i coniugi cessa immediatamente in caso di riconciliazione degli stessi. Dalla riconciliazione dei coniugi deriva dunque l’immediato ripristino del regime di comunione precedentemente adottato. Tuttavia, in applicazione dei principi di correttezza e di tutela dell’affidamento dei terzi, la giurisprudenza distingue tra effetti interni ed effetti esterni del ripristino della comunione legale. In mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale, derivante da riconciliazione, non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un bene immobile dal coniuge che appariva essere unico ed esclusivo proprietario dello stesso, ancorché successivamente alla riconciliazione: si veda, in tal senso, Cass. civ., sez. I, 1° agosto 2008 n. 21001);
  6. per la separazione giudiziale dei beni (che può essere ottenuta in caso di interdizione o inabilitazione di uno dei coniugi, in caso di cattiva amministrazione da parte di uno di essi o, infine, quando uno dei coniugi non contribuisca ai bisogni della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro);
  7. per il mutamento convenzionale del regime patrimoniale;
  8. per il fallimento di uno dei coniugi.

L’azienda coniugale (art. 177, comma 1, lettera d), c.c.) può inoltre essere sciolta per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162 c.c.

Lo scioglimento della comunione costituisce il presupposto per l’attuazione ex lege dei trasferimenti previsti dalla comunione de residuo e conduce alla divisione del patrimonio comune.

Quest’ultima si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo, secondo i principi generali di cui agli artt. 713 e ss. c.c.

Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge (art. 194 c.c.).

I regimi patrimoniali convenzionali: comunione convenzionale, separazione dei beni e fondo patrimoniale.

Ai sensi dell’art. 210 c.c., i coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’art. 162 c.c., modificare il regime della comunione legale dei beni, purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’art. 161 c.c.

Tale regime viene definito di comunione convenzionale.

Come già si è accennato, l’autonomia dei coniugi in materia non è illimitata.

Stabilisce infatti il medesimo art. 210 c.c. che non possono in ogni caso essere inclusi nella comunione convenzionale i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori; i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge e i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa (ossia i beni di cui all’art. 179, comma 1, lettere c), d) ed e) c.c.).

Non sono inoltre derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote, limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale.

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Ai sensi dell’art. 215 c.c., “i coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”, optando quindi per un regime di separazione dei beni.

Per effetto di tale scelta, ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo (art. 217 c.c.).

In forza di procura, uno dei coniugi può amministrare i beni dell’altro con o senza l’obbligo di rendere conto dei frutti: nel primo caso egli è tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato, nel secondo è tenuto a consegnare solo i frutti esistenti, mentre non risponde per quelli consumati.

Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni, risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti.

Il coniuge che gode dei beni dell’altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario (art. 218 c.c.).

Il coniuge può provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene.

I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi (art. 219 c.c.): infatti, anche i coniugi che abbiano prescelto il regime di separazione possono acquistare beni in comune. In tal caso, trovano applicazione le norme sulla comunione ordinaria (artt. 1100 e ss. c.c.), nell’ambito della quale ciascun coniuge conserva la totale disponibilità della propria quota.

Non è invece ammessa una coesistenza dei regimi di separazione dei beni e di comunione legale.

La scelta del regime di separazione dei beni può avvenire o per atto pubblico, come per qualunque altra convenzione matrimoniale, o mediante apposita dichiarazione inserita nell’atto di celebrazione del matrimonio (art. 162, comma 2, c.c.).

In ogni caso, a fini di pubblicità dichiarativa, e dunque per l’opponibilità a terzi, essa deve essere annotata a margine dell’atto di matrimonio.

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Il fondo patrimoniale (artt. 167 e ss. c.c.) è un complesso di beni immobili, mobili registrati o titoli di credito destinato a soddisfare i bisogni della famiglia.

Esso non si sostituisce, ma piuttosto va ad integrare il regime patrimoniale primario adottato dai coniugi (comunione legale, comunione convenzionale o separazione dei beni).

La costituzione del fondo patrimoniale può avvenire sia da parte dei coniugi, singolarmente o congiuntamente, sia da parte di un terzo.

I coniugi possono costituire il fondo patrimoniale unicamente per atto pubblico, mentre il terzo può farlo sia per atto pubblico (in tal caso, la costituzione del fondo patrimoniale si perfeziona unicamente con l’accettazione dei coniugi, effettuabile sia nello stesso atto, sia con atto pubblico posteriore), sia per testamento.

I titoli di credito devono essere vincolati rendendoli nominativi, con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo.

La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione.

La loro amministrazione è regolata dalle norme relative all’amministrazione della comunione legale ed i frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale devono essere impiegati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia..

Caratteristica saliente del fondo patrimoniale è quella di costituire un patrimonio separato, in quanto i beni in esso compresi si sottraggono al principio della garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c. (secondo cui il debitore risponde del proprio inadempimento con tutti i propri beni presenti e futuri).

Stabilisce infatti l’art. 170 c.c. che “l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

In base a tale disposizione, l’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale è consentita quindi solo per debiti contratti per far fronte ad esigenze familiari.

L’art. 169 c.c. stabilisce inoltre che, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente.

La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 171 c.c.).

Tuttavia, se vi sono figli minori, il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tale caso il giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo e può altresì attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.

Se non vi sono figli, si applicano le disposizioni sullo scioglimento della comunione legale.

Anche la costituzione del fondo patrimoniale, per risultare opponibile a terzi, deve essere annotata a margine dell’atto di matrimonio (pubblicità dichiarativa).

Se il fondo patrimoniale ha ad oggetto beni immobili, l’atto costitutivo dello stesso deve altresì essere trascritto nei registri immobiliari: si tratta, tuttavia, di una mera pubblicità-notizia, che non condiziona l’opponibilità a terzi.

L’impresa familiare.

Si definisce impresa familiare l’impresa in cui prestano attività di lavoro continuativo il coniuge dell’imprenditore, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo (art. 230-bis c.c., così come aggiunto dalla Riforma del diritto di famiglia di cui alla Legge 151/1975).

Due sono gli elementi costitutivi dell’impresa familiare:

  1. un rapporto familiare: oltre all’imprenditore, partecipano all’impresa il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo;
  2. l’attività di lavoro nell’impresa, svolta in modo continuativo.

In presenza di tali presupposti, la nascita dell’impresa familiare avviene automaticamente, a prescindere dalla volontà dei suoi membri: essa, pertanto, non riveste natura negoziale, ma trova il proprio fondamento nel vincolo di solidarietà familiare (GAZZONI).

Particolarmente dibattuta è la natura di impresa individuale o di impresa collettiva di tale istituto: nel primo caso, titolare dell’impresa è unicamente l’imprenditore, unico soggetto ad assumere responsabilità verso i creditori e a poter eventualmente fallire, mentre nel secondo titolare dell’impresa è la “famiglia”, in comunione di tutti i singoli componenti del gruppo, tutti considerabili quali imprenditori solidalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni dell’impresa familiare (e, pertanto, tutti potenzialmente assoggettabili a fallimento).

Qualunque sia la configurazione adottata, quel che è certo è che dalla partecipazione all’impresa familiare derivano al soggetto alcuni diritti, tra i quali, in particolare, il diritto al mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia, e il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Tale diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati dalla norma, con il consenso di tutti i partecipi.

È dunque esclusa qualsiasi presunzione di gratuità del lavoro prestato, anche quando non vengano avanzate specifiche richieste retributive.

Il lavoro della donna è espressamente dichiarato equivalente a quello dell’uomo.

Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà (i.e.: responsabilità genitoriale) su di essi.

L’art. 230-bis c.c. riconosce inoltre ai familiari partecipanti all’impresa un diritto di prelazione sull’azienda, in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda. Si applica, nei limiti della compatibilità, la disposizione dell’art. 732 c.c. in materia di prelazione tra coeredi.

Occorre infine ricordare l’inserimento, da parte della cd. “Legge Cirinnà” (Legge 76/2016), di una nuova disposizione del Codice civile, ossia l’art. 230-ter c.c., secondo cui “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.