L’art. 64 del D.Lgs. 546 del 31 dicembre 1992 dispone che :

  1. Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado dalle commissioni tributarie possono essere impugnate ai sensi dell’articolo 395 del codice di procedura civile. 
  2. Le sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello possono essere impugnate per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 del codice di procedura civile purché la scoperta del dolo o della falsità dichiarata o il recupero del documento o il passaggio in giudicato della sentenza di cui al numero 6 dell’art. 395 del codice di procedura civile siano posteriori alla scadenza del termine suddetto. 
  3. Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il termine per l’appello il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso.

Tale articolo, inserito nella Sezione IV del Capo III, dedicato alle impugnazioni, reca la disciplina delle sentenze revocabili e dei motivi di revocazione. 

Il decreto di riforma ha modificato il comma 1, con una formulazione analoga a quella dell’articolo 395 c.p.c., al fine di eliminare le incertezze interpretative a cui aveva dato luogo la precedente formulazione dell’articolo 64. 

La precedente versione prevedeva, infatti, che : “Contro le sentenze delle commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi dell’art. 395 del c.p.c.”.

Sulla scorta della formulazione normativa precedente, si ammetteva la revocabilità della sentenza tributaria per il solo motivo contemplato dall’art. 395, n. 5, c.p.c.. 

In ragione della nuova formulazione, invece, le “sentenze pronunciate in grado di appello ovvero in unico grado dalle commissioni tributarie” possono essere oggetto di ricorso per revocazione ordinaria (nn. 4 e 5 dell’articolo 395 c.p.c., la cui proposizione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza) ovvero straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6 del medesimo articolo, che può proporsi anche dopo il passaggio in giudicato della stessa).

Di contro, le sentenze pronunciate dalla commissione tributaria provinciale, disciplinate dal comma 2 dell’articolo 64, sono soggette solo a revocazione straordinaria, in quanto i motivi di revocazione ordinaria devono essere fatti valere con l’appello. 

La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per Cassazione.

Inoltre, la notificazione di un ricorso per revocazione è idonea a determinare, sia per il notificante che per il destinatario della notificazione, la decorrenza del termine breve per l’impugnativa della pronuncia, come chiarito più volte dalla Corte di Cassazione (Cass. civ. 22 marzo 2013, n. 7261; Cass. civ. 19 giugno 2007, n. 14267). 

Nel sistema tributario, l’unico mezzo di gravame straordinario è la revocazione straordinaria, di cui all’art. 395 c.p.c. nn. 1, 2, 3 e 6. 

Come tale, è esperibile successivamente al formarsi della cosa giudicata, sia entro i termini che decorrono dal giorno in cui si è avuta conoscenza del vizio, sia senza riguardo ad alcun termine. 

La revocazione è, quindi, considerata un mezzo di impugnazione a carattere eccezionale, in grado di evitare l’ingiustizia di una sentenza che, se non impugnata, è inidonea a ricostruire quell’ordine giuridico che i suoi vizi o la sua ingiustizia hanno violato.

La revocazione ad istanza di parte, oltre a permettere di impugnare le sentenze che non siano ulteriormente impugnabili, legittima la proposizione del ricorso avverso quelle sentenze che non siano state impugnate con i mezzi ordinari di gravame ed esclusivamente per errori di fatto, e non per errori di diritto. 

Alcuni Autori hanno individuato nella revocazione, in determinate ipotesi, uno strumento per porre rimedio anche all’errore nel giudizio di diritto.

Altri hanno, invece, negato il precedente assunto, ritenendo che, nel processo davanti alle commissioni tributarie, la revocazione concerna solamente decisioni e punti di decisioni involgenti accertamenti di fatto e non possa mai riguardare unicamente questioni di diritto.  

Sono, comunque, concordi nel ritenere che la funzione della revocazione sia quella di eliminare e sostituire la sentenza impugnata con un’altra sentenza di pari grado, ma che possa definirsi “giusta”, eliminando in definitiva la sentenza viziata da errori nel giudizio di fatto che la rendono ingiusta.

Non è ritenuto esperibile il ricorso per revocazione avverso l’ordinanza di sospensione della riscossione pronunciata dalla Commissione Tributaria Provinciale ex art.47 del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 dal momento che tale provvedimento è espressamente definito come “non impugnabile”, ed atteso, altresì, oltre alla non irrimediabilità delle eventuali conseguenze, che generalmente il rimedio è considerato proponibile solo avverso decisioni, e non anche contro altri provvedimenti, quali, appunto, ordinanze e decreti, spesso, di per sé, impugnabili o reclamabili. (Commissione Tributaria Centrale, 8 settembre 1982, sent. n.4290).

Si ritiene, invece, ammissibile la revocazione della sentenza resa in esito al giudizio di ottemperanza ex art. 70 D.lgs. 31 dicembre 1992 n.546, qualora contenga statuizioni in merito integranti il giudicato di cui è stata richiesta l’ottemperanza.

Inoltre, la revocazione è un mezzo di gravame “a critica vincolata” perché è  ammissibile per un numero ristretto e tassativo di motivi elencati dall’art. 395 c.p.c., non suscettibili di interpretazione analogica.

Tale mezzo di gravame trova attuazione in un giudizio articolato in una prima fase rescindente, avente ad oggetto la delibazione del motivo di revocazione, ed in una seconda fase rescissoria, che si svolge unicamente in caso di esito positivo della prima, consistente nel riesame del rapporto sostanziale oggetto della causa e destinata a concludersi con una sentenza sostitutiva.

La fase rescindente (iudicium rescindens), è finalizzata ad accertare la fondatezza del motivo sul quale si è incentrata l’impugnazione e determina l’annullamento della sentenza impugnata. 

La successiva fase rescissoria (iudicium rescissorium), si incentra invece nella decisione di merito che determina, a seguito dell’accoglimento dell’impugnazione, che la sentenza emessa vada a sostituirsi a quella annullata nella fase precedente.

Revocazione ordinaria e straordinaria.

L’art. 64 disciplina la revocazione ordinaria al primo comma e la revocazione straordinaria al secondo, in relazione alla distinzione fra vizi “palesi” e vizi “occulti”.

I vizi elencati ai numeri 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. sono i c.d. vizi “palesi”. 

Questi si manifestano quando la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.

I motivi di revocazione.

a)Il dolo della parte. 

Il primo motivo di revocazione straordinaria disciplinato al numero 1 dell’art. 395 c.p.c., inerisce l’ipotesi in cui la sentenza sia revocabile,  in quanto effetto “del dolo di una delle parti in danno dell’altra”, ovvero quando la parte ponga in essere un comportamento od un’attività fraudolenta, in cui si concretizzino artifizi o raggiri idonei a determinare l’errore del giudice, quali il nesso di causalità tra il dolo della parte e la decisione del giudice.

Affinché si realizzi la fattispecie disciplinata dal numero 1 dell’art. 395 c.p.c. non è sufficiente provare la semplice scorrettezza, il comportamento sleale o, ancora, l’aver dichiarato false affermazioni, ma è necessario l’intento di sviare l’avversario in modo tale che il giudice risulti impossibilitato a conoscere la realtà e, di conseguenza, la sua decisione sia viziata. 

Neppure è sufficiente violare esclusivamente l’obbligo di lealtà e probità previsto all’art. 88 c.p.c., e neppure è sufficiente il mendacio, le false dichiarazioni e le reticenze. 

Si richiede che vi sia un’attività intenzionalmente fraudolenta che sia volta a trarre in inganno la controparte ed il giudice, oppure il comportamento sleale di una parte che escluda o limiti il diritto a difesa dell’avversario con la produzione di documenti o con la proposizione di un’eccezione oltre il termine, o con la dolosa sostituzione, introduzione od asportazione di un atto dal fascicolo.

Realizzano fattispecie di dolo revocatorio l’aver esercitato violenza sulla controparte, affinché non produca un documento in giudizio; l’aver esercitato violenza sulla controparte al fine di farle dichiarare fatti a sé sfavorevoli; l’aver corrotto il difensore della controparte o aver esercitato su di lui violenza, allo scopo di determinare in maniera fraudolenta l’esito della causa. (Cass., 16 marzo 1955, sent. n. 779, che comunque evidenzia come non si possa considerare dolo revocatorio la sottrazione di un documento dal fascicolo fintanto che la parte aveva la possibilità di controllare la documentazione depositata in corso di causa). 

Affinché si possa definire dolo revocatorio di cui all’art. 395, numero 1, c.p.c., non basta però la sussistenza di un’attività deliberatamente fraudolenta della parte, essendo necessario che essa sia stata determinante per il convincimento del giudice che abbia poi maturato la propria decisione.

  1. b) La falsità della prova 

Il presente motivo riguarda le prove che abbiano concorso al convincimento del Giudice e fondato la sentenza, e che siano successivamente riconosciute false dalla parte a favore della quale la prova medesima è stata utilizzata, non da quella che l’ha prodotta o dall’autore del falso.

Il motivo previsto dall’art. 395 numero 2 c.p.c. comporta la necessità che il riconoscimento o la dichiarazione della falsità della prova debba avvenire in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata, e che tale circostanza debba essere accertata da una sentenza civile o penale passata in giudicato.

La conoscenza o la dichiarazione della falsità della prova avvenute in un momento precedente alla pronuncia della sentenza, comporterebbe la necessità che la parte lesa da tale circostanza desse prova di non esserne a conoscenza.  

Il riconoscimento della falsità della prova deve provenire dalla parte che ne ha beneficiato, non essendo sufficiente, a tal proposito, che il riconoscimento provenga dall’autore della falsità, soggetto terzo rispetto al procedimento.

Non rileva, ai fini della revocazione, la sentenza dichiarativa delle falsità pronunciata in un giudizio in cui non abbia preso parte nessuno dei soggetti destinatari della sentenza revocanda.  

La prova falsa deve essere una componente, non necessariamente l’unica, del convincimento del giudice, per cui il principio porta ad escludere dal novero delle prove di cui al secondo motivo revocatorio tutti quegli atti che non abbiano natura istruttoria, come ad esempio la falsità della relata di notifica dell’atto, e soprattutto il fatto che le prove, sulla base delle quali si è giudicato, debbano essere dichiarate false con sentenza civile o penale passata in giudicato.

La prova dell’ignoranza della declaratoria della falsità prima della decisione, sarà data soprattutto a mezzo di presunzioni. 

La falsità può essere riferita a tutte le prove, anche se, per il carattere documentale del processo tributario, riguarderà solo i documenti e la consulenza tecnica disposta dalla Commissione.

La falsità della consulenza tecnica, può annoverarsi, nel motivo revocatorio in esame, nella forma della falsità della relazione del consulente o dell’organo tecnico, sia materiale che ideologica, ed il riconoscimento della falsità della prova è valido se proveniente dalla parte che ha utilizzato la prova a proprio favore, e non quello proveniente dal suo autore, rimasto estraneo al processo, anche se interessato al contenuto della prova stessa. 

La falsità potrà presentarsi sia nella forma del falso materiale, sia in quella del falso ideologico.

Il fatto che si parli di decisione pronunciata “in base” a prove riconosciute o dichiarate false significa che è necessario che tale prova abbia concorso a formare il convincimento, non anche che sia stata decisiva data la diversa terminologia usata dal legislatore rispetto al successivo numero 3 con riguardo ai documenti.

  1. c) Il reperimento di uno o più documenti decisivi

A norma dell’art. 395 numero 3 c.p.c., la sentenza può essere revocata in via straordinaria se, successivamente alla sua emanazione, “sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario”. 

La categoria di documenti rilevante per gli effetti di tale norma si identifica con quella riferibile a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare, in qualsiasi forma, la percezione di un fatto storico, al fine di rappresentarlo in avvenire, ovvero con ogni documento che sia rappresentativo di un fatto decisivo, non essendo, quindi, indispensabile che tale atto sia sottoscritto, datato o autenticato. 

La “decisività” del documento reperito successivamente alla pronuncia della sentenza consiste nel fatto che sarebbe stato idoneo a formare un diverso convincimento del giudice, ed a determinare una diversa decisione, con esito, quindi, favorevole per la parte che ha proposto la revocazione. 

È, altresì, necessario che si tratti di documento per il quale la parte sia nell’impossibilità di produrre nel giudizio di merito, per motivi non dipesi da propria colpa, ma dal fatto dell’avversario o da cause di forza maggiore, elemento che non ricorre nel momento in cui emerga che la parte avrebbe potuto accertare l’esistenza del documento attraverso un’elementare indagine. 

Parte della dottrina ha escluso che il documento ritrovato possa essere strumento per addurre fatti nuovi, contrariamente a diversa impostazione, che ne consente l’introduzione, purché tali documenti apportino fatti nuovi che erano stati ignorati senza colpa da colui che agisce in revocazione. 

La giurisprudenza ha ritenuto che la decisività del documento alla base della revocazione, presupponga non solo la novità delle circostanze, dal momento che non possono rilevare quelle che sono state oggetto di precedenti giudizi, ma anche la loro idoneità a mutuare sostanzialmente un punto decisivo nel senso favorevole alla parte che propone la revocazione, anche se non in termini tali da creare un’antitesi insuperabile tra quanto deciso e quanto si sarebbe potuto decidere se il documento fosse stato noto, e che i nuovi documenti debbano essere idonei a produrre una decisione diversa, mediante la prova diretta dei fatti di causa; va, quindi, escluso quando essi forniscano dei semplici elementi indiziari, utilizzabili per il convincimento su quei fatti solo in concorso con altri elementi.

La “forza maggiore”, in relazione all’impossibilità di produzione in giudizio del documento decisivo, deve consistere non tanto quale causa della indisponibilità, ma nell’ignoranza dell’esistenza o del luogo di conservazione del documento stesso.

Ed invero, la parte che agisce in revocazione, ha l’onere di dimostrare che l’ignoranza circa l’esistenza dei documenti e dei luoghi ove essi si trovano, non dipende da sua colpa. 

Ciò indica la rilevanza della mancata conoscenza dell’esistenza del documento e non la semplice mancanza della sua disponibilità, giacché, in tal caso, sarebbe stato possibile ricorrere alla richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c..

Né vale, a contrario, considerare la possibilità di rifiuto di esibizione da parte dell’avversario, in quanto tale comportamento è censurabile ex art. 116 c.p.c.. 

A diversa soluzione si dovrebbe giungere qualora il rifiuto provenga da un terzo.

Più precisamente, nel processo tributario “la revocazione, per il caso di documenti di non ignorata sussistenza, sarà comunque impedita dalla non ordinata esibizione da parte della Commissione in tutti i casi in cui tale esibizione era normativamente possibile”. 

I documenti devono essere decisivi, ossia devono incidere direttamente sui fatti di causa e non contenere elementi meramente indiziari. (Cass. SS. UU. 22 novembre 1984, sent. n. 5990).

Per essere decisivo, il documento deve essere tale che, se fosse stato acquisito agli atti, sarebbe stato idoneo a fondare un diverso convincimento del Giudice e, quindi, a condurre ad una diversa decisione.

Giurisprudenza maggioritaria ritiene che il termine per proporre la revocazione decorra dal momento in cui la parte abbia avuto conoscenza del documento e che sulla stessa incomba l’onere probatorio della circostanza.

Tale posizione appare però in contrasto con il dato normativo che, all’art. 395 c.p.c., parla di documenti “trovati” e, in particolare, contrasta con l’art.396 c.p.c., pure esplicitamente richiamato, il quale fa riferimento al momento del recupero dei documenti.

La data del ritrovamento deve essere indicata nel ricorso, in modo da consentire al Giudice la valutazione dell’ammissibilità del mezzo revocatorio.

L’apprezzamento del giudice circa l’efficacia probatoria del documento, in quanto giudizio di fatto, non è censurabile in sede di legittimità.

  1. d) Errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa 

Ai sensi dell’art. 395 numero 4, c.p.c., si è in presenza di errore revocatorio che dà origine ad un motivo di revocazione ordinaria, quando vi sia stata erronea percezione degli atti di causa che ha generato due diverse rappresentazioni dello stesso atto o fatto di causa e su di esso sia stata posta in essere la sentenza oggetto di revocazione.

L’errore revocatorio deve palesarsi con assoluta evidenza e semplice rilevabilità, sulla base del solo confronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti della causa, senza necessità di argomentazioni introduttive o di particolari indagini ermeneutiche.

Il nesso di causalità fra la percezione dell’errore e la decisione oggetto di revocazione deve evidenziare in modo deciso ed incontrovertibile che, senza il suddetto errore, la sentenza sarebbe stata diversa. 

Pertanto, il rimedio della revocazione è concesso non contro errori di criterio nell’estimazione del fatto, quanto, piuttosto, contro l’errore di fatto propriamente detto; quando, cioè, il giudice non ha potuto conoscere ed esaminare gli elementi costitutivi del fatto, e, conseguentemente, statuire sul vero fatto controverso.  

Il tipico errore di interpretazione del fatto, deve essere oggetto di ricorso per Cassazione; mentre, se il giudice fonda il proprio convincimento sull’inesistenza di un documento fra gli atti della causa, documento che però risulta essere stato prodotto in giudizio, la sentenza risulta viziata da un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c..

Si può, quindi, affermare che l’errore di fatto consiste in una sorta di divergenza fra due diverse rappresentazioni del medesimo oggetto, emergenti una dalla sentenza, e l’altra dai documenti e dagli atti processuali. 

Nel processo tributario, ai sensi dell’art. 64, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che fa proprie le regole dell’art. 395 n. 4, c.p.c., l’errore revocatorio presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dai documenti ed atti processuali, con assoluta immediatezza e senza necessità di particolari indagini ermeneutiche o di argomentazioni introduttive. 

Un siffatto contrasto non è, pertanto, ravvisabile nell’errore che costituisce frutto di apprezzamento, implicito o esplicito, delle risultanze processuali. 

L’errore revocatorio può anche consistere in un errato conteggio aritmetico, mentre non configura tale fattispecie il mancato esame di questioni di merito sollevate in un atto processuale, né la mancata considerazione di un documento depositato ma non rinvenuto successivamente nel fascicolo d’ufficio a causa di colpa della segreteria. 

La giurisprudenza della Suprema Corte ha distinto le ipotesi in cui l’errore generi il procedimento revocatorio e quelle in cui possa essere oggetto di ricorso per Cassazione, precisando che l’errore revocatorio ricada su fatti concernenti il rapporto sostanziale e riguardi gli atti e i documenti della causa, mentre l’errore che dà origine al ricorso per Cassazione concerna un fatto inerente il diritto fatto valere.

Di conseguenza, il giudizio di revocazione è ammesso non già quando sia stata viziata la valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, ma quando sia frutto di una falsa percezione di ciò che emergeva dagli atti. 

L’errore rilevante ai nostri fini, non è dunque l’errore di fatto tout court ma è un “errore di fatto specialissimo”; non è un errore di giudizio, per il quale si deve ricorrere all’ordinario rimedio del ricorso per Cassazione, non è un errore che cade sull’interpretazione di un documento o di un atto, bensì sulla percezione delle risultanze processuali. 

Non deve essere stato oggetto di un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. 

Si tratta, in sostanza, di un errore di carattere materiale, di immediata percezione attraverso gli atti processuali, commesso dal giudicante, il quale, nella sua decisione, afferma che dai documenti di causa emerge l’esistenza di un fatto che tali documenti negano, e viceversa. 

Tuttavia, esso va tenuto distinto dall’errore materiale in senso stretto, dal momento che, in questo, vi è un mero contrasto tra pensiero del giudicante e la sua esternazione, mentre nell’errore revocatorio il contrasto si verifica nella formazione della decisione e si realizza tra il pensiero del Giudice e la realtà emergente dagli atti processuali. 

In definitiva, il fatto rappresentato nella decisione è contrario a quello risultante in modo incontestabile dagli atti o documenti della causa.

  1. e) Contrasto con precedente giudicato 

L’art. 395 numero 5, c.p.c., rappresenta il secondo caso di revocazione ordinaria.

In giurisprudenza, pur contrastato, prevale l’orientamento teso a ritenere che la revocazione della sentenza, per tale motivo revocatorio, sia azionabile esclusivamente in ipotesi di contrasto con un precedente giudicato “esterno”, formatosi in un giudizio separato e la cui esistenza non sia rilevabile d’ufficio, a differenza del giudicato “interno” formatosi nello stesso processo, e rilevabile d’ufficio. 

Ne consegue che, per la proposizione del procedimento revocatorio ex art. 395 n. 5, c.p.c., è necessario che l’eccezione di giudicato esterno non sia stata azionata davanti al giudice che abbia pronunciato la sentenza revocabile, e che debba essere preesistente alla sentenza che si impugna, cioè deve essersi formato precedentemente alla pubblicazione di quest’ultima; inoltre, la prova del passaggio in giudicato della sentenza cronologicamente anteriore deve in ogni caso essere fornita da colui che agisce in revocazione.

L’ammissibilità della revocazione ex art. 395, n.5 è presupposta non solo nel caso in cui le due sentenze tra loro contrastanti abbiano statuito su un rapporto pregiudiziale a quello oggetto della seconda pronuncia, o comunque quest’ultima abbia deciso su un rapporto dipendente dal diritto su cui si è formato il precedente giudicato, ed è  necessario che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che tra le due vicende sussista una concordanza degli estremi sui quali deve essere espresso il secondo giudizio.

Il giudicato con cui si pretende sussistere il contrasto deve essersi perfezionato in un momento antecedente alla sentenza revocanda, perché solo così si sarà in presenza di quel vizio di eccesso di potere giurisdizionale che fonda la pretesa impugnazione. 

Non si ritiene esperibile la revocazione avverso le decisioni del giudice tributario divenute definitive prima della conclusione del processo penale, quando il giudicato formatosi in quest’ultimo giudizio avrebbe potuto vincolare la decisione del giudice tributario nei limiti di cui all’art.12 del D.lgs. 10 luglio 1982, n.429.

La soluzione, formalmente corretta considerata la tassatività dei motivi di revocazione, sostanzialmente comporta una carenza di tutela delle parti.

  1. f) Dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato. 

Costituisce dolo del giudice, rilevante ai fini della revocazione, l’intento fraudolento o la collusione che coscientemente e volontariamente determinino il giudice a pronunziare una sentenza ingiusta, sicchè l’atteggiamento psicologico del giudicante deve operare in modo da falsare il corretto iter decisionale, così da restituire causa diretta e determinante della sentenza ingiusta. 

Il nesso di causalità fra il dolo o la collusione, l’inganno del giudice e la sentenza ingiusta, che ne è la conseguenza, deve essere di natura psicologica, non giuridica, perché la sentenza in tal caso è frutto di un errore, e l’errore è vizio della volontà, il cui prius sia in false rappresentazioni o nella mancata conoscenza di un fatto o di una norma; il che interessa le facoltà di sentire e di percepire. 

Il predetto nesso di causalità non sussiste quando, pur avendo potuto il giudice tenere conto di tutti i fatti giuridici rilevanti, la sentenza sia ingiusta.

In tal caso, infatti, l’ingiustizia della sentenza è effetto soltanto di errore di diritto: questo è solo del giudice, il quale deve conoscere la legge ed accertarne la concreta volontà, e non può essere considerato in mero rapporto occasionale con manchevoli od errate difese in diritto delle parti. 

Il rapporto tra la revocazione e l’appello è di sussidiarietà. 

L’art. 396 c.p.c. subordina la revocabilità delle sentenze di primo grado per i motivi di cui ai nn. 1,2,3, e 6 dell’art. 395 c.p.c., alla scadenza del termine per appellare, ma anche al fatto che la scoperta del dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui al n.6 siano avvenuti dopo tale scadenza. 

Di fatto, dunque, sancisce l’assorbimento dei motivi di revocazione nell’appello, in forza del suo carattere di gravame a critica illimitata. 

Inoltre, il secondo comma dello stesso articolo prevede che se la scoperta dei vizi idonei a far decorrere i termini per la proposizione della revocazione straordinaria si verifica durante la pendenza del termine per proporre appello, tale termine è prorogato dal giorno dell’avvenimento, in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso. 

Ciò all’evidente fine di far valere il motivo di revocazione con l’appello.

Diversamente per quanto riguarda il rapporto con il ricorso per Cassazione, che si configura come concorrente.

Esso è regolato dall’art. 398 c.p.c., il cui ultimo comma consente che possa essere proposta la revocazione contro le sentenze soggette a ricorso per Cassazione ed il giudice dinanzi al quale è proposta la revocazione, su istanza di parte, possa sospendere il termine per il ricorso per Cassazione o lo stesso procedimento, se già iniziato, fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora la ritenga non manifestamente infondata. 

L’inapplicabilità dell’art. 398 c.p.c. al processo tributario consentirebbe di dar corso ad una biforcazione dei giudizi di impugnazione della stessa sentenza, con conseguente inutilità del giudizio di Cassazione qualora si concludesse positivamente quello per revocazione, oltre a venire meno il giudizio di uniformità del processo tributario con quello civile. Tuttavia data la diversità di oggetto tra i due giudizi, le esigenze maggiormente rispettate attraverso questa soluzione, saranno quelle della prevalenza del giudizio di merito su quello di legittimità e di rispetto del principio dell’economia processuale. 

Il ricorso per Cassazione proposto dopo l’ordinanza di sospensione non è inammissibile, ma resta quiescente fino al venir meno della sospensione.

Per la prosecuzione del processo non occorrerà un formale atto di riassunzione ma una semplice istanza di trattazione. 

Qualora, però, detta sospensione venisse negata, i due procedimenti si svolgeranno contemporaneamente e in maniera del tutto autonoma. 

Nulla dispone la legge ai fini di coordinamento tra i due procedimenti. 

Alla luce di quanto sopra considerato, si deve ritenere, che, qualora intervenisse per prima la sentenza sulla domanda di revocazione, e questa passasse in giudicato sostituendo la pronuncia impugnata (sugli stessi capi), con il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità non avrà più ragione di proseguire e dovrà essere emanata una pronuncia di cessazione della materia del contendere. 

Se, invece, sarà il giudizio di cassazione a giungere per primo ad una conclusione, in forza della precedenza logica ricnosciuta al giudizio di revocazione, questo troverà comunque regolare svolgimento e, in caso di esito positivo, la pronuncia emanata in sede di cassazione rimarrà priva di effetti.

Ai fini della cessazione dell’effetto sospensivo non è necessario il passaggio in giudicato della sentenza di revocazione: ne deriva che il procedimento per cassazione potrà essere instaurato o proseguire qualora la sentenza di revocazione venga a sua volta impugnata con ricorso per cassazione, nel qual caso i due ricorsi dovrebbero essere riuniti. 

La norma non risulta aver trovato ampia applicazione concreta. 

La ragione risiede soprattutto nella difficoltà ad accertare il dolo del singolo giudice all’interno dell’organo collegiale giudicante nel processo tributario.

Dott.ssa Eleonora Cucchi

Unicusano – Roma