L’espropriazione di quote di società.
Le azioni relative all’espropriazione di quote di società, devono atteggiarsi in considerazione della forma rivestita dalla società, sulla modulazione della responsabilità sociale e dei soci, sulla disciplina che il codice di rito e la normazione speciale prevedono in materia. L’analisi in oggetto prenderà quindi le mosse da una breve disamina di quelle che sono le caratteristiche precipue delle varie forme sociali sulle quali gli atti esecutivi andranno ad incidere.
La società semplice.
La società semplice non può certo dirsi uno schema frequentemente utilizzato nella prassi negoziale. La limitazione è invero immanente nella natura esclusivamente non commerciale che ne preclude una più vasta fruizione. In estrema sintesi, salvi gli approfondimenti del caso in sede di considerazione dell’oggetto sociale, lo schema della società semplice parrebbe attagliarsi alla sola attività agricola.
Il codice civile prevede per la società semplice un’ampia ed articolata disciplina dall’art. 2251 al 2290 c.c.. Essa infatti costituisce lo schema di riferimento per gli altri tipi di società a base personale al quale gli ulteriori tipi fanno rinvio. In altri termini, il legislatore ha scelto di individuare nella disciplina dettata per la società semplice la normativa di riferimento, segnalando di volta in volta per gli altri tipi un eventualmente divergente regolamentazione (l’art. 2293 c.c. per le società in nome collettivo e l’art. 2315 c.c. per la società in accomandita semplice).
Se da un punto di vista pratico l’analisi della società semplice possiede un aspetto non particolarmente influente data l’incidenza socio-economica invero modesta, non altrettanto può dunque dirsi in relazione alla portata giuridica della normativa che ad essa si riferisce. Al fine di analizzare la possibilità di tutelare il credito fiscale, appare necessario distinguere le ipotesi in cui debba rispondere dell’adempimento la società, il socio, oppure eventualmente il socio per il debito sociale.
Relativamente alla responsabilità per le obbligazioni sociali, l’art. 2267 c.c dispone che i creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Il secondo comma precisa che per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.
Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
Ne consegue che, per i debiti contratti dalla società, i soci rispondono con tutto il patrimonio personale e non soltanto nei limiti del proprio conferimento, e quindi, l’ordinamento predispone per i creditori sociali, oltre la garanzia del patrimonio sociale, anche la garanzia personale e solidale dei soci che hanno agito in nome e per conto della società (autonomia patrimoniale imperfetta).
La responsabilità personale dei soci, ancorché illimitata e solidale, è però sussidiaria; i creditori sociali, quindi, possono promuovere azioni esecutive nei confronti del socio, previa escussione (negativa) del patrimonio sociale, come previsto dell’art. 2268 c.c., ai sensi del quale, il socio richiesto del pagamento di debiti sociali può domandare, anche se la società è in liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi.
L’esistenza e la concreta indicazione di beni societari facilmente aggredibili opera dunque come fatto impeditivo dell’esecuzione forzata contro il socio.
L’azione esecutiva del creditore personale del socio.
Al creditore personale del socio non è data la possibilità di procedere a tutela del proprio credito, sul patrimonio della società semplice, ma, secondo il dettato dell’art. 2270 c.c., finché dura la società, il creditore potrà far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio debitore, sottoponendoli a pignoramento nelle forme di cui all’art. 543 c.p.c. (pignoramento presso terzi), oppure ponendo in essere atti conservativi sulla quota spettante al debitore nel corso della liquidazione della società o anche indipendentemente da questa.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 2270 c.c., nell’eventualità in cui gli altri beni del debitore siano insufficienti a soddisfare il credito, quindi accertata una situazione di incapienza patrimoniale personale del socio debitore, il creditore particolare del socio potrà domandare in ogni tempo la liquidazione della quota del suo debitore.
La quota dovrà essere liquidata entro tre mesi dalla domanda, salvo che sia deliberato lo scioglimento della società, tuttavia osservando come il diritto del creditore sia esercitabile solo in quanto la quota possieda un valore attivo in relazione alla situazione patrimoniale della società.
Quando il valore della partecipazione fosse infatti negativo (sostanziandosi nell’obbligo per il socio di effettuare nelle casse sociali il versamento della quota parte delle passività a carico dell’ente) è palese come di nessuna utilità per gli instanti sarebbe insistere nella richiesta di liquidazione della partecipazione del debitore.
Ciò premesso, va riferito come il creditore particolare del socio non possa soddisfarsi direttamente sulla quota facente capo a costui.
La richiesta di liquidazione del valore della partecipazione indirizzata alla società possiede piuttosto la valenza di una causa di esclusione di diritto del socio.
In conseguenza di essa la società è tenuta, ai sensi del secondo comma dell’art. 2270 c.c., a procedere alla liquidazione della quota entro tre mesi dalla domanda. Soltanto in esito alla conclusione della procedura di liquidazione la società verserà al creditore la somma di denaro corrispondente al valore della partecipazione del socio debitore, valutata al tempo della presentazione della domanda.
L’ultimo comma dell’art. 2270 c.c. stabilisce, come detto, l’obbligo della società di effettuare la liquidazione entro tre mesi dalla domanda, facendo tuttavia salva la possibilità che i soci abbiano a decidere lo scioglimento dell’ente. In quest’ultima ipotesi, il creditore istante dovrà dunque attendere che si compia la liquidazione della società per potersi alfine soddisfare sulla parte spettante al suo debitore.
La società in nome collettivo.
La società in nome collettivo trova la propria disciplina negli articoli da 2291 a 2312 del codice civile, pur ricordando che i principi generali sono collocati nella parte dedicata alla società semplice, come precisato dal dettato dell’art. 2293 c.c.., anche se non si ritrova nella normativa una definizione della società in nome collettivo, in quanto il disposto dell’art. 2291 c.c. focalizza direttamente l’affermazione della illimitata, solidale ed inderogabile responsabilità di ciascuno dei soci in ordine alle obbligazioni sociali: “nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali. Il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi.”, temperato, se così si può dire, dal disposto dell’art. 2304 c.c.: “I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale”, il quale appalesa, con il carattere della sussidiarietà, la responsabilità del socio.
Appare opportuno esaminare brevemente le connotazioni riferibili al patrimonio sociale ed al capitale sociale, cui ordinariamente viene annessa la funzione di costituire una garanzia per i creditori sociali e, più in generale, per tutti coloro che abbiano a contrattare con la società.
Così, mentre con termine “patrimonio sociale” si vuol significare l’insieme di tutte le poste attive e passive facenti capo alla società in un dato momento (si pensi ai beni mobili, agli immobili, ai crediti, ai macchinari, ai diritti di privativa quali marchi, brevetti, invenzioni; ai debiti verso banche e fornitori, dipendenti, alle rate relative a canoni di locazione finanziaria, al contenuto economico delle obbligazioni contratte verso terzi, etc.), la nozione di capitale corrisponde invece a quella parte del patrimonio resa indisponibile in quanto “cristallizzata” in una certa misura non modificabile, se non seguendo determinate procedure. Così la misura del capitale sociale corrisponderà all’importo che, nella fase costitutiva della società, i soci abbiano conferito in denaro, che soltanto inizialmente potrà identificarsi nella misura del patrimonio sociale.
Concluso l’esercizio sociale annuale sarà possibile distribuire ai soci l’utile di gestione, ed effettuare una comparazione contabile tra l’insieme delle poste attive e quello delle poste passive.
Registrandosi un’eccedenza delle prime rispetto alle seconde (nel cui ambito dovrà essere computato anche il capitale sociale) si potrà dire tecnicamente raggiunto un utile; diversamente si dovrà registrare una perdita.
Conseguentemente, nel primo caso, procedendo ai sensi dell’art. 2303 c.c. , potrà “ … farsi luogo a ripartizione di somme tra soci …. per utili realmente conseguiti.” mentre “Se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo a ripartizione di utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente.”.
Ne consegue che, se una rigorosa tutela dell’integrità del capitale sociale a presidio della garanzia dei terzi costituisce un elemento cardinale nella disciplina delle società di capitali, a proposito delle quali si registra una responsabilità dei soci limitata ai conferimenti, non altrettanto si può dire per le società di persone (con speciale riferimento a quelle in nome collettivo), dove l’utile rappresenta certamente elemento di garanzia per il creditore particolare del socio oltrechè l’oggetto di possibile esecuzione in ipotesi di morosità del socio.
Anche perché, vista la disposizione dell’art. 2305 c.c. il creditore particolare del socio di una società in nome collettivo, finché quest’ultima risulta operante, non può chiedere la liquidazione della quota del proprio debitore, (a differenza di quanto è dato di poter constatare in materia di società semplice), neppure qualora dimostri l’insufficienza degli altri beni a soddisfare il credito vantato.
Soltanto esaurita la liquidazione della società ed assegnata la quota di spettanza ai singoli soci sarà possibile per il creditore personale del socio far valere i propri diritti su quanto assegnato al proprio debitore.
La società in accomandita semplice.
La società in accomandita semplice si caratterizza per la diversa graduazione della responsabilità dei soci, accomandatari ed accomandanti, che la compongono: la posizione dei primi è contrassegnata da una responsabilità personale per le obbligazioni sociali del tutto analoga a quella dei soci della società in nome collettivo, mentre i soci accomandanti rispondono per tali obbligazioni solo nei limiti della quota conferita: la situazione di costoro è dunque, per un certo verso, simile a quella dei soci di una società di capitali.
Il principio della responsabilità limitata al valore del capitale conferito possiede non soltanto una valenza civilistica, ma una portata anche tributaria. Si tratta di una responsabilità di carattere sussidiario rispetto al patrimonio sociale che può dirsi assimilabile a quella che fa capo ai soci di una società in nome collettivo con applicazione del c.d. beneficium excussionis in favore del socio nella fase esecutiva.
Il principio trova espressione nel comma primo dell’art. 2313 c.c. il quale recita “Nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita”, mentre il secondo comma della citata norma precisa che: “ Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.”, previsione attraverso la quale si è voluta porre una incisiva distinzione tra accomandita semplice ed accomandita per azioni relativamente alla quale l’ultimo capoverso dell’art. 2452 c.c. dispone che: “Le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni .
Le due tipologie sono ben distinte: la prima corrisponde ad una società a base personale, la seconda ad una variante della società per azioni, vale a dire una società di capitali.
Assume un profilo di apprezzamento particolarmente delicato il ruolo ed il presupposto identificativo del c.d. “socio occulto” nella società in accomandita semplice, contrassegnata da una duplice posizione soggettiva dei soci, cui consegue un differente regime di responsabilità per le obbligazioni sociali.
La Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento in merito alla figura del socio accomandatario occulto di società in accomandita semplice, e relativamente alle attività che possono consentire di attribuire tale natura e le conseguenti responsabilità al socio accomandante, ritenendo che la situazione di socio occulto di una società in accomandita semplice, caratterizzata dall’esistenza di due categorie di soci che si diversificano a seconda del livello di responsabilità (illimitata per gli accomandatari e limitata alla quota conferita per gli accomandanti, ai sensi dell’art. 2312 c.c.), non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario.
A tal fine, è infatti necessario accertare, di volta in volta, la posizione in concreto assunta da detto socio, il quale, di conseguenza, assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell’art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione (intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull1arnrninistrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi) o di trattare o concludere affari in nome della società.
I soci accomandanti hanno diritto alla percezione degli utili, in quanto appunto equiparati ai soci di società di capitale.
Il pignoramento di quote di società di persone.
La pignorabilità della quota sociale di una società di persone, appare notevolmente complesso.
La giurisprudenza di merito, ha ritenuto che i creditori particolari del socio di società di società in nome collettivo non possano chiedere l’espropriazione della quota del socio debitore, la quale dunque non è pignorabile né assoggettabile a sequestro conservativo, in quanto ciò importerebbe il sostanziale trasferimento della partecipazione, con la conseguente assunzione della qualità di socio da parte di soggetto “estraneo”, e quindi si reputerebbe applicabile (anche alla società in nome collettivo) la disposizione di cui dell’art. 2270, 1° comma, c.c., secondo la quale il detto creditore potrebbe far valere i propri diritti sugli utili spettanti al socio debitore e porre in essere misure conservative .
Nella specie, si dovrà quindi procedere al a pignoramento nelle forme di cui all’art. 72 bis, D.P.R. 602/1973, e se necessario con la citazione ex art. 543 c.p.c. (pignoramento presso terzi).
La soluzione prospettata appare parzialmente condivisibile, almeno per ciò che riguarda la pignorabilità degli utili attivando la procedura presso terzi, speciale o ordinaria, ma certamente lascia titubanti in ordine all’impignorabilità della quota sociale.
Com’è noto, l’art. 671 c.p.c., cui fa rinvio l’art. 2905 c.c., ammette il sequestro conservativo di beni del debitore “nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento” e la partecipazione societaria, in quanto potenzialmente dotata di un valore economico positivo, può in astratto costituire voce del patrimonio del singolo socio nei termini di cui all’art. 2740 c.c., sotto un triplice angolo prospettico:
- a) essa rileva come fondamento del diritto alla percezione degli utili societari, sui quali agevolmente l’art. 2270, comma 1 c.c. (norma applicabile anche alla s.n.c. alla luce del generale richiamo di cui all’art. 2293 c.c., anche perché compatibile con la struttura di tutte le società di persone) ammette la possibilità per il creditore particolare del socio di far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e dunque di procedere al pignoramento ed al sequestro conservativo di essi.
- b) La partecipazione fonda poi il diritto, in caso di scioglimento del rapporto sociale rispetto al singolo socio (le cui cause sono disciplinate dagli artt. 2284 e ss. c.c.) o della società nel suo insieme, ad una quota del risultato positivo delle operazioni di liquidazione. Su tali somme (sostanzialmente assimilabili a crediti futuri o sperati), sempre l’art. 2270, comma 1 c.c. abilita il creditore particolare del socio a compiere “atti conservativi” ma, mentre nella società semplice può essere lo stesso creditore, in caso di incapienza degli altri beni, a richiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del socio suo debitore (operazione che deve avvenire entro 3 mesi), nella società in nome collettivo tale facoltà è invece esclusa dall’art. 2305 c.c. e ciò a maggiore garanzia dell’autonomia dell’ente, che sarebbe indubbiamente scossa dalla facoltà dei creditori del socio di scomporre in tali casi la compagine sociale.
- c) Quale bene immateriale cui afferiscono diritti vari nell’ambito della gestione societaria, la partecipazione costituisce poi (Si vedano sul punto Cass. civ. 30 gennaio 1997, n. 934 e Cass. civ. 10 novembre 1992, n. 12087) anche di per sé sola, un valore patrimoniale.
E’ stato difatto chiarito da tempo che le quote sociali, sia delle società di capitali (effettive, rappresentate o meno da azioni) che delle società di persone (ideali), costituiscono posizioni contrattuali “obbiettivate”, suscettibili, come tali, di essere negoziate in quanto dotate di un autonomo “valore di scambio” che consente di qualificarle come “beni giuridici”(Cass. 12 dicembre 1986, n. 7409; 23 gennaio 1997, n. 697; 30 gennaio 1997, n. 934; 4 giugno 1999, n. 5494; 26 maggio 2000, n. 6957)
E’ dunque necessario vagliare la pignorabilità di detto complesso a norma di legge, poiché ad essa dovrebbe necessariamente conseguire anche la astratta sottoponibilità dello stesso a sequestro conservativo vista l’assimilazione operata dall’art. 671 c.p.c..
Sul punto, l’opinione tradizionale in dottrina propendeva per la soluzione dell’impignorabilità, sostenendo che la partecipazione ad una società di persone sarebbe caratterizzata da una sorta di intuitus personae, in virtù del fatto che l’art. 2252 c.c. richiede il consenso unanime di tutti i soci, salvo diverso accordo, per modificare il contratto sociale e quindi anche per mutare la compagine soggettiva voluta nell’atto costitutivo con cessione a terzi di una “quota”.
Tuttavia, la Corte di Cassazione (Cass. civ., 7 novembre 2002 n. 15605)ha ammesso il pignoramento delle quote per il caso in cui l’atto costitutivo preveda la loro trasferibilità, salva la necessità di salvaguardare gli eventuali patti di prelazione parimenti contenuti nel contratto sociale.
In sostanza, ad avviso dei giudici di legittimità, il fatto in sé di avere previsto ab origine la trasferibilità delle quote, fa ritenere che l’intuitus personae, nel singolo caso, passi in secondo piano e dunque si possa procedere a pignoramento.
L’art. 2269 c.c. dispone che, colui che entra a far parte di una società a base personale già costituita, risponde insieme agli altri soci per le obbligazioni sociali, pur quando queste fossero anteriori all’acquisto della qualità di socio, e prevede, conseguentemente che la responsabilità per i debiti della società gravi sui componenti della compagine sociale, anche qualora vi abbiano fatto ingresso in un momento successivo a quello dell’insorgenza della passività.
Si tratta di una regola con valenza limitata fino al termine di scadenza della società determinato nell’atto costitutivo, che accomuna la società semplice a quella in nome collettivo e alla accomandita semplice (Cass. Civ. 18 maggio 1993, n. 2597; Cass. Civ., 13 aprile 1989, n.178), la cui ratio viene prevalentemente indicata in ragioni di equità, valutate dal legislatore in relazione alle condizioni patrimoniali sulla cui base è convenuto l’ingresso del nuovo socio.
L’entità del conferimento, la misura della partecipazione agli utili ed alle perdite, ed in genere la consistenza della partecipazione sociale del nuovo socio, sono necessariamente da rapportare alla consistenza del patrimonio sociale (comprensivo anche delle poste passive), onde apparirebbe ragionevole che colui che è divenuto socio si assuma la responsabilità connessa con la situazione patrimoniale della società.