Convegno Pontremoli, 14 settembre 2018

“Il processo tributario tra strumenti di deflazione ed esecuzione forzata”

SOMMARIO: PARTE I §. 1 La natura giuridica dell’obbligazione tributaria; §. 2 Il concetto di indisponibilità dell’obbligazione tributaria; §. 3 L’art. 53 Cost. e l’indisponibilità del credito tributario; §. 4 Il principio di legalità e la riserva di legge ex art. 23 Cost.; §. 5 Il principio d’imparzialità dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost.; §. 6 L’indisponibilità del tributo nella giurisprudenza e nella dottrina; PARTE II §. 7 Conciliazione tributaria ed indisponibilità della obbligazione tributaria; §. 8 La disciplina attuale della conciliazione tributaria ed il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria; §. 9 Il reclamo-mediazione nel processo tributario: i criteri oggettivi che regolano l’attività di mediazione; §. 10 La proposta di mediazione

[Parte Prima]

  • . 7 Conciliazione tributaria ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

L’istituzione della conciliazione, configurato quale atto di risoluzione della controversia mediante un accordo preventivo tra le parti avviene nel 1994 con l’inserimento dell’art. 20 bis, intitolato “conciliazione”, nel D.P.R. n. 636/1972, (contenzioso tributario) ad opera dell’art. 2 sexies, comma 1, D.L. n. 564 del 30/09/1994 convertito nella legge n. 656 del 30/11/1994, ed attraverso il quale un istituto tipico del processo civile viene introdotto nel processo tributario.

In particolare l’art. 4 del d.l. 452/1994 il quale introduceva nel corpo del d.P.R. 636/1972 il citato ’art. 20-bis stabiliva che “…ciascuna delle parti può, nel corso dell‟udienza o anche prima, proporre all‟altra la conciliazione della controversia per le sole questioni non risolvibili in base a prove certe e dirette”,

riferimento che tuttavia, quale presupposto di ammissibilità della conciliazione dette luogo a notevoli problematiche applicative dell’istituto.

Infatti, poichè la formulazione della norma, non forniva alcun elemento interpretativo utile a chiarire la nozione di “prova certa e diretta”, intervennero le  Circolari Min. n. 197/E/1994 e n. 88/E/1995, le quali disposero che:

Le prove certe e dirette possono risultare dalle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai documenti allegati, dai questionari, dai verbali di ispezioni e verifiche eseguite anche nei confronti di altri soggetti, da qualsiasi altro documento in possesso dell’ufficio o depositato in giudizio dal contribuente. In sostanza la conciliazione deve considerarsi preclusa quando si sia in presenza di prove documentali che pongono il giudice nella condizione di apprendere direttamente il fatto oggetto della prova”.

Per quanto l’amministrazione avesse cercato di delimitare l’ambito di applicazione della conciliazione alle ipotesi in cui la pretesa fiscale fosse basata su stime, valutazioni e presunzioni in genere, e quindi a titolo esemplificativo, alle liti concernenti accertamenti induttivi e sintetici, accertamenti basati su stime di organi tecnici, accertamenti basati sulla diversa qualificazione del reddito, restava pur sempre il fatto che la nozione di prova certa non alludesse ad una ben determinata categoria di prove, ma presupponeva un giudizio caso per caso in relazione ai fatti dedotti dalle parti, di modo che il concetto di certezza, riferito alla prova potesse esprimere soltanto un elevato grado di attendibilità della stessa.

Nei termini esposti, l’accordo raggiunto tra amministrazione finanziaria e contribuente appariva compatibile con il principio dell’indisponibilità: la conciliazione, infatti, non incideva sull’an del rapporto d’imposta, ovvero sull’esistenza stessa dell’obbligazione tributaria o sulla qualificazione giuridica della fattispecie, elementi ritenuti non negoziabili, ma aveva unicamente ad oggetto i profili estimativi della fattispecie, la cui determinazione non poteva che essere rimessa a un giudizio di normalità o di probabilità, non suscettibile di alcun preciso riscontro.

Per effetto della l. 556/1996 l’art. 48 del d.lgs. 546/92, la disciplina della conciliazione, trovò integrale modifica, vista la non riproposizione del requisito della certezza della prova, inteso come limite negativo alla ammissibilità di conciliare, discostandosi decisamente dalla formulazione contenuta nel d.l. 630/94.

La modifica più importante tuttavia consistette nell’eliminazione dell’aggettivo “dirette” per cui l’unica preclusione alla possibilità di conciliare permaneva per le liti definibili in base a prove certe, a prescindere dalla circostanza che esse fossero dirette o indirette.

Tuttavia, il concetto di prova certa, era fonte di numerosi dubbi interpretativi e trovava difficile ed univoca connotazione di carattere generale, per cui variava a seconda del caso concreto e dell’apprezzamento soggettivo delle parti.

La modifica apportata non produsse risultati sul piano applicativo.

Permaneva relativamente all’ammissibilità della conciliazione tributaria, un unico limite, in virtù del coordinamento con la disciplina del reclamo/mediazione tributaria di cui all’art. 17 bis d.lgs.546/92, per cui la conciliazione doveva ritenersi esclusa per le controversie di valore, (all’epoca), non superiore a 20 mila euro, per cui il reclamo fosse stato obbligatorio, superato con l’introduzione dell’art. 9 del d.lgs. 156/2015 che eliminava dal disposto dell’art. 17-bis comma 1, l’inciso in base al quale per le controversie soggette alla procedura di reclamo “..è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48”, superando quindi l’alternatività tra conciliazione e mediazione.

  • . 8 La disciplina attuale della conciliazione tributaria ed il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

La riforma del processo tributario, operata dal D.Lgs. 156/2015 e in vigore dal 1° gennaio 2016, ha significativamente innovato le modalità di concreto svolgimento dell’istituto della conciliazione, ma ha invece lasciato inalterata la natura di tale istituto.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario formatosi sotto la vigenza della “vecchia” normativa, l’istituto della conciliazione veniva accostato alla figura contrattuale della transazione (artt. 1965 e ss. c.c.), ossia al contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o ne prevengono una che potrebbe insorgere tra loro.

Il predetto indirizzo giurisprudenziale poneva inoltre l’accento sul carattere novativo della conciliazione, tale da comportare l’estinzione della pretesa fiscale originaria, unilaterale e contestata, e la sua sostituzione con una certa e concordata (Cass. Civ., sez., V, 20.09.2006 n. 20386; Cass. civ., sez. V, 19.06.2009 n. 14300.

Parte della giurisprudenza accentuava a tal punto il carattere negoziale della conciliazione giudiziale, da ritenere applicabile alla stessa la norma civilistica- contrattuale di cui all’art. 1430 c.c., secondo cui “l’errore di calcolo non dà luogo ad annullamento del contratto, ma solo a rettifica, tranne che, concretandosi in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso”. Ciò in quanto “la conciliazione giudiziale … costituisce un istituto deflativo di tipo negoziale, attinente all’esercizio di poteri dispositivi delle parti, che postula la formale contestazione della pretesa erariale nei confronti dell’Amministrazione e l’instaurazione del rapporto processuale con l’organo giudicante, e si sostanzia in un accordo tra le parti, paritariamente formato, avente efficacia novativa delle rispettive pretese, in ordine al quale il giudice tributario è chiamato ad esercitare un controllo di legalità meramente estrinseco, senza poter esprimere alcuna valutazione relativamente alla congruità dell’importo sul quale l’Ufficio e il contribuente si sono accordati. Pertanto, l’errore di calcolo in cui le parti siano incorse nella definizione dell’imponibile o nella determinazione dell’entità del prelievo ricavabile dai parametri di tassazione, in tanto può dar luogo a rettifica, in quanto ricorrano i presupposti di cui all’art. 1430 cod. civ.”. (Cass. civ., sez. V, 03.08.2006 n. 21325).

Accanto a tale orientamento, di carattere maggioritario, sussisteva tuttavia un diverso indirizzo giurisprudenziale, secondo cui “… la conciliazione tributaria giudiziale non ha natura negoziale, e in particolare non ha la natura di novazione, ma ha la natura, unitaria, perché comune a tutte le sue specie, di fattispecie a formazione progressiva e procedimentalizzata, caratterizzata dall’identità temporale della sua perfezione e della sua efficacia” (Cass. civ., sez. III, 13.02.2009 n. 3560).

Tale indirizzo evidenziava alcune fondamentali differenze tra la transazione di matrice civilistica e la conciliazione tributaria.

In primo luogo, la transazione prevede quale proprio elemento essenziale le reciproche concessioni tra le parti (aliquid datum, aliquid retentum), che devono ciascuna sia ottenere, sia concedere qualcosa; al contrario, la conciliazione giudiziale non prevede tale elemento essenziale, ma può anche risolversi in una rinuncia totale alla propria pretesa da parte dell’Amministrazione finanziaria o, al contrario, in un totale riconoscimento del proprio debito da parte del contribuente.

Ancora, la transazione di matrice civilistica costituisce il risultato della sola volontà negoziale delle parti, che infatti si estrinseca nella stipulazione di un contratto e che non presuppone in alcun modo l’intervento di terzi estranei.

La conciliazione tributaria postula invece pur sempre l’intervento del giudice, non solo quando avvenga in udienza- alla quale l’organo giudicante partecipa per definizione-, ma anche quando sia raggiunta fuori udienza. Anche in tale ipotesi, infatti, malgrado la conciliazione si perfezioni con la sottoscrizione dell’accordo (art. 48, comma 4, D.Lgs. 546/1992, come modificato dall’art. 9, comma 1, lettera s), D.Lgs. 156/2015), occorre pur sempre che quest’ultimo venga portato a conoscenza della Commissione tributaria per i provvedimenti conseguenti sul giudizio in corso.

Anche quando raggiunta “fuori udienza”, la conciliazione, oltre agli effetti sostanziali propri della transazione, produce anche necessariamente effetti processuali sul giudizio in corso e, in tal senso, non si esaurisce nella sola volontà negoziale delle parti, ma richiede necessariamente l’intervento del Giudice.

Proprio il controllo da parte di tale soggetto ha fatto sì che l’istituto della conciliazione potesse non entrare in conflitto con il principio cardine dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Tale principio, anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione, trovava il proprio fondamento nell’art. 13 R.D. 23.12.1923 n. 3269, che vietava al Ministero delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti ed a qualsiasi altra autorità pubblica di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovrattasse stabilite da questa legge, né sospendere dalla riscossione senza divenirne personalmente responsabili”.

Anche successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, si continuò a ritenere che l’obbligazione tributaria creasse un vero e proprio diritto in capo al soggetto pubblico, che non poteva discrezionalmente rinunciarvi, se non violando gli artt. 23, 53 e 97 della Costituzione.

La prima di tali norme prevede il principio di riserva –ancorché relativa- di legge in materia tributaria.

La seconda fissa il principio per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, mentre l’ultima delle norme costituzionali citate pone il canone di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, vietando a quest’ultima ingiustificati trattamenti difformi tra contribuenti che si trovino in una situazione contributiva analoga.

Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria ha fatto dubitare dell’ammissibilità costituzionale sia dell’autotutela amministrativa, sia degli istituti dell’accertamento con adesione e della conciliazione.

Peraltro, mentre rispetto alla prima la rinuncia o rideterminazione della pretesa tributaria potevano trovare un fondamento nel riconoscimento, da parte dell’Amministrazione, di un proprio errore, o comunque di una propria azione non conforme alle norme, tale giustificazione non poteva ravvisarsi né nel caso dell’accertamento con adesione, né in quello della conciliazione.

I problemi di compatibilità di tali istituti con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria divenivano quindi ancora più pregnanti rispetto a quelli creati dall’autotutela.

Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza sono pervenute comunque ad ammettere la legittimità costituzionale di tali due istituti, sul rilevo che l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, pur impedendo di riconoscere all’Amministrazione un potere discrezionale, che le consenta di differenziare ad libitum le imposizioni, non costituisce un principio di portata assoluta, ma deve essere conciliata con altre esigenze tutelate dall’ordinamento, quali la certezza e la sollecitudine della riscossione.

In particolare, rispetto ad un credito ancora contestato giudizialmente, e perciò non ancora accertato in modo definitivo, non è corretto parlare di “rinuncia al credito” (che certamente sarebbe vietata dal principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria), ma semmai si deve più correttamente parlare di “rinuncia ad una pretesa”, che con tale principio non può entrare in conflitto.       

Non sarebbe quindi tecnicamente corretto affermare che la parte pubblica – nel dare vita alla conciliazione – rinunci ad un diritto tributario (per sua natura indisponibile, e quindi sottratto alla transazione, che può avere ad oggetto solo diritti disponibili ex art. 1966 c.c.).

Condizione fondamentale per il perfezionamento dell’accordo tra Amministrazione finanziaria e contribuente era (anteriormente alla Riforma del 2015) ed è tuttora (dopo la Riforma) la presenza di una pronuncia giurisdizionale di convalida dell’intesa raggiunta dalle parti rispetto non già ad un “credito tributario”, quanto piuttosto ad una “pretesa tributaria” ancora giudizialmente contestata, e quindi ancora priva del crisma della definitività.

Il fatto che, in funzione di un diverso interesse costituzionalmente protetto, quale l’esigenza di certezza e celerità della riscossione, e nell’ambito di procedimenti specifici, volti a prevenire o definire controversie, il legislatore consenta all’Amministrazione di disporre, entro determinati limiti, del credito tributario, non costituisce quindi negazione del generale principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Se dottrina e giurisprudenza sono concordemente pervenute ad una soluzione affermativa circa la compatibilità della conciliazione giudiziale con il canone dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, maggiori perplessità sono invece rimaste per ciò che concerne la natura di tale istituto.

La Riforma del 2015 non sembra, ad oggi, aver posto fine al dibattito tra i sostenitori della natura transattiva e novativa della conciliazione e coloro che, invece, negano tale natura, ritenendo piuttosto la conciliazione una “fattispecie a formazione progressiva e procedimentalizzata”.

Sotto la vigenza della disciplina anteriore, la circostanza che il momento perfezionativo della conciliazione venisse fatto coincidere con quello del pagamento dell’importo dovuto o della prima rata (cd. “pagamento perfezionante”) veniva addotto a sostegno della tesi favorevole all’assimilazione tra la conciliazione tributaria e la transazione civilistica. Ciò anche in analogia a quanto previsto in materia di accertamento con adesione (artt. 8 e 9 Legge 19.06.1997 n. 218).

La previsione, ad opera della Riforma, del perfezionamento consensuale della conciliazione (al momento della sottoscrizione dell’accordo o del processo verbale), secondo parte della dottrina costituirebbe dunque un indebolimento della tesi che assimila la conciliazione tributaria alla transazione civilistica.

Tale conclusione non appare tuttavia del tutto univoca, in quanto altro orientamento dottrinario mette in rilievo come il mutamento del momento perfezionativo della conciliazione non sia di per sé idoneo ad inficiare le tesi transattive.

In primo luogo, infatti, anche la transazione di matrice civilistica è un contratto consensuale, che esplica i propri effetti nel momento in cui le parti raggiungono l’accordo. Anche le limitazioni alla facoltà di chiedere la risoluzione per inadempimento della transazione a carattere novativo (art. 1976 c.c.) presuppongono necessariamente che quest’ultima risulti già efficace in un momento anteriore.

D’altra parte, la sostituzione, avvenuta ad opera della Riforma del 2015, del cd. “pagamento perfezionante” con il cd. “perfezionamento consensuale” appare dettata più da ragioni di convenienza pratica che dall’adesione del Legislatore all’uno o all’atro orientamento dottrinario e giurisprudenziale.

In sostanza, l’anticipazione del perfezionamento della conciliazione al momento della sottoscrizione dell’accordo o della redazione del processo verbale sarebbe essenzialmente diretta ad evitare gli “inconvenienti pratici”, che potevano derivare dal cd. “pagamento perfezionante”, in particolare per ciò che riguardava il coordinamento tra l’estinzione del giudizio e la verifica dell’effettivo pagamento.

Tale anticipazione, quindi, non determinerebbe alcuna “presa di posizione” del Legislatore a favore dell’una o dell’altra tesi dottrinaria e giurisprudenziale sulla natura della conciliazione.

Concludendo, quindi, la riforma dell’istituto della conciliazione, operata dal legislatore del 2015, pur incidendo in modo significativo sulle modalità concrete di svolgimento di tale istituto, non ne ha alterato l’essenza e la natura ed ha in particolare lasciato inalterato il ruolo del giudice tributario, quale garante dei principi costituzionali della legalità dell’accordo raggiunto e dell’imparzialità del comportamento dell’Amministrazione.

Piuttosto, le modifiche intervenute sul perfezionamento della conciliazione hanno dato luogo ad una criticità sistematica, allontanando tale istituto dall’accertamento con adesione, il quale continua invece a perfezionarsi unicamente mediante il pagamento dell’importo dovuto o della prima rata (artt. 8 e 9 Legge 19.06.1997 n. 218).

Pertanto, ad oggi, l’adesione mantiene il proprio impianto originario, con il cd. “pagamento perfezionante” (Art. 9 Legge 19.06.1997 n. 218: “La definizione si perfeziona con il versamento di cui all’ articolo 8, comma 1 , ovvero con il versamento della prima rata, prevista dall’articolo 8, comma 2”), mentre la conciliazione presenta il nuovo “accordo-perfezionante”.

Il tentativo di estendere, in via analogica o sistematica, il nuovo perfezionamento della conciliazione anche all’accertamento con adesione si risolverebbe in una vera e propria interpretatio abrogans dell’art. 9 Legge 19.06.1997 n. 218, come tale difficilmente inammissibile: tale è la ragione per cui parte della dottrina non ha mancato di evidenziare come sarebbe risultato preferibile che il Legislatore modificasse anche il modo di perfezionamento dell’accertamento con adesione, così da mantenere l’omogeneità tra i due istituti, voluta fin dal 1997.

Quello relativo al momento di perfezionamento non è peraltro il solo aspetto di disomogeneità tra la conciliazione e l’adesione.

La conciliazione, perfezionata sia fuori udienza che in udienza, può infatti presentare carattere totale o parziale.

Al contrario, il D.Lgs. 19.06.1997 n. 218 nulla dispone circa la legittimità di un accertamento con adesione solo parziale.

Di conseguenza, nella prassi, pur in assenza di una Circolare che offrisse un’interpretazione amministrativa esplicita ed uniforme, molti Uffici si erano rifiutati di addivenire ad un’adesione riguardante solo alcune delle autonome contestazioni mosse nell’avviso di accertamento, lasciando invece le altre sub judice.

Posto che, in astratto, il testo del D.Lgs. 218/1997 non pare essere ostativo ad un’adesione solo parziale, la Riforma del 2015 ha omesso qualsiasi intervento in materia, perdendo così l’occasione di conferire una definitiva ed univoca legittimità all’adesione parziale.

§. 9 Il reclamo-mediazione nel processo tributario: i criteri oggettivi che regolano l’attività di mediazione.

La mediazione tributaria è stata ritenuta analoga ad una tipologia di conciliazione preprocessuale, realizzata fuori udienza ed esterna al processo, differenziandosi sul piano procedimentale in quanto l’art. 17-bis non contempla l’intervento del giudice, (obbligatoriamente previsto in sede di conciliazione), neppure in funzione di mero garante della legittimità.

La sostanziale assimilazione della mediazione alla conciliazione, determina ancora una volta la contrapposizione (nell’indagine sulla natura giuridica degli istituti deflattivi del contenzioso) tra la teoria della visione pubblicistica, e quella negoziale- transattivo, sempre con riferimento al tema dell‟indisponibilità dell‟obbligazione tributaria.

Il disposto normativo dell’art. 17-bis, certamente circoscrive la discrezionalità, nella fase di valutazione del ricorso/reclamo e della eventuale proposta di mediazione.

Si tratta di criteri oggettivi, che devono connotare il comportamento degli Enti impositori e dei soggetti riscossori nella fase di mediazione. Il primo di tali criteri è quello dell’“eventuale incertezza delle questioni controverse”.

Con tale accezione il legislatore ha voluto riferirsi ad una incertezza rilevabile dalle contestazioni formali e sostanziali che emergono al momento della presentazione del reclamo e della proposta motivata di mediazione. Un’incertezza che attiene la rideterminazione della pretesa tributaria e può ritenersi che si riferisca, considerata la genericità, tanto agli elementi fattuali, ovvero problematiche di natura estimativa o di rilevanza economica di alcuni fatti, quanto agli elementi giuridici, ovvero relativamente all’interpretazione delle norme che non può essere riscontrata in precedenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità o di merito.

Tale incertezza consente all’Amministrazione di valutare la possibilità di una composizione bonaria della nascente controversia. Non v’è, dunque, una disposizione del debito tributario inteso nella sua portata civilistica. Si tratta, piuttosto, di un’analisi tecnica.

Il secondo criterio, invece, si riferisce al “grado di sostenibilità della pretesa”.

Questa valutazione, a differenza della precedente, non attiene, strictu sensu, le vicende relative alla formazione, nel caso di specie, dell’obbligazione tributaria, ma riguarda l’esame del possibile ed eventuale esito procedimentale-processuale. In altri termini, l’Amministrazione esamina i documenti in suo possesso ed ogni altro elemento che giustifichi la pretesa tributaria in relazione al processo. Potrebbe considerarsi come un’analisi della “strategia” processuale che potrebbe indurre l’Ufficio a non considerare conveniente la prosecuzione della controversia e valutare la via stragiudiziale con la conclusione di un accordo nella procedura di mediazione.

Una siffatta lettura potrebbe risultare conforme al principio di “economia processuale”, che si traduce nella riduzione delle controversie e al contenimento dei tempi dei processi non rientranti nell’art. 17-bis.

Non si tratterebbe di un parametro che consente, sic et simpliciter, la rinuncia, tanto nell’an, quanto nel quantum della pretesa erariale, attraverso un mero accordo tra due parti, bensì di considerare la fondatezza fattuale e giuridica dell’atto impositivo in relazione alle doglianze e alle proposte conciliative avanzate dal contribuente, ancorando tale valutazione a elementi il più possibile oggettivi.

Il terzo ed ultimo criterio richiama il principio dell’“economicità dell’azione amministrativa”. Tale criterio affonda le sue radici nella l. n. 241/1990, all’art. 1 e direttamente nella Costituzione, con l’art. 97. Si intende “economica” l’azione dell’Amministrazione, “quando raggiunge i risultati col minimo mezzo, ossia col minimo dispendio di risorse”.

Tale criterio risulta indubbiamente il più rilevante e, sotto certi aspetti, il più discusso. Sembrerebbe ammettere, almeno nella sua generica formulazione, una “negoziazione” della pretesa erariale.

Criterio espressamente previsto sia per l’istanza di autotutela (artt. 7 e 8, D. M. n. 37/1997), sia per la transazione fiscale.

Tale lettura trova riscontro nell’art. 7, D.M. 37/1997, il quale ha fornito una definizione di economicità in relazione al potere di autotutela dell’amministrazione.

L’art. 7, recita: “1. Tenuto conto delle rilevazioni previste dall’articolo 6 e della giurisprudenza consolidata nella materia, le direzioni dei Dipartimenti impartiscono direttive per l’abbandono delle liti già iniziate, sulla base del criterio delle probabilità della soccombenza e della conseguente condanna dell’Amministrazione finanziaria al rimborso delle spese di giudizio. Ad analoga valutazione è subordinata l’adozione di iniziative in sede contenziosa.

  1. Ai fini di cui al comma precedente è presa in considerazione anche l’esiguità delle pretese tributarie in rapporto ai costi amministrativi connessi alla difesa delle pretese stesse.”

In altri termini, riguarderebbe una valutazione dei costi riguardanti il proseguimento dell’azione innanzi al giudice e il risultato conseguibile, invece, attraverso l’istituto della mediazione.

L’esiguità della pretesa o la dubbia fondatezza delle ragioni dell’Ente impositore, potrebbero far pensare che l’Amministrazione possa “rinunciare”, non nel senso di un annullamento parziale o totale del debito, come nel caso dell’istanza di autotutela o del reclamo, bensì, attraverso “reciproche concessioni” ad una diversa quantificazione della pretesa svincolata da parametri e criteri oggettivi.

Sotto il profilo letterale, il criterio dell’economicità, che sembra avvalorare la tesi del carattere transattivo della mediazione, non può certamente assegnare un carattere meramente dispositivo all’istituto, leggendolo assieme agli altri parametri. Nel suo insieme, infatti, i limiti imposti dall’art. 17-bis possono fornire una diversa spiegazione.

Tale criterio è stato adoperato dal legislatore per la prima versione della transazione fiscale. In tale caso, si parlava di “economicità” e “proficuità”.

In primo luogo, la facoltà dell’Amministrazione di definire il rapporto tributario, per mezzo della mediazione, è esercitato quando congiuntamente questa si sia attenuta ai parametri summenzionati. Si tratta, più precisamente, di una valutazione non tanto sulla sussistenza dell’obbligazione tributaria, bensì di una disamina “estimativo-giuridica” del fatto oggetto di imposizione, in relazione al grado di incertezza, sostenibilità ed economicità.

L’attività che è chiamata a compiere l’Amministrazione non può essere ascritta nell’alveo del potere discrezionale in senso proprio e l’accordo che si raggiunge adottando l’istituto della mediazione è condizionato dalla sussistenza di tali elementi. Considerata l’importanza dei parametri indicati dallo stesso legislatore si può ipotizzare che parte necessaria ed imprescindibile dell’accordo sarà la motivazione che ha indotto le parti alla conclusione bonaria della lite fiscale.

Il carattere necessario della motivazione può rinvenirsi in due riferimenti normativi. Il primo si riferisce alla responsabilità prevista per i funzionari preposti per la conclusione delle procedure relative agli strumenti deflattivi. Dovranno emergere dall’accordo le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rinunciare (annullamento) o a riformulare la pretesa, indicando i principi in esame. L’obbligo di motivazione, infine, può, a contrario, desumersi da quanto dispone l’art. 17-bis, in caso di non accoglimento della proposta di mediazione. La parte soccombente nel successivo giudizio tributario non può essere condannata alle spese e alla somma tenuta a versare alla parte vincitrice, a titolo di rimborso della procedura, solo, se ricorrano giusti motivi indicati nella motivazione che hanno indotto la medesima parte a disattendere la proposta di mediazione. Si spiega, quindi, il ruolo preminente nell’accordo del suo contenuto. Quanto sopra osservato, consente di assegnare un significato diverso alla mediazione fiscale rispetto al suo istituto civilistico più vicino, ovvero la transazione. In effetti, le parti non sono pienamente libere di disporre del contenuto dell’obbligazione. I limiti imposti all’Amministrazione e, di conseguenza, riflessi sul contribuente, condizionano l’ampiezza dell’accordo. In altri termini, lo scopo del legislatore, a parere di scrive, senza ombra di dubbio, era quello di introdurre, nel sistema fiscale, uno strumento efficace teso alla riduzione della conflittualità in ambito tributario, e con l’intento di ridurre il carico di ruoli innanzi al giudice tributario, prevedendo anche criteri di valutazione, caso per caso, del fatto controverso e del suo quadro normativo di riferimento, che, come spesso accade, in ambito fiscale, appare frammentario e disorganico.

Tali finalità, almeno nelle intenzioni, sono state limitate con parametri ben precisi, al fine di evitare una non uniforme applicazione dell’istituto sul territorio nazionale, oltreché ridurre l’istituto ad una transazione nel senso civilistico del termine, con un possibile abbattimento, o peggio ancora, uno “sconto” della pretesa, senza una valida ragione fattuale e giuridica. Non si registra, pertanto, un bilanciamento di interessi di due autonome parti, piuttosto una valutazione rigorosa sia in fatto, sia in diritto non ascrivibile ad una attività propriamente discrezionale.

§. 10 La proposta di mediazione

Il ricorso, come detto, deve essere notificato all’Ufficio competente entro i sessanta giorni dalla notificazione dell’atto o, nel caso di silenzio, ai sensi dell’art. 21, comma 2, cit., fino a quando il diritto alla restituzione non si prescritto (ovvero entro dieci anni).

Nel procedimento di reclamo e di mediazione, trova applicazione, ai fini del computo del termine decadenziale per l’opposizione dell’atto e per lo svolgimento dell’intera fase, il regime della sospensione feriale, trattandosi di una procedura precontenziosa con spiccata vocazione “processuale” ai sensi del comma 2 dell’art. 17 bis.

Proseguendo l’analisi della fase precontenziosa, bisogna soffermarsi necessariamente sull’altra componente introdotta con l’art. 17-bis, cit., ovvero la “proposta di mediazione”.

In effetti, in base al comma 1 dell’articolo citato, il ricorso che produce anche gli effetti di un reclamo può essere corredato anche di una proposta di mediazione completa della rideterminazione dell’ammontare della pretesa.

In aggiunta al ricorso, che si ripete, produce anche gli effetti di un reclamo, da un punto di vista procedurale, ed ovviamente contiene le contestazioni formali e sostanziali quindi, con una natura “oppositiva/impugnatoria”, in un’ottica deflattiva, il contribuente ha la possibilità di presentare anche una diversa rideterminazione della pretesa impositiva.

La procedura de qua consente all’Amministrazione preposta di non accogliere l’istanza di reclamo e (eventuale) mediazione, ma può, comunque, d’ufficio, formulare, contestualmente, una proposta di mediazione alternativa, tenendo conto “dell’incertezza delle questioni controverse”.

Con tale criterio, deve intendersi all’incertezza non solo sui fatti a fondamento della pretesa tributaria, ma anche l’interpretazione da assegnare ad una specifica norma da applicare al caso di specie. È proprio l’Amministrazione finanziaria (Circ. n. 9/E/2012) a fornire una definizione di “certezza”, riprendendo, quanto previsto dall’art. 360-bis, c.p.c. in  tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, quando il provvedimento ha deciso su una questione giuridica in modo conforme alla giurisprudenza della Corte.

In altre parole, in merito all’incertezza sulla questione controversa in primo luogo l’ufficio deve valutare se vi siano certezze rappresentate dalla presenza di un orientamento rappresentato dalla giurisprudenza di legittimità, tale da indurre a ritenere che un eventuale ricorso potrebbe essere dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte.

Tale assunto si comprende in considerazione dell’introduzione della modifica dell’articolo 360 bis primo comma n.1 c.p.c., secondo il quale il ricorso è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa.

In assenza di prassi amministrativa e di pronunce della Corte di Cassazione, su questioni controverse, l’ufficio preposto, può verificare l’orientamento della Commissioni tributarie favorevoli alle posizioni espresse dal contribuente, al fine di motivare una proposta di mediazione ritenuta altresì opportuna alla luce degli altri due criteri della sostenibilità della pretesa e della economicità dell’azione amministrativa.

La circolare n.9/E nella conclusione della trattazione in merito alla certezza giurisprudenziale precisa che quando vi sia un orientamento giurisprudenziale consolidato a favore della posizione assunta dal contribuente nell’atto impugnato è opportuno favorire un accordo di mediazione, anche se nelle conclusioni precisa che nel caso in cui l’amministrazione non abbia prestato adesione al costante orientamento giurisprudenziale con apposito documento di prassi agli uffici, per preminenti esigenze di uniformità e d’imparzialità è esclusa la possibilità di mediare.

Con il riferimento al criterio del grado di sostenibilità della pretesa si  intende riferirsi alla fondatezza e certezza dei documenti e degli elementi fattuali su cui si base la rettifica dell’amministrazione e la sostenibilità della difesa nella fase giudiziale successiva.

Certamente, la valutazione, benché sia fatta da ufficio diverso da quello che materialmente ha emesso l’atto reclamabile e mediabile, non sembra essere realizzata pienamente, mancando l’imparzialità e la terzietà, piuttosto potrebbe rischiare di ridursi in una mera “strategia difensiva” che effettuate, per l’appunto, non un terzo del procedimento, bensì una parte che, prodotti gli effetti del ricorso, assume la veste di “parte resistente”.

Infine il principio di “economicità dell’azione amministrativa”, è ripreso dall’art. 1, comma 1, L. n. 241/1990, secondo cui “l’attività amministrativa … è retta dai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.”, è correlato con la scarsa sostenibilità della controversia e quindi di ottimizzazione dei procedimenti, non solo come ottimizzazione economica ma quale impegno di non gravare il procedimento amministrativo di oneri inutili e dispendiosi realizzando una rapida ed efficiente conclusione nel rispetto dei principi di legalità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

Bisogna osservare che tale criterio, ai sensi dell’art. 3, D.L. n. 138/2002, convertito con modifiche dalla L. n. 178/2002, doveva guidare gli Uffici anche nelle decisioni sulla transazione dei tributi iscritti a ruolo.

Pertanto la facoltà dell’Amministrazione di definire il rapporto tributario, per mezzo della mediazione, deve trovare riferimento ai “parametri di criterio” indicati. La valutazione dovrà così incidere sulla disamina “estimativo-giuridica” del fatto oggetto di imposizione, in relazione al grado di incertezza, sostenibilità ed economicità e parte necessaria ed imprescindibile dell’accordo sarà la motivazione che ha indotto le parti alla definizione consensuale della controversia.

Nella procedura di mediazione trova applicazione, in virtù dell’art. 39, comma 10, D.L. n. 98/2011, convertito con modifiche dalla L. n. 111/2011, (Art. 39, c.10. “Ai rappresentanti dell’ente che concludono la mediazione o accolgono il reclamo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 7, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.”) (Art. 319 bis c.p. “La pena è aumentata se il fatto di cui all’art. 319 ha per oggetto  il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene, nonché il pagamento o il rimborso di tributi”.)  e del richiamo all’art. 48, cit., la sola responsabilità per dolo dei rappresentanti dell’Ente che concludono la mediazione o accolgono il reclamo, stando a significare che, almeno per quanto riguarda il regime della responsabilità, il legislatore ha inteso equiparare la mediazione con gli altri strumenti deflattivi del contenzioso, richiamati dall’art. 29, comma 7, D.L. n. 78/2010, convertito con modifiche dalla L. n. 122/201038.

La fase amministrativa deve pertanto ritenersi è introdotta necessariamente con la notificazione all’Ente impositore e/o all’Agente o al Concessionario della riscossione del ricorso, che produce anche gli effetti di un reclamo.

La proposta di mediazione costituisce solo una facoltà assegnata al contribuente, che può essere contenuta nel ricorso o, d’ufficio, essere presentata al contribuente dal soggetto destinatario della notificazione del ricorso, se ed in quanto ritenuta opportuna.

Il procedimento, quindi, si ritiene correttamente avviato, se risulta introdotto con il ricorso, laddove pur manchi la proposta di mediazione, mentre non può certamente affermarsi il contrario, ove, se si verificasse (presentazione della sola proposta di mediazione) si realizzerebbe una ipotesi di improcedibilità, a seguito delle modifiche apportate dalla cd. “Finanziaria 2014”). Ciò sta ad evidenziare il ruolo “marginale e residuale” che occupa la mediazione nella fase precontenziosa.

Le ipotesi di definizione del procedimento, possono essere diverse e molteplici.

La prima attiene al “silenzio” dell’Ufficio competente a conoscere la controversia. Il silenzio si perfeziona nei novanta giorni successivi alla data di notificazione del ricorso, termine entro il quale, ai sensi dell’art. 2, comma 2 deve essere conclusa la procedura di mediazione, e da cui decorre il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente, ovvero per procedere all’iscrizione a ruolo presso la commissione tributaria competente del ricorso.

La seconda ipotesi, invece, prevede l’accoglimento del reclamo, con conseguente annullamento della pretesa tributaria.

In questo caso, sembra corretto l’accostamento degli effetti di tale decisione con quelli che si producono in sede di autotutela, ai sensi dell’art. 2-quater, D.L. n. 564/1994, convertito con modifiche dalla L. n. 656/1994.

La terza ipotesi riguarda il rigetto del reclamo o della proposta di mediazione comunicato prima della decorrenza del termine dei novanta giorni.

In tal caso, per la decorrenza del termine per il deposito del ricorso in commissione tributaria, occorre comunque attendere la decorrenza dei novanta giorni.

Il ricorrente che anticipasse la iscrizione a ruolo del ricorso, incorrerebbe nel provvedimento di cui al comma 3 dell’art. 17 bis, ovvero “… Se la Commissione rileva che la costituzione e’ avvenuta in data anteriore rinvia la trattazione della causa per consentire l’esame del reclamo”.

Nella specie, tuttavia, il rinvio della trattazione non sarebbe finalizzato all’esame del reclamo, in quanto tale fase si sarebbe già conclusa con il rigetto del reclamo e/o della proposta di mediazione, bensì a rendere procedibile la trattazione della causa.

Lo stesso meccanismo si applica quando si tratti di accoglimento parziale del reclamo e/o della proposta di mediazione.

La parte della pretesa che è accolta viene annullata, come nella per la procedura di autotutela, mentre la parte residua del debito tributario potrebbe proseguire il suo iter innanzi al giudice tributario, qualora il contribuente non intendesse rinunciare alla restante parte della pretesa.

Bisogna, comunque, osservare che, non essendo possibile modificare il contenuto iniziale del reclamo e della mediazione (petitum e causa petendi sono cristallizzati nell’atto introduttivo, ma risulta comunque applicabile l’art. 24, D.lgs. n. 546/1992, rubricato “Produzione di documenti e motivi aggiunti.” per il quale non si rinviene alcuna preclusione, nei confronti della parte resistente nella successiva fase processuale), davanti al giudice sarà esaminato il reclamo, mutato in ricorso, nella sua formulazione originaria.

Troverà applicazione, per la parte investita dal provvedimento di annullamento, l’art. 46, D.lgs. n. 546/1992, il quale prevede che possa essere dichiarata l’estinzione, in tutto o in parte, del giudizio per cessazione della materia del contendere.

La quarta ipotesi, invece, si verifica, quando la proposta di mediazione è accettata dall’Amministrazione o dal contribuente.

Ai sensi dell’art. 17 bis, sesto comma, l’accordo “…si perfeziona con il versamento, entro  il termine di venti giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo tra le parti,  delle somme dovute ovvero della prima rata. Per il versamento delle somme dovute si  applicano le disposizioni, anche sanzionatorie, previste per l’accertamento con adesione dall’articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.”

Nella determinazione dell’imposta in fase di mediazione, il contribuente può chiedere la compensazione del debito tributario residuo ricalcolato con eventuali crediti erariali vantati, dal medesimo nei confronti di altre Pubbliche amministrazioni.

Il mancato pagamento di una rata diversa dalla prima consente l’iscrizione a ruolo delle somme residue e la caducazione dal beneficio rateale.

Con la conclusione dell’accordo di mediazione, secondo il disposto del comma sette del citato art. 17 bis, le sanzioni  amministrative si applicano nella misura del trentacinque per cento del minimo previsto dalla legge.

L’art. 17-bis, non prevede un espresso “invito a comparire”, come, invece, è previsto, per quanto concerne l’adesione all’accertamento, dagli artt. 5 e 11 (“Avvio del procedimento” – su proposta dell’Ufficio) o dagli artt. 6 e 12 (su “Istanza del contribuente”), D.Lgs. n. 218/199747.

Può affermarsi, quindi, che la fase amministrativa di opposizione ed eventuale mediazione dell’atto impositivo è caratterizzata dall’assenza di una comparizione, melius: “audizione” del contribuente, alla quale potrebbe seguire uno scambio di memorie e repliche, con la redazione di un processo verbale, che, certamente, avrebbe potuto accostare la predetta procedura ad un vero e proprio grado di “giudizio in sede amministrativa”, assegnandone una connotazione molto più vicina ad un rimedio giurisdizionale.

A tale proposito, dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate si richiamavano le norme contenute nel D.Lgs. n. 218/1997, che, in tema di contraddittorio, regolano la fase della comparizione dinanzi all’Ufficio con la stesura del relativo verbale.

In secondo luogo, l’invito a comparire sarebbe previsto, sempre secondo le indicazioni fornite dalla predetta Circolare, solo qualora l’ufficio ritenga ammissibile e fondata la proposta di mediazione e sembrerebbe esclusa, invece, per l’istanza di reclamo.

Inoltre, oggetto di comparizione sarebbe solo una rideterminazione della pretesa e non la trattazione di eventuali vizi formali e sostanziali oggetto del reclamo.

Senza ombra di dubbio, in base alla lettera della norma, non sembrerebbe generalizzato l’invito a comparire e, sulla scorta di quanto osservato, sarebbe ammesso, quale facoltà dell’ufficio, soltanto in fase di mediazione in senso stretto e non per l’istanza di reclamo.

In definitiva, il procedimento previsto per l’istituto si esaurisce nella mera presentazione del ricorso, che produce  anche gli effetti di un reclamo e puo’ contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa, seguita da una eventuale e successiva replica che assume le vesti di diniego espresso, totale o parziale, tacito o di accoglimento, totale o parziale, dell’Ente impositore o del competente riscossore.

Tale interpretazione letterale dell’art. 17-bis risulta confermata dal fatto che non è prevista, nello svolgimento della procedura amministrativa, nemmeno una fase istruttoria in senso stretto, per la ricostruzione fattuale e giuridica, tanto della base imponibile, quanto della relativa imposta, come dimostrato dal mancato richiamo dell’art. 7, cit. ad opera dell’art. 17-bis, cit..

L’art. 17-bis, comma 10, nel testo previgente, con l’intento di disincentivare l’inerzia dell’Amministrazione, nonché la presentazione di ricorsi con fini palesemente “dilatori” e “strumentali”, disponeva che, nella fase giudiziale, la parte soccombente fosse tenuta, oltre alla refusione delle spese processuali, anche al pagamento del cinquanta per cento delle stesse a titolo di rimborso. Il giudice tributario poteva disporre la compensazione totale o parziale delle spese, solo quando la mancata considerazione della proposta di mediazione da parte del soggetto soccombente fosse stata motivata. L’attuale testo dell’art. 17 bis non riproduce la citata disposizione, tuttavia il nuovo testo dell’art. 15, comma 2 septies prevede che: ”Nelle controversie  di cui all’art. 17 bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.”.

Il principio secondo il quale le spese di lite seguono sempre la soccombenza, è espresso dal primo comma del citato art. 15, ai sensi del quale: “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza.

La commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile.”

Il secondo comma dispone inoltre che: “ Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate. 2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile.”.

Nella specificità della procedura di mediazione il comma 2 septies del citato art. 15, impone per la parte soccombente, il pagamento di un ulteriore 50 per cento, quale somma forfetizzata a titolo di rimborso delle spese per il procedimento amministrativo comunque “svolto” che non ha trovato esito positivo.

Il secondo comma: “Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate.”, trova applicabilità qualora il giudice tributario adito, ritrovi nel comportamento della parte soccombente, l’esistenza di giustificati motivi che possano avere ragionevolmente determinato detta parte a non accettare la proposta di mediazione.

Come poi chiaramente espresso dal successivo terzo comma “Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile.”, per cui viene punita la temerarietà del rifiuto ad aderire alla proposta mediativa che, all’esito del giudizio, si trova a coincidere con la pronuncia del primo grado. L’accoglimento o il rigetto parziale del ricorso, introduttivo della fase di mediazione e successivamente oggetto di iscrizione a ruolo, potrà comportare l’assunto, sopra richiamato del secondo comma “…le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca..”

E’ palese evidenziare che la norma dell’art. 15 citato, tenda essenzialmente ad invitare le parti ad addivenire ad una composizione concordata del possibile insorgente contenzioso oggetto di mediazione, evitando in tal modo, con il disposto del comma terzo l’instaurazione di un processo “temerario”.

Qualora invece, nella fase amministrativa di mediazione, l’ufficio, sia esso dell’ente impositore o del riscossore, accolga anche integralmente la proposta di mediazione del contribuente, o viceversa, non si ritrova normata alcuna previsione di “rimborso”delle spese, anche di assistenza tecnica, a carico della parte, a questo punto solo “virtualmente soccombente”.

Quindi si potrebbe concludere individuando nel rifiuto immotivato di ad accettare la proposta di mediazione, poi accolta a definizione del giudizio conseguentemente promosso, e la temerarietà di quest’ultimo, gli elementi giustificativi condanna alle spese, in primis, e della ulteriore condanna alla corresponsione del rimborso di cui al comma 2 septies dell’art. 15.

Prof. Avv. Bruno Cucchi

Università Unicusano