Convegno Pontremoli, 27 settembre 2019

“Responsabilità e discrezionalità nell’attività di riscossione locale”

La gestione del teorico-pratica del procedimento deflattivo di mediazione.

In ordine alla mediazione c.d. “tributaria”, particolari problematiche ed incertezze sorgono relativamente ai criteri che l’ufficio, tenuto a valutare la convenienza e l’opportunità di proporre una mediazione al contribuente,  dovrà adottare. 

L’art. 17-bis al comma 8 parla di “incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”, senza però specificare cosa si intenda con queste espressioni. 

Peraltro, questi concetti non hanno una definizione riconosciuta né a livello giurisprudenziale né a livello di prassi, ponendosi così evidenti problemi su come concretamente dovrebbe operare l’ufficio per decidere se e in che misura proporre la mediazione al contribuente. 

Con l’intento di colmare questo evidente “vuoto” normativo si sono succedute alcune circolari dell’Agenzia delle Entrate, che ha cercato di fornire una definizione alle espressioni adoperate da parte del legislatore al comma 8 citato. 

Per incertezza delle questioni controverse, l’Agenzia delle Entrate ritiene che si debba far riferimento alla “solidità” delle posizioni giurisprudenziali formatesi sull’oggetto della contesa. 

Nel nostro ordinamento, pur non essendo un modello basato sul principio del precedente giudiziario vincolante, non si può escludere che nel corso del tempo la soluzione offerta a certe questioni di diritto acquisti un certo grado di “certezza”, specie ogni qualvolta sussista un orientamento consolidato della Corte di Cassazione. 

Inoltre, ancora la stessa circolare prevede che ove su una certa questione ancora non si sia delineato un preciso orientamento della Cassazione, può aversi riguardo per l’orientamento favorevole al contribuente che hanno palesato le Commissioni Tributarie. 

Secondo requisito che l’Amministrazione dovrà tenere in considerazione ai fini della formulazione della proposta di mediazione, è il grado di sostenibilità della controversia. 

Questo criterio appare funzionale a che l’ufficio, al fine di valutare la proponibilità della mediazione, valuti la bontà delle prove e la fondatezza degli elementi addotti da parte dell’istante. 

Nell’ipotesi in cui l’Agenzia non ritenga di poter efficacemente contrastare la ricostruzione operata da parte del contribuente all’interno del reclamo-ricorso, con sensibile accrescimento delle possibilità di soccombenza in un eventuale contenzioso giurisdizionale, allora cercherà di proporre una mediazione. Tuttavia, è evidente che la valutazione di questi elementi risulta essere fortemente difficoltosa e soggettiva. 

Terzo requisito la cui sussistenza dovrà essere valutata dall’ufficio, riguarda l’opportunità di procedere alla mediazione della pretesa tributaria: il principio di economicità dell’azione amministrativa. 

Questo è forse quello su cui, a dispetto degli altri, insistono minori dubbi interpretativi, dato che è anche espressamente sancito all’art. 1, co.1, della L. n. 241/90, ai sensi del quale l’attività amministrativa è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. 

A differenza di quanto si potrebbe superficialmente pensare, il principio in parola non impatta soltanto sulla valutazione di convenienza nell’addivenire alla mediazione, ma riguarda indirettamente anche l’intero iter procedurale che non dovrà essere aggravato con oneri inutili e dispendiosi. 

Oltre alle Circolari interpretative dell’Agenzia possiamo trovare, con interpretazione analogica, elementi conoscitivi e chiarificatori nel disposto dell’ art. 8 del D.lgs. 546/92, che recita: “ Errore sulla norma tributaria 1. La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”, dove si riconosce l’esimente della scusabilità dell’errore sulla norma tributaria.

In realtà analogo principio si ritrova, oltre che nello Statuto del Contribuente (art. 10, c. 3: “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Pertanto l’oggettiva condizione di incertezza nell’applicazione della norma permette ex art.8 D.lgs. 546/1992, ribadito, con più generale portata, dall’art. 6 comma 2, del D.lgs. 472/1997: “Non e’ punibile l’autore della violazione quando essa e’ determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono..” .

 

Le obiettive condizioni di incertezza: interpretazioni giurisprudenziali. 

 

Presupposto indispensabile perché operi l’esimente di cui all’art. 8, D.lgs. 546/92, è che sussistano “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione” delle disposizioni alle quali la norma tributaria si riferisce. 

Sull’esatto significato da attribuire all’espressione “incertezza normativa” sono stati necessari numerosi interventi interpretativi della Corte di Cassazione.

Schematicamente i “sintomi” dell’incertezza normativa oggettiva sono stati ravvisati dalla giurisprudenza di legittimità nella: 1) difficoltà di individuazione delle disposizioni normative, dovuta al difetto di esplicite previsioni di legge (Cass. 8 marzo 2000, sent. n. 2604); 2) difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica (Cass. 2 aprile 2007, sent. n. 8187; Cass. 3 ottobre 2006, sent. n. 21328); 3) difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata (Cass. 25 ottobre 2006, sent. n. 22890); 4) mancanza di precedenti giurisprudenziali (Cass. 5 settembre 2006, sent. n. 19115; Cass. 23 agosto 2001, sent. n. 11233); 5) formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti (Cass. 24 agosto 2007, sent. n. 18039; Cass.14 maggio 2007, sent. nn. 11051 e 11052); 6) formazione di un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. 27 ottobre 2006, sent. nn. 23228 e 23229); 7) adozione di norme d’interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente (Cass. 3 agosto 2007, sent. n. 17105; Cass. 10 novembre 2006, sent. n. 24064). 

La Suprema Corte ha affermato che “….l’incertezza normativa oggettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa….” (Cass. 23 maggio 2014, sent. n. 11478).

La giurisprudenza di legittimità ha “escluso che ad integrare un’obbiettiva incertezza sulla portata di una norma sia sufficiente di per sé una sua formulazione letterale in modo non assolutamente chiaro, ovvero l’assenza nell’esegesi della medesima di un orientamento giurisprudenziale, al quale il destinatario del precetto possa conformare la propria condotta (ed infatti è in ogni caso onere dello stesso la ricerca dell’interpretazione più conforme alla lettera ed alla “ratio” legislativa) (Cass. 14 marzo 2012, sent. n. 4031).

 “L’incertezza normativa oggettiva che costituisce causa di esenzione dalla responsabilità amministrativa tributaria, non sussiste in caso di divergenza tra l’indirizzo interpretativo seguito dall’Amministrazione finanziaria e le indicazioni fornite dall’associazione di categoria del contribuente, essendo necessaria la presenza di contrasti giurisprudenziali sull’oggetto della controversia” (Cass. 2 dicembre 2015, sent. n. 24588).

“È configurabile un errore sulla norma tributaria, rilevante ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, […] allorché le obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della disposizione stessa dipendano dalla presenza di un orientamento giurisprudenziale (solo successivamente superato)….” (Cass. 30 ottobre 2001, sent. n. 13482). 

 

Cessazione della materia del contendere in ambito tributario. 

Altre problematiche pratico-operative, sorgono per l’Ufficio nelle ipotesi in cui dovrà essere dichiarata la cessazione della materia del contendere in ambito tributario. 

La genericità e l’ambiguità del tenore letterale, numerosi dubbi sono sorti sia con riguardo all’esatta individuazione delle situazioni suscettibili di essere qualificate alla stregua di fattispecie di cessazione della materia del contendere, sia con riferimento alla natura e, quindi, agli effetti da ricollegare al provvedimento con cui il giudice dichiara l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 46 del d. lgs. Quanto al primo profilo, relativo all’ambito di applicazione, si ritiene che la norma ricomprenda tanto le ipotesi in cui il contribuente decida di avvalersi di istituti premiali, oltre a  condoni e sanatorie (“definizione delle pendenze tributarie”), che le ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria agisca, in via di autotutela, sull’atto oggetto di ricorso (“altri casi di cessazione della materia del contendere”). 

In assenza di qualsivoglia indicazione legislativa, l’esatta delineazione di questa ipotesi di cessazione della materia del contendere finisce per dipendere dalla concezione dell’oggetto del processo tributario che si ritiene di accogliere. L’alternativa è nota: (teoria dichiarativa) se si configura il processo tributario come un giudizio non preordinato unicamente all’annullamento dell’atto ma, altresì, all’accertamento negativo della pretesa impositiva (o del diritto alla riscossione ad essa inerente, così come al positivo accertamento del diritto del contribuente al rimborso di somme indebitamente corrisposte), appare chiaro che al fine di integrare gli estremi della cessazione della materia del contendere non sarà sufficiente una qualunque rimozione o sostituzione dell’atto, ma solamente quella idonea a determinare una modificazione giuridica interamente satisfattiva delle pretese formulate dal ricorrente. 

Viceversa, aderendo all’altra opzione interpretativa, (teoria costitutiva) fedele alla concezione dell’oggetto del processo tributario quale giudizio sull’atto, la cessazione della materia del contendere conseguirà a qualunque sostituzione dell’atto impugnato, anche se non satisfattiva dell’istanza del ricorrente. 

La prassi, dal canto suo, ha adottato un approccio pragmatico, poco interessato a dotte elucubrazioni e orientato a tutelare la posizione del ricorrente. 

Per opinione della giurisprudenza, si ritiene che, in un giudizio in cui il ricorrente contesti l’esistenza dell’onere contributivo vantato dal fisco nei propri confronti, affinché possa dirsi realmente cessata la materia del contendere, occorre che la rimozione sia accompagnata da una rinuncia, sul piano sostanziale, alla pretesa fatta valere nei confronti del contribuente. 

La rinuncia all’imposizione dovrà essere desunta dai motivi addotti dall’Ufficio a sostegno dell’illegittimità o infondatezza della pretesa contenuta nel primo atto, cosicché sarà, di regola, contenuta nella motivazione che caratterizza e accompagna il provvedimento di autotutela secondo quanto disposto dal d.m. n. 37/1997. 

Talvolta è capitato pure che la giurisprudenza tributaria facesse propria la definizione del fenomeno elaborata dalla prassi civile: così si è sostenuto che la cessazione della materia del contendere si verificherebbe in caso di autocomposizione della controversia che aveva coinvolto le parti, perché verrebbe meno l’interesse delle stesse alla prosecuzione del processo al fine di ottenere una pronuncia di merito. Ne consegue che, ai fini della valida configurazione della figura, non basta che sopraggiunga un fatto idoneo a estinguere l’oggetto della contesa, ma occorre altresì che i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento, e sottopongano al giudice conclusioni conformi. 

Dunque, anche in ambito tributario la cessazione della materia del contendere è incardinata sul requisito dell’accordo. Se questi sono i caratteri del fenomeno, si versa in un caso di cessazione della materia del contendere anche nell’ipotesi in cui il contribuente, dopo aver proposto il giudizio, adempia senza riserva alla pretesa originariamente contestata. Non così in ipotesi di adempimento con riserva. 

Quanto invece all’ipotesi in cui il ricorrente abbia esperito un’azione di rimborso, la cessazione della materia del contendere potrà configurarsi solo a seguito dell’effettiva restituzione della somma ad opera dell’erario, non essendo sufficiente il mero riconoscimento della pretesa creditoria da parte dell’ufficio. 

Questi, dunque, i casi di cessazione della materia del contendere riconducibili allo schema della sopravvenuta estinzione della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. 

Procedendo oltre nella disamina del campo di applicazione dell’art. 46, occorre soffermarsi sulle ipotesi di “definizione delle pendenze tributarie”, in particolare su quella paradigmatica di avvenuto condono. 

A questo riguardo, occorre sottolineare come la problematica relativa all’ipotesi in cui, dopo aver comunicato all’autorità giudiziaria l’avvenuto condono, e quindi aver determinato la chiusura del giudizio, l’Ente impositore si avveda della irregolarità della domanda di condono ovvero del mancato pagamento di quanto dovuto – abbia trovato una soluzione, semplice ed efficace, a partire dalla l. n. 289/2002: senza che si necessiti ancora di fare ricorso alla forma revocabile dell’ordinanza, l’art. 16, 8° comma della suddetta legge subordina la dichiarazione di estinzione del processo per cessazione della materia del contendere all’avvenuta comunicazione, da parte dell’Ufficio incaricato, della regolarità della domanda di definizione e del pagamento integrale di quanto dovuto (nello stesso senso si muove anche l’art. 39, 12° comma del d.l. n. 98/2011, il quale dispone che: “L’estinzione  del giudizio viene  dichiarata a seguito  di comunicazione degli   uffici di cui al comma 1  attestante la regolarita’ della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto.”.