Convegno Pontremoli, 27 settembre 2019

“Responsabilità e discrezionalità nell’attività di riscossione locale”

L’art. 59 del DPR n. 602/1973 attribuisce a chiunque si ritenga leso dall’esecuzione c.d. esattoriale la possibilità di agire nei confronti del concessionario per ottenere il risarcimento del danno subito.

La norma che disciplina l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno contro l’Agente della Riscossione, stabilisce che “1. Chiunque si ritenga leso dall’esecuzione può proporre azione contro il concessionario dopo il compimento dell’esecuzione stessa ai fini del risarcimento dei danni.

  1. Il concessionario risponde dei danni e delle spese del giudizio anche con la cauzione prestata, salvi i diritti degli enti creditori”.

Il risarcimento del danno provocato dall’agente della riscossione per effetto di una esecuzione illegittima rappresenta una forma di tutela del privato nella fase della riscossione coattiva tributaria. 

L’azione nei confronti dell’agente della riscossione per il risarcimento del danno deriva da una illegittimità realizzata con i mezzi esecutivi previsti dalla legge ma violando le relative disposizioni, oppure facendo uso imprudente dei poteri attribuiti per la realizzazione del credito tributario.

La norma, tuttavia, condiziona la proponibilità della domanda al compimento dell’esecuzione, in modo da prevenire l’uso dell’azione di risarcimento per ostacolare o ritardare la conclusione della riscossione.

La principale problematica posta dalla norma concerne il rapporto tra l’azione risarcitoria in oggetto e la preventiva proponibilità delle azioni oppositive previste dalla normativa speciale. 

Secondo la dottrina più tradizionale (Parascandolo, Manuale della riscossione delle imposte in base a ruolo, Napoli, 1983), la locuzione, utilizzata dalla norma in commento, “… dopo il compimento dell’esecuzione …”, vuole significare che solo la definizione fisiologica del procedimento di opposizione instaurato legittimerebbe il soggetto pregiudicato ad agire per il risarcimento del danno. 

La giurisprudenza di legittimità si è invece espressa nel senso che l’azione di risarcimento del danno sia proponibile anche prima dell’inizio dell’esecuzione, a seguito della notificazione dell’avviso di intimazione ex art. 50 DPR 602/1973, atto che precede l’inizio dell’espropriazione forzata. 

Peraltro, qualora l’esecutato proponga, davanti al giudice ordinario, azione di risarcimento del danno, si applica la disciplina dell’art. 2043 cod. civ., con la conseguenza che incombe all’attore l’onere di provare, fra l’altro, l’ingiustizia del danno, la cui esistenza postula la dimostrazione che le somme pagate non fossero dovute, per l’insussistenza (o l’estinzione) del credito, e che quindi l’esborso abbia determinato un’ingiusta lesione del patrimonio.  

In tal senso si è espressa Cass. 08 marzo 2003, sentenza n. 3523, statuendo che “in tema di riscossione coattiva delle imposte sui redditi, la disciplina dettata dagli artt. 53 e 54 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportate dal D.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46), secondo la quale l’azione risarcitoria davanti al giudice ordinario non può essere esperita dall’esecutato durante il corso dell’esecuzione, ma solo dopo il suo compimento, deve essere interpretata, data la sua natura speciale e riduttiva rispetto alla normativa generale, nei suoi rigorosi limiti, inerenti alla “ratio” di evitare interferenze fra l’azione in giudizio a tutela dei diritti soggettivi e l’esecuzione forzata esattoriale. Ne consegue che l’azione di risarcimento del danno è proponibile anche prima dell’inizio dell’esecuzione, a seguito della notificazione dell’avviso di mora, il quale è un atto che … precede l’inizio dell’espropriazione forzata” ed altresì che “in tema di riscossione coattiva delle imposte sui redditi, qualora l’esecutato proponga, davanti al giudice ordinario, azione di risarcimento del danno ex art. 54 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportate dal D.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46), si applica la disciplina dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che incombe all’attore l’onere di provare, fra l’altro, l’ingiustizia del danno, la cui esistenza postula la dimostrazione che le somme pagate non fossero dovute, per l’insussistenza (o l’estinzione) del credito per sanzioni amministrative, e che, quindi, l’esborso abbia determinato un’ingiusta lesione del patrimonio”. 

L’azione di responsabilità si configura come Responsabilità extracontrattuale, detta anche aquiliana (dalla lex Aquilia del 287 a.C., che per prima disciplinò, nel diritto romano, la responsabilità ex delicto), che è la responsabilità civile che sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 del c.c.).

L’art. 1173 del c.c. rubricato Fonti dell’obbligazione (“Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico) indica fra le diverse fonti dell’obbligazione anche il fatto illecito, che viola il principio generale del neminem laedere.

L’azione di risarcimento nei confronti dell’agente della riscossione deve essere ricostruita quale azione di responsabilità aquiliana (Cass., SS.UU., 4 ottobre 1996, n. 8685; Cass., 4 gennaio 2007, n. 15; Cass., 21 febbraio 2007, n. 4055):

  • deve essere proposta avanti il Tribunale ordinario competente per territorio, essendo completamente autonoma rispetto alla eventuale lite tributaria;
  • l’attore è onerato della dimostrazione dell’illegittimità dell’atto esecutivo dannoso, 
  • l’attore è altresì onerato di dimostrare  il nesso di causalità tra tale atto e la lesione di una posizione giuridicamente tutelata.

Come è stato statuito dalla storica sentenza di questa Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 500 del 22/07/1999 “una domanda risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, questi dovrà procedere, in ordine successivo, alle seguenti indagini: 

  1. a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; 
  2. b) dovrà, poi, stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); 
  3. c) dovrà, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A.;
  4. d) infine, se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A. 

Tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo (in relazione al cui accertamento, peraltro, non è ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento davanti al giudice amministrativo, potendo, al contrario, detto accertamento essere svolto dal giudice ordinario nell’ambito dell’esame della riconducibilità della fattispecie sottoposta al suo esame alla nozione di fatto illecito delineata dall’art. 2043 cod. civ.), richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana. 

La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla P.A. come apparato, e sarà configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa”. (conformi Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12282 del 27/05/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 22508 dei 28/10/2011; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 16196 del 20/06/2018).

Nella sentenza 4458 del 10 gennaio 2019, la Corte aveva accertato: 

  1. a) una condotta della PA “non jure” e “contra ius” (applicazione illegittima – in assenza di un credito riferibile all’ente impositore – di una misura coercitiva – conservativa sui beni immobili della società contribuente, in conseguenza del ritardo nella comunicazione all’Agente della riscossione della disposizione di sgravio); 
  2. b) la imputazione della condotta illecita in via esclusiva a colpa della Agenzia delle Entrate, non essendo stato ritenuto giustificato – in difetto di elementi ostativi addotti dall’ente impositore – il tempo trascorso tra la pubblicazione della sentenza tributaria (8.9.2008) e la comunicazione dello sgravio pervenuta secondo quanto allegato dall’Agente per la riscossione – il 31 ottobre 2008; 
  3. c) il pregiudizio di natura patrimoniale derivato quale conseguenza della applicazione della iscrizione ipotecaria.

Per quanto riguarda l’oggetto del risarcimento si tratta di verificare, fermo restando l’onere dimostrativo a carico dell’attore, se questo possa interessare il solo aspetto patrimoniale od anche quello morale.

Se in merito al riconoscimento del primo non sembra sussistere alcun problema, si discute, invece, se l’esecuzione forzata illegittima posta in essere dall’agente della riscossione, incidendo inevitabilmente nella sfera giuridica dei soggetti, possa dar luogo al risarcimento di un eventuale danno biologico, morale od esistenziale, in presenza di un’azione che si sia posta illegittimamente in contrasto con la dignità umana, il decoro, la dignità ed il prestigio della persona.

In particolare, la sussistenza del danno morale è stata riconosciuta da una sentenza del Tribunale di Genova, sez. II, in data 3 dicembre 2010, n. 14212.

Nel giudizio deciso dal tribunale ligure, gli eredi del contribuente esecutato, chiedevano il risarcimento del danno patito a seguito di una esecuzione immobiliare promossa dall’agente della riscossione. Il predetto Tribunale ha riconosciuto la sussistenza di un danno morale azionabile iure ereditario, asserendo quanto segue: “Alla luce dei principi di cui a Cass. civ., SS.UU., 11 gennaio 2008 la condotta illecita infatti si presenta nella duplice veste di “aggressione ai beni dell’abitazione di proprietà e del domicilio” che appaiono dotati di tutela costituzionale, e di abuso della facoltà di agire in giudizio. Per detto abuso l’art. 96 c.p.c. consente un risarcimento ulteriore rispetto alla vittoria del capitale ed accessori di lite ed al recupero delle spese. 

Sia pure in via non esplicita si tratta quindi di norma speciale che autorizza espressamente “anche” la liquidazione di un danno non patrimoniale. Il timore e l’ansia indotta in persona malata riguardo alla perdita della propria abitazione paiono di consistente entità…”.

Il Tribunale di Genova, accogliendo la tesi degli attori, ha riconosciuto il risarcimento dal danno patito a seguito di una esecuzione immobiliare promossa dall’agente della riscossione avverso il dante causa degli attori;  ha ritenuto che l’illegittimità dell’azione esecutiva, connessa alla violazione delle norme disciplinanti l’esecuzione tributaria ben possa giustificare la risarcibilità del danno morale, ferma restando la necessaria dimostrazione, anche di tipo presuntivo, del danno e l’accertamento in concreto della colpa.

I principi di diritto richiamati costituiscono gli obiter dicta dell’ordinanza della Consulta del 7 aprile 2006, n. 149, la quale assume, nel settore della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, una forte rilevanza: la Corte delle Leggi, di fatto, sposa la tesi (in vero, ormai ius receptum) della cd. illegittimità colposa (o qualificata) ai fini del rimprovero ex art. 2043 c.c. nei confronti delle amministrazioni pubbliche.

Per quanto attiene l’animus con il quale l’amministrazione ha agito, la Corte di cassazione, nella sentenza del 22 luglio 1999, n. 500, ha ritenuto che, per valutare se l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della pubblica amministrazione, l’imputazione non potrà avvenire sulla base del solo dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana.

Ai fini dell’accertamento di quest’ultima, infatti, secondo un orientamento ormai consolidato, non sarà sufficiente la comune tendenza a considerare la colpa della struttura pubblica come in re ipsa in caso di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo.

Occorre, di conseguenza, una valutazione della colpa della pubblica amministrazione, intesa come “apparato” e configurabile qualora l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo siano avvenute in violazione sia delle regole di rango costituzionale, quali l’imparzialità, la correttezza e la buona amministrazione, (Cass., sez. I, 24 maggio 1991, n. 5883: la quale ha statuito che “Nell’ipotesi di attività provvedimentale della pubblica amministrazione, perché sussista la responsabilità civile di questa è richiesta non solo la violazione di un diritto soggettivo del privato con un atto o un provvedimento amministrativo ed il nesso di causalità fra l’atto stesso ed il danno ingiusto subito dal privato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa previsto e richiesto come elemento indefettibile dalla clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.; a tale ultimo riguardo, il privato non dovrà provare anche la colpa dei singoli funzionari ma, peraltro, la colpa della pubblica amministrazione può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, dando luogo ad attività provvedimentale negligente o imprudente, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa pubblica amministrazione è vincolata, dovendo osservare i principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento prescritti dall’art. 97 Cost.”.) che rappresentano il criterio guida per l’esercizio della funzione amministrativa e che si pongono quale limite esterno alla discrezionalità, sia di quelle di rango ordinario, quali l’economicità, l’efficacia, la pubblicità e la trasparenza, unitamente ai principi generali di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.

In particolare, la colpa non può essere ridotta a mera “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”, in base alla nozione desunta dall’art. 43 c.p., bensì può essere ravvisata in negligenze, omissioni, od anche errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili.

Ciò, non significa che sia richiesta la prova della responsabilità del funzionario procedente, per contro, la colpa della pubblica amministrazione può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa è obbligata.

In nessun caso, però, può ritenersi rilevante il mero dato oggettivo del danno: l’orientamento della giurisprudenza appare, quindi, oltremodo chiaro, statuendo che, se da un lato, l’amministrazione non può invocare a sua discolpa l’errore scusabile dei propri funzionari, dall’altro, con riferimento all’attività materiale, è richiesta la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’imputabilità per dolo o colpa.

In tale prospettiva, si ha, dunque, che l’illegittimità dell’atto amministrativo rappresenta uno solo dei fattori concorrenti ad integrare l’illiceità della condotta amministrativa, fonte di responsabilità risarcitoria, la quale ultima è ancorata alla valutazione della conformità dell’operato della pubblica amministrazione alle regole proprie dell’azione amministrativa.

Tali cardini interpretativi sembrano applicabili anche alla fattispecie della responsabilità dell’agente della riscossione, proprio alla luce della funzione pubblica che svolge nella realizzazione concreta del credito tributario e dei poteri autoritativi che la legge gli attribuisce per rendere più incisiva tale azione.

Tuttavia, la comparsa tra gli strumenti a disposizione dell’agente della riscossione per garantire l’effettività della riscossione coattiva e la tutela contro l’illegittimo utilizzo degli stessi attribuita avanti le Commissioni Tributarie impongono di allargare l’ambito dell’indagine, per vedere se, nell’attuale dimensione della tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive lese dall’esecuzione illegittima, alla tradizionale ipotesi della responsabilità aquiliana dell’agente della riscossione accertabile dopo la conclusione dell’esecuzione, possa accompagnarsi un’altra forma di tutela che si svolga nella pendenza dell’espropriazione.

In merito ai fatti costitutivi dell’azione di responsabilità extracontrattuale, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di specificare che “nell’ipotesi di esecuzione esattoriale per sanzioni amministrative, il debitore non può proporre – né ai sensi dell’art. 59 del d.P.R. 29 settembre 1972, n. 603, né dell’art. 2043 cod. civ. – domanda di risarcimento fondata sulla circostanza del volontario pagamento degli importi richiesti e su motivi di ingiustizia o di illegittimità di atti presupposti o preliminari all’esecuzione stessa che il medesimo abbia volontariamente omesso di impugnare nelle competenti sedi, dovendosi ritenere, da un lato, ormai decaduto dalla possibilità di far valere, anche in via risarcitoria, siffatta doglianza e, dall’altro, che la definitività degli atti elida in radice, se non anche la stessa ingiustizia del danno, quanto meno – in difetto di diverse, ulteriori e specifiche allegazioni- l’elemento soggettivo dell’agente” (Cass. 20 marzo 2014, sent. n. 6521. In senso conforme, nell’ambito della giurisprudenza di merito, si è espressa Tribunale di Padova 26 maggio 2016). Ancora, “in tema di riscossione coattiva delle imposte sui redditi, l’azione di risarcimento del danno proposta dall’esecutato nei confronti dell’ente esecutante postula l’affermazione della illegittimità o della invalidità dell’esecuzione, non essendo sufficiente l’allegazione di comportamenti soltanto inopportuni (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la richiesta di risarcimento dei danni proposta per avere l’esattore proceduto alla pubblicazione dell’avviso di vendita dopo che il giudice tributario aveva sospeso l’efficacia della cartella esattoriale relativa ad una procedura che, seppure distinta, era oggettivamente connessa con quella degli attori)” (Cass. 09 marzo 2006, sent. n. 5120)

Il rimedio risarcitorio previsto dall’art. 59 è stato ritenuto da alcune pronunce di merito come una vera e propria “disposizione di chiusura” dell’intero sistema, utilizzabile addirittura quando non sia stato possibile esperire con successo le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi. 

In tal senso, Tribunale di Genova, Sez. fallimentare, 23 marzo 2007, secondo cui “ai sensi dell’art. 2929 c.c., ed in ottemperanza al generale principio di tutela dell’affidamento incolpevole, all’acquirente nell’esecuzione forzata non sono opponibili le nullità del processo esecutivo anteriori alla vendita, salvo il caso si collusione con il creditore procedente, intendendosi per nullità degli atti esecutivi quelle dichiarate ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c. In particolare, nella ipotesi specifica dell’esecuzione esattoriale – ricorrente nella specie – la suddetta inammissibilità – fatta eccezione, relativamente alle opposizioni all’esecuzione, per quelle concernenti la pignorabilità dei beni – ha ricevuto puntuale disciplina nell’art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 – come mod. dall’art. 16 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 – tale che all’esecutato rimane solo il diritto di chiedere il risarcimento danni dopo il compimento dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 59 del D.P.R. n. 602/1973”.

Un istituto processuale invocabile per attenuare lo sbilanciamento delle posizioni coinvolte nella riscossione coattiva dei tributi potrebbe essere quello della responsabilità aggravata di cui al comma 1 dell’art. 96 c.p.c., che risulta applicabile al processo tributario e potrebbe consentire al giudice di condannare il concessionario della riscossione, che abbia resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, al risarcimento del danno derivante dall’adozione di misure di tutela del credito tributario sproporzionate rispetto alle effettive esigenze oppure dirette unicamente a coartare un adempimento spontaneo del debitore.

In particolare, in un giudizio proposto avverso il fermo amministrativo o l’iscrizione di ipoteca fiscale il ricorrente può chiedere nel ricorso, oltre alla dichiarazione dell’illegittimità dell’atto, anche il risarcimento del danno, devolvendo al giudice tributario un’azione di cognizione finalizzata all’accertamento della responsabilità aggravata dell’agente della riscossione.

Tali rilievi consentirebbero di bilanciare i poteri attribuiti all’agente della riscossione e l’ampia discrezionalità di cui egli dispone nell’utilizzo degli stessi con un controllo giurisdizionale non soltanto di tipo demolitorio, ma anche di tipo riparatorio.

Al contrario, non può affermarsi, che un simile assetto potrebbe portare ad un intralcio al regolare svolgimento dell’azione di recupero della morosità tributaria potendo essere strumentalizzato dal contribuente interessato alla semplice dilazione del carico in riscossione.

Una simile eccezione, tuttavia, non è convincente, trovando applicazione, anche nel processo tributario, gli strumenti di diritto processuale comune finalizzati ad impedire l’abuso del processo, ma ben potendosi prevenire sia responsabilità amministrative che danni ingiusti mediante l’attento uso dei poteri inibitori che la legge attribuisce non soltanto al giudice tributario, ma, prima ancora, all’autorità amministrativa.

La rigorosità dei mezzi esecutivi attribuiti al concessionario può, infatti, essere bilanciata da un attento uso del potere amministrativo di sospensione della riscossione, che la legge, in particolare l’art. 39 del DPR n. 602/1973, attribuisce all’autorità amministrativa che ha proceduto alla formazione del titolo esecutivo portato a riscossione coattiva.

Tale potere, nella pratica operativa, appare poco utilizzato, in quanto, nella convinzione comune, l’utilizzo dell’ampio potere discrezionale a favore del contribuente-debitore può rivelarsi fonte di responsabilità del funzionario nei confronti dell’amministrazione stessa, sia dal punto di vista della deviazione a direttive, che del potenziale danno erariale conseguente al ritardato percepimento della somma dovuta.

Se tali responsabilità fossero bilanciate dalla prospettazione di una, effettiva, responsabilità per danni nei confronti del destinatario dell’azione amministrativa, allora potrebbe pensarsi ad una adeguata ponderazione del funzionario non soltanto nell’adozione dei mezzi esecutivi o di garanzia, ma anche nella valutazione di una temporanea prevenzione dell’aggravamento della situazione dannosa, mediante l’accorto uso del potere di sospensione della riscossione, in vista di una approfondita cognizione in sede di autotutela amministrativa o di processo tributario suscettibile di restaurare il diritto di cui si assume la violazione.

In definitiva, la natura pubblica del credito tributario è certamente tale da imporre profonde deviazioni al diritto comune in tema di tutela esecutiva, tuttavia la previsione di opportune misure di garanzia effettiva delle posizioni soggettive ingiustamente travolte dalla rigorosità dei mezzi apprestati dalla legge, unitamente ad un ponderato uso dei poteri di autotutela amministrativa nella fase della riscossione, consentirebbero, applicando la normativa vigente, di superare i profili di criticità segnalati ed avviare un dialogo tra contribuente e fisco non più fondato sulla pura contrapposizione di situazioni di vantaggio, bensì basato, secondo il disegno costituzionale che ne è alla base, sul rispetto della legalità nell’imposizione.

 

Prof. Federica Simonelli

Unicusano- Roma