Convegno Lerici, 05 aprile 2019
“LE ENTRATE LOCALI tra procedimenti deflattivi, sanzionatori e responsabilità erariale”
Il rito del lavoro di primo grado applicato all’opposizione ad ordinanza-ingiunzione
Sommario: 1. Il rito di cui alla L. n. 689 del 1981 (cenni); 2. Origine ed evoluzione del vigente processo del lavoro; 3. Il d.lgs. n. 150 del 2011 ed il processo del lavoro; 4. I tratti specifici del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione (art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011); 5. I caratteri fondamentali e distintivi del processo del lavoro; 6. Gli atti introduttivi. Il ricorso; 7. La comparsa di costituzione e risposta. Il regime della domanda riconvenzionale. L’intervento del terzo; 8. L’udienza di discussione di cui all’art. 420, c.p.c. e lo svolgimento del processo; 9. L’art. 421, c.p.c.; 10. La decisione della causa in primo grado; 11. Le impugnazioni (cenni).
- Il rito di cui alla L. n. 689 del 1981 (cenni)
Le disposizioni processuali erano contenute negli artt. 22-22 bis[2]-23, L. n. 689 del 1981.
Il rito si rifaceva a quello del lavoro, ma non era esattamente sovrapponibile.
Fin da subito la scelta del giudice si indirizzò verso quello monocratico (allora, il pretore (art. 22, 1º comma).
Non era affermata la competenza del giudice penale, conformemente alla natura dell’intervento di cui alla L. n. 689.
Il termine per il deposito dei documenti da parte dell’Amministrazione era ritenuto dilatorio, quindi gli stessi potevano essere depositati anche successivamente ed utilizzati ai fini di prova[3].
L’opposizione poteva vertere sia su vizi formali che sostanziali[4].
Per quanto concerne questi ultimi, l’art. 23, ult. comma, chiariva che l’opposizione si incentrava (anche) sulla sussistenza del diritto dell’Amministrazione, con onere della prova in caso ad essa[5].
Ciò era poi rafforzato, nel corso del tempo, dalle pronunzie della Corte costituzionale sul quinto comma dell’art. 23, intervenute nel 1990 e nel 1995[6].
La sentenza era inappellabile ma ricorribile per Cassazione (v. art. 111, Cost.)[7].
Se l’ordinanza-ingiunzione concerneva sanzioni in materia di previdenza ed assistenza sociali[8], competente era invece il pretore in funzione di giudice del lavoro (v. art. 35, L. n. 689); in tal caso si applicavano gli artt. 442 ss., c.p.c. e la sentenza era appellabile[9].
Il rito di cui alla L. n. 689 del 1981 è stato abrogato dall’art. 34, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2011, c.d. “decreto tagliariti”, che ha previsto, per le opposizione ad ordinanza-ingiunzione, l’applicazione del processo del lavoro (art. 6).
- Origine ed evoluzione del vigente processo del lavoro
Il processo del lavoro vigente nell’ordinamento giuridico italiano trova la sua disciplina negli artt. 409 e sgg. del codice di rito civile (approvato con r.d. n. 1443 del 1940), come riformulati a seguito della L. n. 533 del 1973[10] ed entrati in vigore a far tempo dal 12 dicembre 1973 (art. 30, L. n. 533).
Il legislatore del 1973, nel riformulare il processo del lavoro e quello previdenziale, ha riscritto il Titolo IV del Libro secondo del Codice, distinguendo due Capi: il primo, dedicato alle controversie individuali di lavoro (artt. 409-441, ripartiti tra Sezioni e §§) ed il secondo, deputato alle cause di previdenza ed assistenza obbligatorie (artt. 442-447).
Il processo del lavoro del 1973 (vale a dire, quello oggi vigente) si è subito imposto all’attenzione della dottrina[11] e degli operatori pratici per i suoi tratti fondamentali, che lo hanno distinto dal processo civile ordinario (contenuto invece nei Titoli dal primo a terzo del Libro secondo); la distinzione era ancor piú netta di oggi, poiché, al tempo, il processo civile ordinario[12] era in gran parte il risultato delle modifiche apportate al codice con la c.d. controriforma di cui alla L. n. 581 del 1950 (processo scritto e senza decadenze). A partire dalla L. n. 353 del 1990, non vi è dubbio che molte delle peculiarità del processo del lavoro rispetto a quello civile si sono, se non annullate, alquanto ridotte.
Si è assistito, cioè, ad un progressivo entrare nel processo civile di alcune delle regole del processo del lavoro (che presto vedremo), nella convinzione, da piú parti crescentemente avvertita, che, per poter funzionare, il processo deve essere governabile dal giudice, regolato attraverso preclusioni alle attività difensive e non affidato esclusivamente al giuoco processuale delle parti.
La validità del modello processuale del 1973 si è manifestata anche negli interventi settoriali che il legislatore, negli anni, ha effettuato: cosí, non vi è dubbio che il processo di opposizione ad ordinanza-ingiunzione visto supra (§1), sebbene fosse speciale in quanto dotato di regole sue proprie, si ispirasse al processo del lavoro del 1973; e come non ricordare che, nel corso del tempo, si è creato un rito locatizio modellato su quello del lavoro (artt. 43 ss., L. n. 392 del 1978, nuovo art. 447 bis, c.p.c.)[13].
Insomma, dal 1973 in avanti, ogni qual volta il legislatore ha introdotto nuovi riti speciali – soprattutto per le materie socialmente piú scottanti, come le sanzioni amministrative e le locazioni immobiliari – e quando ha deciso di riformare quello civile ordinario, la scelta è stata ispirata dal processo del lavoro[14]; nel contempo, nel regolare le connessioni tra cause soggette a riti diversi, il legislatore ha optato per la prevalenza di quello ordinario, salvo, significativamente, che almeno una segua il rito del lavoro: in tal caso, la scelta normativa è stata per quest’ultimo (art. 40, 3º comma, c.p.c., secondo la modifica apportata con la L. n. 353 del 1990).
Vi sono state – è vero – anche delle modifiche al processo del lavoro, ma si tratta di innovazioni che attengono essenzialmente alla fase pregiudiziale (il tentativo di conciliazione)[15] o alle modalità di decisione del giudizio (nuovo art. 429, 1º comma, c.p.c.)[16], le quali, però, non hanno messo in discussione l’impianto della riforma del 1973[17].
Ricordiamo anche che, con la c.d. privatizzazione del pubblico impiego (attuata attraverso il d.lgs. n. 29 del 1993 e, poi, il d.lgs. n. 80 del 1998), sono state attribuite al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro le controversie del settore[18], cui oggi si applicano gli artt. 409 sgg., c.p.c..
Non può stupire, quindi, che quando il legislatore, sotto le spinte della congiuntura economica, ha deciso, tra l’altro, di razionalizzare il sistema dei procedimenti civili e favorire, per questa via, la competitività del Paese, si sia guardato al processo del lavoro come a uno di quei riti da conservare (accanto a quello civile ordinario ed a quello c.d. sommario) e verso il quale attrarre molti altri processi; e cosí, tra gli altri, il procedimento avverso i verbali di accertamento delle violazioni al codice della strada, basato sull’impianto degli artt. 22 sgg., L. n. 689 del 1981, è ora regolato, per le opposizioni introdotte dopo il 5 ottobre 2011, dal processo del lavoro (art. 36 d.lgs. n. 150 del 2011).
- Il d.lgs. n. 150 del 2011 ed il processo del lavoro
Dunque, con il d.lgs. n. 150 del 2011[19], emanato in forza della delega contenuta nell’art. 54, L. n. 69 del 2009, il legislatore è intervenuto facendo ordine tra i riti che, negli ultimi decenni, erano stati codificati per questo o quel settore della materia civile e li ha ricondotti a tre schemi fondamentali: per quel che ci riguarda, uno di questi, come già anticipato supra, è il processo del lavoro al cui rito sono oggi riportate, tra le altre, le opposizione ad ordinanza-ingiunzione (art. 6, comma 1, salvo «ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo») e le controversie avverso i verbali di accertamento delle violazioni al codice della strada (art. 7, comma 1, d.lgs. n. 150, salvo, ancora una volta, ove non diversamente disposto).
La disposizione dell’art. 6 (come anche quella dell’art. 7) va quindi intesa, a scanso di equivoci, non nel senso che la competenza a conoscere di tali controversie viene oggi affidata al giudice del lavoro (giudice togato di Tribunale), ma solo nel senso che si applica a queste controversie il rito del lavoro.
Pertanto, il giudice competente a conoscere rimane il giudice civile, in via generale di pace (art. 6, comma 3, d.lgs. n. 150) e, per le materie di cui al comma 4 o per l’entità della sanzione (comma 5), il Tribunale, in composizione monocratica.
Tratteggeremo ora la disciplina specifica del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, nella parte in cui rimane peculiare rispetto al regime del processo del lavoro.
Esamineremo, poi, i lineamenti del processo del lavoro: i caratteri fondamentali e distintivi, gli atti introduttivi del giudizio, l’udienza di discussione e lo svolgimento del processo, i poteri officiosi del giudice, la conclusione del giudizio e, solo per cenno, le impugnazioni.
Non ci occuperemo invece di quelle disposizioni del processo del lavoro, che non sono applicabili alla materia che ci occupa: come l’art. 409, c.p.c., che individua, con portata sostanziale, i tipi di rapporto ai quali si attaglia il processo del lavoro, gli artt. 410-412, c.p.c., che riguardano il tentativo di conciliazione e l’arbitrato di lavoro, l’art. 423, sulla possibilità di emettere ordinanze di condanna al pagamento di somme, l’art. 425, sulle richieste alle Organizzazioni sindacali e tutti gli articoli da 442 in avanti, che regolano il processo previdenziale.
In effetti, lo stesso legislatore delegato ha espressamente escluso, nel richiamo del rito del lavoro, le disposizioni di cui agli artt. «413, 415, settimo comma, 417, 417-bis, 420-bis, 421, terzo comma, 425, 426, 427, 429, terzo comma, 431, dal primo al quarto comma e sesto comma, 433, 438, secondo comma, e 439» (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2011) ed ha stabilito le modalità di applicazione di alcune altre (art. 2, commi 2-3, d.lgs. n. 150 del 2011).
Invece, per quanto concerne le opposizioni avverso le ingiunzioni di cui al r.d. n. 639 del 1910, sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, si applica il rito ordinario di cognizione (art. 32, d.lgs. n. 150 del 2011).
- I tratti specifici del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione (art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011)
Competenza per territorio
Dopo aver già veduto supra quale sia il giudice dotato di potestas a conoscere nella materia, esaminiamo in sequenza il disposto dell’art. 6, comma 2 (che riprende l’art. 22, 1º comma, L. n. 689 del 1981) , per il quale
«l’opposizione si propone davanti al giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione».
La giurisprudenza ha chiarito che «il giudice territorialmente competente a decidere … è, nel caso di illeciti di natura omissiva, quello del luogo in cui si sarebbe dovuta tenere la condotta che, invece, è mancata nel termine utile; quando sussista una pluralità di luoghi di commissione dell’infrazione, la competenza territoriale è stabilita dal luogo di accertamento dell’illecito»[20].
Piú in generale, la giurisprudenza individua il giudice territorialmente competente in «… quello del luogo di accertamento dell’infrazione, presuntivamente ritenuto coincidente con quello di commissione dell’illecito, o quello del luogo di commissione del fatto, quando questo risulti pacificamente diverso da quello dell’accertamento; quando sussista una pluralità di luoghi di commissione dell’infrazione, la competenza territoriale è stabilita dal luogo di accertamento dell’illecito»[21].
Va infine ricordato che, avverso i provvedimenti sanzionatori di cui alla L. n. 136 del 2010 («Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia»), l’opposizione si propone al giudice del luogo ove ha sede l’Autorità che ha emesso il provvedimento impugnato, con espressa deroga alla previsione di cui all’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011 (v. art. 6, comma 5, L. n. 136 del 2010 e succ. modd.).
Termine per l’opposizione.
Disciplina della comparizione
Notifiche
Il termine per proporre opposizione è di giorni trenta («sessanta se il ricorrente risiede all’estero») ed è ammesso l’inoltro postale (v. art. 6, comma 6)[22].
Questa disposizione, stabilendo che il termine è previsto «a pena di inammissibilità», chiarisce che lo stesso è perentorio.
Del resto, il giudice, qualora, in limine litis, riscontri la tardività dell’opposizione, deve dichiarare inammissibile il ricorso, cosí precludendosi l’esame del medesimo [art. 6, comma 10, lett. a)].
Nel sistema originario di cui all’art. 23, L. n. 689 del 1981, il rigore sul punto era maggiore, in quanto il pretore dichiarava immediatamente l’inammissibilità del ricorso, ove fosse stato rilevato come tardivo, «con ordinanza ricorribile per cassazione» (art. 23, 1º comma).
La verifica non veniva quindi fatta in contraddittorio.
Per quanto concerne la fissazione dell’udienza, la nuova disposizione offre un maggior raccordo con la disciplina del processo del lavoro, richiamando l’art. 415, c.p.c., ma continuando a disporre che il giudice ordini all’Autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in giudizio tutta la documentazione del caso (rapporto per illecito amministrativo-atti dell’accertamento).
Il termine è stabilito in dieci giorni prima dell’udienza, che è anche il termine per la tempestiva costituzione del convenuto nel processo del lavoro ex art. 416, c.p.c..
Come era già previsto dall’art. 23, nono comma, L. n. 689 del 1981, alle notifiche provvede la Cancelleria[23].
Sospensione dell’efficacia del provvedimento
Per il resto, la sospensiva del provvedimento impugnato è ammessa e regolata, in via generale, dall’art. 5, d.lgs. n. 150 e, nello specifico, dall’art. 6, comma 7, che richiama l’appena detto art. 5.
Onere della prova.
Contenuto della decisione del giudice
Il corretto riparto dell’onere della prova emerge dall’art 6, commi 10 ed 11, i quali riprendono le precedenti, corrispondenti, disposizioni dell’art. 23, L. n. 689 del 1981, come incise dalle sentenze del 1990 e del 1995 della Corte costituzionale[24].
La decisione del giudice, conformemente a quanto già previsto dall’art. 23, undecimo comma, L. n. 689 del 1981, può spaziare dalla conferma all’annullamento del provvedimento opposto, come anche alla modifica dell’entità della sanzione (art. 6, comma 12).
Non si applica la disposizione sul giudizio secondo equità (art. 113, 2º comma, c.p.c.), mentre sembrerebbe trovare applicazione – poiché non escluso dall’elenco di cui all’art. 2, d.lgs. n. 150[25] – l’art. 432, c.p.c., che disciplina il potere di decidere equitativamente da parte del giudice del lavoro.
Tuttavia, anche nel caso di modifica, da parte del giudice, dell’entità della sanzione, tale potere dovrà esercitarsi in conseguenza delle risultanze di causa e, per il principio di legalità che informa la materia (artt. 1, 10-12, L. n. 689 del 1981), non potrà mai avvenire per mera equità (anche ex art. 432, c.p.c.), ma dovrà essere sempre ancorato ai parametri normativi vigenti per la determinazione di quella specifica sanzione tenendo conto dell’esito dell’accertamento giudiziale.
Passato cosí in rassegna l’art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011, approfondiamo le caratteristiche del processo del lavoro.
- I caratteri fondamentali e distintivi del processo del lavoro
Oralità, concentrazione ed immediatezza sono i tre caratteri distintivi del processo del lavoro, che lo contraddistinguono fin dalla sua entrata in vigore[26].
Oralità sta a significare che il processo deve ridurre all’essenziale gli atti scritti e privilegiare l’approccio diretto da parte di tutti i soggetti coinvolti:
Ø delle parti interessate, chiamate, sotto pena di conseguenze processuali sfavorevoli, a presenziare all’udienza di discussione della causa, per essere liberamente interrogate dal giudice (art. 420, 1º comma, 1ª parte, c.p.c.),
Ø dei difensori, che debbono trattare e discutere oralmente la causa, salvo che il giudice conceda un breve termine per note (art. 420, 6º comma; art. 429, 2º comma, c.p.c.),
Ø del giudice, che definisce il giudizio in udienza, mediante lettura del dispositivo e successiva stesura della motivazione, ovvero, oggi, mediante lettura della sentenza costituita da una succinta motivazione e dal dispositivo (art. 429, c.p.c.).
Concentrazione vuol dire, innanzi tutto, che il processo deve essere completo in tutti i suoi elementi fin dagli atti introduttivi; ricorso e comparsa di costituzione e risposta debbono infatti contenere, rispettivamente:
Ø la causa petendi, il petitum, l’indicazione dei mezzi di prova, l’allegazione dei documenti a sostegno (art. 414, c.p.c.),
Ø specifiche contestazioni su quanto affermato dall’attore, tutte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, l’indicazione delle prove e dei documenti, la formulazione della chiamata di terzo e di domanda riconvenzionale; inoltre, la comparsa deve essere depositata in un termine perentorio (art. 416, c.p.c.),
Inoltre, il processo deve fissato a breve scadenza dal deposito del ricorso introduttivo (sessanta giorni, ex art. 415, c.p.c.), esser definito tendenzialmente in un’unica udienza (art. 420, 4º comma) od in udienze ravvicinate (art. 420, commi 5º sgg) col divieto di meri rinvii (art. 420, ult. comma).
Infatti, la discussione della causa deve seguire immediatamente dopo (o poco dopo) la chiusura dell’istruttoria, ove ammessa, ovvero subito dopo il libero interrogatorio ed il tentativo di conciliazione; e cosí, alla discussione delle parti, seguirà illico et immediate, la decisione del giudice; non è ammessa la riserva del giudice, né per sciogliere questioni interinali né per la decisione finale.
Non solo, ma, per favorire la funzionalità del processo, è stato prescritto che, ove non diversamente disposto, a tutte le notifiche si provveda d’Ufficio (art. 420, penult. comma); norma, tuttavia, nella pratica disapplicata per le croniche carenze del personale amministrativo e supplita dall’attività delle parti, previo provvedimento in tal senso del giudice.
Con il principio di immediatezza, si vuol affermare un modello di processo che fa della celerità uno dei suoi punti cardine: come si vede, oralità e concentrazione sono due facce di una medaglia che, sull’altra, ha l’immediatezza, ovvero oralità e concentrazione sono i caratteri necessari per far sí che il processo sia rapido, conciso, stringente: in una parola, immediato.
Per conseguire questo ambizioso obiettivo, la trama del processo è stata strutturata mediante le preclusioni: in altri termini, le parti non possono liberamente svolgere la loro attività defensionale a qualunque punto del giudizio, ma soltanto in determinati momenti; questi ultimi si identificano, essenzialmente, negli atti introduttivi (per il convenuto, anche tempestivamente depositati), prodotti i quali non è tendenzialmente possibile integrare le domande, le difese, le eccezioni, le produzioni documentali, le allegazioni probatorie.
In sostanza, all’udienza di discussione, il processo arriva già completo, poiché le parti debbono aver depositato banco judicis tutte le loro carte e speso tutti i loro mezzi; il giudice sarà quindi in grado di affrontare l’udienza in modo consapevole, potrà governare il processo e decidere, dopo gli adempimenti del libero interrogatorio e del tentativo di conciliazione, se far discutere immediatamente la causa ovvero – ed in che termini – aprire l’istruttoria.
A coronamento delle preclusioni, sta, come si vede, un accentuato potere di governo da parte del giudice: egli infatti non ha ragione di attendersi nuovo materiale di causa; ed, inoltre, la legge gli conferisce ampi poteri officiosi (art. 421, c.p.c.), sebbene la disposizione, piú che volta a favorire la celerità del rito, sia tesa alla ricerca della c.d. verità materiale, principio cui deve tendere ogni processo ma sentito come particolarmente importante in quello del lavoro.
Naturalmente, se si esige un giudice scrupoloso, coscienzioso e preparato, anche i difensori debbono attendersi la possibile discussione della causa fin dalla prima udienza: e, quindi, pure l’avvocato è chiamato a studiare gli atti e a presentarsi preparato in ogni momento del processo.
Anche oggi che il processo ordinario ha introdotto alcune preclusioni, permangono differenze sostanziali con quello del lavoro: quest’ultimo, a differenza dell’altro, non è articolato in fasi (di prima comparizione e trattazione, istruttoria, decisoria), ma è strutturato nell’unica udienza di discussione ove si dispiega nella sua interezza.
- Gli atti introduttivi. Il ricorso
Atto introduttivo del giudizio di lavoro è il ricorso; quindi, l’attore prima deposita in Cancelleria il proprio atto introduttivo e poi lo notifica al convenuto unitamente al provvedimento del giudice che fissa l’udienza di discussione.
In sostanza, con la citazione il giudice viene investito della controversia dopo che l’attore ha notificato al convenuto l’invito a comparire davanti all’Ufficio in un certo giorno; nel rito del lavoro, l’attore attiva immediatamente il giudice – ricorrendo a lui – ed il giudice conosce la richiesta dell’attore prima che lo sappia il convenuto.
Se il processo è pendente con il deposito del ricorso, è a questo adempimento che va fatto riferimento per verificare se l’attore sia incorso in decadenze; invece, per quanto riguarda quegli effetti che presuppongono la conoscenza o conoscibilità dell’atto da parte del convenuto (come, p. es., l’interruzione della prescrizione), devesi oggi[27] distinguere tra la sfera dell’attore e quella del convenuto: per l’attore, la salvezza del termine si avrà quando egli affida all’agente notificatore l’atto da notificare[28], ma, per il convenuto, occorrerà pur sempre aver riguardo a quando la notifica può dirsi perfezionata.
Inoltre, dato che il processo inizia col deposito del ricorso, nel rito del lavoro non è possibile – a differenza che nel rito ordinario – la contumacia dell’attore, ma solo quella del convenuto.
L’art. 414, c.p.c., indica gli elementi che debbono caratterizzare il ricorso. Appare importante soffermarsi su quanto previsto dai nn. 3) e 4): con essi, si prescrive che siano specificate le ragioni in fatto e diritto che sostengono la domanda (id est, che delineano la fattispecie costitutiva del diritto), o causa petendi e le conclusioni che si sottopongono al giudice, intese sia come petitum mediato (o bene della vita di cui si chiede tutela o riconoscimento) sia come petitum immediato (o conclusioni finali del ricorso).
Con tale prescrizione di legge, il ricorrente individua cosí ab initio che cosa reclama, come conclude ed in base a quali elementi di fatto e di diritto egli avanza le sue domande: si parla di editio actionis.
La possibilità, per entrambe le parti, di modificare domande, eccezioni e conclusioni deve essere pertanto riguardata come eccezionale: ed infatti la legge l’ammette ma solo a rigorose condizioni: che vi sia l’autorizzazione del giudice e che concorrano «gravi motivi» (art. 420, 1º comma, ult. parte, c.p.c.); tale eventualità può avvenire all’udienza di discussione, dopo il libero interrogatorio delle parti: infatti, solo l’interrogatorio potrebbe, a rigore, apportare elementi ulteriori o nuovi tali da giustificare non un mutamento della domanda (mutatio libelli) ma solo una sua precisazione (emendatio)[29].
Cosí la causa petendi posta a base della domanda non può essere stravolta per effetto delle difese del convenuto, ma potrà esser precisata a seguito di quanto sia emerso dall’interrogatorio libero.
Il n. 5) dell’art. 414 fa riferimento, invece, al merito e richiede che il ricorso sia completo delle richieste istruttorie oltrecché delle produzioni documentali.
Su quest’ultimo punto, dopo alcune incertezze[30], la giurisprudenza si è tendenzialmente orientata nel senso che nuove produzioni documentali, una volta depositati gli atti introduttivi, sono consentite solo se si tratta di scritti formati o reperiti successivamente ovvero se la necessità della produzione sorge dalle difese della controparte[31].
Occorre ora fare una importante distinzione.
La mancanza o contraddittorietà, nel ricorso, dei requisiti di cui ai nn. 1)-4) dell’art. 414, c.p.c., incide sulla validità dell’atto e riguarda, quindi, il rito; la mancanza o l’insufficienza o la contraddittorietà degli elementi di cui al n. 5) attiene al merito e conduce ad una sentenza di rigetto[32].
E’ interessante osservare come la giurisprudenza abbia insegnato che la carenza o la contraddittorietà degli elementi di rito deve condurre alla pronunzia di nullità ogni qual volta tali vizi siano cosí gravi, pur dall’esame complessivo dell’atto[33], da non consentire di individuare petitum o causa petendi (nullità insanabile)[34].
Tuttavia, a partire dalla Cassazione a Sezioni unite 17 giugno 2004, n. 11353[35], si è sostenuto che, applicandosi anche nel rito del lavoro i principi del rito ordinario (quale rito generale) non diversamente regimati, vale il meccanismo di cui agli artt. 156, 4º comma e 164, 4º-5º comma e sgg., c.p.c., che consente la sanatoria delle nullità; pertanto, rilevata il vizio del ricorso, il giudice dovrà assegnare all’attore un termine per emendarlo mediante il deposito di un atto integrativo e consentire al convenuto di completare le sue difese in relazione a tale atto. Gli effetti della sanatoria, a seconda che attengano alla vocatio in jus [art. 414, nn. 1)-2)] ovvero all’editio actionis [art. 414, nn. 3)-4)], saranno retroattivi o meno (ex art. 164, 5º comma, ult. parte, c.p.c.)[36].
Altre pronunce mostrano di non condividere, nella sostanza, questa impostazione, osservando che, quando il vizio attiene all’editio actionis, consentire la sanatoria equivale a superare le preclusioni, ormai formatesi in danno dell’attore; e, comunque, il meccanismo non potrebbe operare quando i vizi dell’editio actionis siano cosí gravi da rendere del tutto oscura od assente la causa petendi o contraddittorie le conclusioni: in tal caso il giudice dovrebbe subito dichiarare la nullità insanabile del ricorso[37].
Vi è, però, anche nella giurisprudenza della Cassazione, un avviso importante: la sanatoria dei vizi del ricorso non può consentire alla parte di superare le preclusioni in materia di allegazioni e prove: in altri termini, il vizio di rito può essere sanato ma il difetto di merito è insuperabile. Cosí il giudice, dopo aver rilevato il vizio di rito e consentito la sanatoria, non dovrebbe permettere, con essa, anche la correzione di eventuali deficienze di allegazione e di prova e, quindi, dovrebbe immediatamente rigettare la domanda.
I due profili sono strettamente intrecciati, poiché una certa impostazione di rito porta con sé anche una conseguente allegazione e deduzione istruttoria: onde, può accadere che, emendato il ricorso in rito, ci si avveda che le allegazioni e le prove sono insufficienti o non piú congruenti con l’impostazione dell’atto; epperò, a tale deficienza, non potrebbe, a rigore, porsi rimedio.
Una volta depositato il ricorso, il giudice deve fissare l’udienza di discussione con decreto ed il ricorso, col decreto, viene notificato al convenuto a cura dell’attore (art. 415, 4º comma, c.p.c.)[38].
Sul punto, dopo alcune recenti incertezze[39], può dirsi che i termini previsti nell’art. 415, c.p.c., sono ordinatori e che l’unico termine insuperabile, poiché finalizzato alla corretta instaurazione del contraddittorio nel rispetto del diritto di difesa, è quello di trenta giorni (art. 415, 5º comma, c.p.c.), che deve sussistere tra la notifica al convenuto e la data dell’udienza di discussione.
Tuttavia, qualora, all’udienza, il convenuto non siasi costituito ed il ricorrente non dia prova di aver almeno tentato la notifica, il giudice non potrà fissare altra udienza con nuovo termine per notifica, ma dovrà chiudere in rito il processo, dichiarando l’improcedibilità del ricorso. In tal modo, si sanziona l’inerzia ingiustificata (di una) delle parti, che spesso, in passato, ha favorito il perdurare delle cause.
- La comparsa di costituzione e risposta. Il regime della domanda riconvenzionale. L’intervento del terzo
Il convenuto, cui sia stato tempestivamente notificato il ricorso, ha l’onere di costituirsi in Cancelleria almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata dal giudice nel suo decreto di comparizione[40].
Il convenuto, come l’attore, ha l’onere di prendere posizione specifica sui fatti dedotti dall’altra parte a fondamento delle proprie domande: contestazioni generiche e totalitarie non sono ammesse e, se fatte, sono tamquam non essent; inoltre, il convenuto deve spendere nella propria comparsa le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili di ufficio (p. es., la prescrizione, l’avvenuto pagamento), proporre tutti i mezzi di prova e depositare i documenti che ritiene utili alla sua difesa (art. 416, c.p.c.).
La posizione del convenuto è esattamente analoga a quella dell’attore ed è funzionale al conseguimento della concentrazione del processo e, quindi, alla sua immediata definizione.
Anche la chiamata del terzo, se il convenuto intende richiederla, deve essere inserita nella comparsa: è importante sottolineare che il governo del processo da parte del giudice si estrinseca anche in questo, ossia che il convenuto non ha facoltà di estendere ad altri la lite se non previa istanza; se il giudice lo autorizzerà, ciò avverrà all’udienza di discussione e tale udienza dovrà essere differita.
In tal caso, il codice detta regole stringenti sui tempi, per evitare che la chiamata di terzo determini un’incontrollabile dilatazione del rinvio dell’udienza; per il terzo, valgono gli oneri, di costituzione tempestiva e di completezza delle difese, appena visti per il convenuto (art. 420, 9º-10º comma, c.p.c.).
L’intervento volontario del terzo è, nel processo del lavoro, limitato, poiché il terzo può intervenire – salvo che si debba integrare il contraddittorio – soltanto entro il termine di costituzione del convenuto: e ciò, ancora una volta, è funzionale alla concentrazione del giudizio ed alla sua immediata definizione[41].
Il convenuto può anche spiegare domanda riconvenzionale nei confronti dell’attore: in tal caso, egli amplia l’oggetto del giudizio, ma non la sua complessità soggettiva.
La peculiarità sta nel fatto che occorre differire l’udienza di discussione per dar modo all’attore di replicare (al limite, potrebbe a sua volta proporre domanda riconvenzionale sulla riconvenzionale avversaria: c.d. reconventio reconventionis); il convenuto è quindi onerato di richiedere, con la formulazione della domanda riconvenzionale, il differimento dell’udienza (art. 418, 1º comma, c.p.c.). La giurisprudenza della Cassazione interpreta con particolare rigore questa disposizione, essendo finalizzata alla valida instaurazione del contraddittorio: conseguentemente, l’omissione dell’istanza di differimento rende inammissibile senza rimedio la domanda riconvenzionale e tale vizio può essere rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del giudizio: a nulla vale, quindi, che il ricorrente non se ne sia doluto ed abbia accettato il contraddittorio sulla riconvenzionale[42].
- L’udienza di discussione di cui all’art. 420, c.p.c. e lo svolgimento del processo
Centro del processo del lavoro e sua unica fase è l’udienza di discussione di cui all’art. 420, c.p.c..
In questa udienza si svolgono tutte le vicende rilevanti di questo tipo di processo, a partire dalla verifica della rituale instaurazione del contraddittorio (se il convenuto è rimasto contumace), dall’esame del ricorso sotto il profilo della sua validità, se del caso attivando il meccanismo processuale di cui all’art. 164, 4º-5º comma, c.p.c.[43]; inoltre, il giudice potrà rilevare eventuali mere irregolarità degli atti delle parti, dando loro un termine per la sanatoria (art. 421, 1º comma, c.p.c.)[44].
Ciò adempiuto, seguono il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione (art. 420, 1º comma, 1ª parte e 2º comma sgg., c.p.c.): adempimenti che sono particolarmente importanti in quanto il giudice, essendo gli atti completi, può condurli con cognizione di causa e può far emergere fin dal principio la realtà sostanziale ovvero individuare un accettabile punto di accordo.
Per questo, la mancata comparizione all’interrogatorio o la delega ad un procuratore non informato dei fatti di causa è processualmente fonte di rilevanza; del resto, come gli atti debbono essere completi e circostanziati, cosí non è ammissibile un interrogatorio generico ad opera di delegati non a conoscenza puntuale dei fatti.
Si tratta di interrogatorio libero e non formale, quindi non è condotto sui capitoli di prova dedotti dalla parte, ma d’ufficio dal giudice sui fatti di causa e su quelli che lo stesso giudice, a conoscenza degli atti, ritiene di approfondire[45]; certamente, dalle risposte potranno emergere fatti aventi valenza confessoria, quando, p. es., la parte ricorrente, rispondendo al giudice, faccia chiaramente emergere l’insussistenza dei fatti costitutivi del suo diritto (od, al contrario, se risponde il convenuto, si evinca la piena sussistenza dei fatti affermati dall’attore).
L’essenziale fase dell’interrogatorio consente poi al giudice di dirigere il processo nei modi che egli riterrà piú adeguati:
– potrà concedere alle parti termine per emendare i propri atti, essenzialmente in base all’esame degli stessi in confronto tra loro ed in forza di quanto emerso dall’interrogatorio libero (art. 420, 1º comma, ult. parte, c.p.c.),
– potrà ritenere la causa immediatamente matura per la decisione, vuoi per una ragione di rito (p. es., giurisdizione o competenza) vuoi per un motivo di merito (domanda immediatamente decidibile allo stato degli atti, anche eventualmente per gli esiti dell’interrogatorio): in tal caso, aprirà subito la discussione e farà precisare le conclusioni (dopo di che emetterà sentenza: v. § 8), ovvero potrà concedere, su richiesta, un termine per note e rinviare a stretto giro la discussione (art. 420, 4º comma ed art. 429, 2º comma, c.p.c.),
– potrà ritenere che la causa necessiti di istruttoria e, quindi, emetterà ordinanza per ammettere e delimitare il perimetro di indagine (art. 420, 5º comma sgg.).
In tale ultima eventualità, si aprirà la sotto-fase istruttoria, tendenzialmente nella medesima udienza (5º comma), ovvero in altra udienza (6º comma), da considerarsi come prosecuzione dell’unica udienza di discussione.
Tutti i mezzi istruttori possono essere ammessi nel rito del lavoro, tra cui anche la C.T.U. disciplinata da un’apposita disposizione (art. 424, c.p.c.).
Particolarmente importante è nel rito del lavoro il potere officioso riconosciuto al giudice in ambito istruttorio e su cui v. il § che segue.
Dichiarata chiusa l’istruttoria, si aprirà la sotto-fase decisoria, secondo il meccanismo che abbiamo già tratteggiato e che sarà esaminato al § 10.
Va poi ricordato che la disciplina del mutamento del rito, oggetto di due disposizioni del processo del lavoro[46], trova una peculiare disciplina nell’art. 4, d.lgs. n. 150.
Infine, va precisato che contumacia (artt. 290 ss., c.p.c.), sospensione (artt. 295 ss.), interruzione (artt. 299 ss.), estinzione del processo (artt. 306 ss.) sono configurabili anche nel rito del lavoro.
- L’art. 421, c.p.c.
Una delle norme piú caratterizzanti del processo del lavoro è stata, fin dalla riforma del 1973, quella contenuta nell’art. 421, c.p.c..
La stessa presenta varie disposizioni volte a conferire al giudice penetranti poteri istruttori officiosi: dalla possibilità di indicare alle parti le irregolarità degli atti, assegnando loro un termine per la sanatoria (1º comma), dalla facoltà di ordinare la comparizione, per la libera audizione, anche di soggetti che, a’ termini delle disposizioni del rito civile ordinario (oggi solo art. 246, c.p.c.)[47], non sarebbero capaci di testimoniare (ult. comma) fin, soprattutto, al potere di «… disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di mezzo ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile…» (2º comma), col limite del giuramento decisorio[48].
Quest’ultima disposizione è sempre stata considerata la piú importante e caratterizzante, in quanto finalizzata a consentire al giudice del lavoro la ricerca della c.d. verità reale al di là dell’andamento del giuoco processuale delle parti.
D’altro lato, è stato sempre ritenuto che il processo del lavoro rimanga un processo dispositivo, caratterizzato dall’onere delle allegazioni e della prova in capo alle parti, sicché il dibattito si è incentrato sull’individuazione dei casi e dei limiti (ancorché non scritti) dell’intervento officioso del giudice.
Per l’opinione che merita piú attenta considerazione[49], il giudice dovrebbe intervenire solo qualora l’istruttoria faccia emergere profili di fatto che, dagli atti, non si rivelavano (e che, quindi, non erano entrati nelle allegazioni o nelle richieste probatorie delle parti), ma che, nel corso del giudizio, appaiono meritevoli di approfondimento: p. es., quando, applicando meccanicamente il principio dell’onere della prova, la causa potrebbe prendere una certa direzione ma sono emerse delle circostanze che lasciano intuire una possibile differente verità[50].
Pertanto, il giudice non dovrebbe far uso dei poteri officiosi per venire in soccorso della parte che, negligentemente, sia incorsa in decadenze, preclusioni, mancanza di allegazioni o produzioni documentali[51].
Va anche detto che il giudice non può porre a fondamento del decidere fatti nuovi che non ha preventivamente sottoposto all’attenzione delle parti (sia in una logica di riconoscimento del diritto che di individuazione di un elemento impedito delle relativa fattispecie costitutiva)[52], il che è cosa diversa dal potere, sempre riconosciuto al giudice, di liberamente apprezzare e qualificare i fatti sottoposti alla sua cognizione.
Pertanto, qualora il giudice intenda far uso dei poteri officiosi, dovrà comunque portare all’attenzione delle parti tale sua iniziativa per consentire alle stesse l’esercizio del contraddittorio tra loro e nei confronti dell’Ufficio.
Va altresí sottolineato che, tendenzialmente, sussiste il dovere del giudice, nei modi e termini correttamente evidenziati, di dar corso ai suoi poteri officiosi; e, certamente, egli dovrà motivare qualora una delle parti lo solleciti in tal senso ed egli ritenga, invece, di non attivarli[53].
Quanto appena detto serve a tratteggiare compiutamente il carattere del processo del lavoro; peraltro, l’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011, stabilisce che «i poteri istruttori previsti dall’articolo 421, secondo comma, del codice di procedura civile non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile».
- La decisione della causa in primo grado
La fase decisoria – ex art. 429, c.p.c. – si apre subito dopo il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione, se il giudice ritiene che il processo possa essere deciso allo stato degli atti; altrimenti, si apre nella stessa udienza appena chiusa l’istruttoria.
Nella prassi, si è diffusa la tendenza, soprattutto quando la causa o l’istruttoria presentano particolare complessità, a rinviare la discussione ad una successiva udienza, che, tuttavia, va considerata come prosecuzione dell’udienza di discussione di cui all’art. 420, c.p.c..
La discussione tendenzialmente, nello spirito del processo, è «orale» (art. 429, 1º comma, c.p.c.), ma il giudice può accedere alle richieste delle parti e concedere un rinvio per depositare note difensive (art. 429, 2º comma); la richiesta, formalmente, deve avvenire ad opera «delle parti» e, quindi, non dovrebbe essere accolta se vi è l’opposizione di una delle due; in ogni caso, essa deve essere vagliata dal giudice, che potrà rigettarla qualora ritenga che non vi sia la necessità di differire la discussione ed appesantirla con note.
Nell’originaria formulazione dell’art. 429, c.p.c., il processo si definisce, immediatamente dopo la discussione, mediante lettura del dispositivo in udienza; non è dunque prevista una scissione tra precisazione delle conclusioni (che vengono formulate anche in questo rito) e momento decisorio: quest’ultimo segue alla prima ed è anch’esso necessariamente orale. Il giudice non può quindi riservarsi la decisione o trattenere la causa a sentenza e definirla in separata sede.
La stesura della motivazione avviene invece successivamente, nel termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo e la motivazione viene quindi depositata in Cancelleria (art. 430, c.p.c.): la sentenza si compone dunque di dispositivo e di motivazione e la seconda non può contrastare con il primo, sotto pena di nullità della sentenza medesima.
Tralasciando altri profili che qui non rilevano, va invece ricordato che, con la riforma del 2008[54], l’art. 429, 1º comma, c.p.c., è stato riformulato: si prevede, ora, come regola generale, la decisione della causa mediante lettura di una concisa motivazione e del dispositivo, entrambi stesi immediatamente dal giudice dopo la discussione delle parti (nuovo art. 429, 1º comma, 1ª parte, ult. alinea).
Nei casi di particolare complessità, il giudice può definire il giudizio con la sola lettura del dispositivo, riservandosi la motivazione in un termine non superiore a sessanta giorni (nuovo art. 429, 1º comma, 2ª parte).
La nuova formulazione dell’art. 429, 1º comma, c.p.c., non è stata ben coordinata con le norme previgenti, poiché l’art. 430, c.p.c. (visto supra), è rimasto invariato; secondo un’opzione ermeneutica non del tutto aderente alla lettera delle norme ma che cerca di armonizzarle, può dirsi che, oggi, la regola è la motivazione contestuale al dispositivo; nei casi piú complessi, il giudice può riservarsi la motivazione nei successivi sessanta giorni, ma, se non indica un termine per il deposito, questo rimane quello originario di quindici giorni.
Con la riforma del 2009, sembra ormai inapplicabile nel nostro rito l’art. 281 sexies, c.p.c. (introdotto con il d.lgs. n. 51 del 1998), che, per la prima volta, prevedeva la possibilità, nel rito civile, di definire il giudizio mediante contestuale lettura del dispositivo e di una concisa motivazione; la sua applicazione si era diffusa, nel corso del tempo, anche nel processo del lavoro.
Come tutte le sentenze civili (art. 282, c.p.c., come modificato dalla L. n. 353 del 1990), anche quella di lavoro è provvisoriamente esecutiva, cadendo oggi una delle altre peculiarità che, nel 1973, caratterizzarono questo rito (v. art. 431, 1º comma, c.p.c.)[55].
- Le impugnazioni (cenni)
Il processo del lavoro ha una sua disciplina specifica anche per il grado di appello, contenuta negli artt. 433-447, c.p.c..
Non appare necessario trattarne, giacché i tratti salienti del rito emergono compiutamente dal procedimento di primo grado; il processo di appello si conforma ai medesimi.
Il ricorso per cassazione rimane disciplinato dagli artt. 360 sgg., c.p.c. e ad essi si rinvia.
[1] Questo contributo riprende e sviluppa un precedente scritto dell’A., elaborato per il Convegno di Polizia locale tenutosi alla Spezia nel marzo 2012.
[2] Introdotto dall’art. 98, comma 1, d.lgs. n. 507 del 1999.
[3] Cass. , ord., 24 marzo 2015, n. 5828.
[4] Cass. 13 luglio 1990, n. 7261.
[5] Già cosí Cass. 17 febbraio 1983, n. 1217.
[6] C. cost. 5 dicembre 1990, n. 534 ed Id. 18 dicembre 1995, n. 507.
[7] L’ultimo comma dell’art. 23, che prevedeva l’inappellabilità della decisione, è stato abrogato dall’art. 26, comma 1, d.lgs. n. 40 del 2006.
[8] Abolite dall’art. 116, comma 12, L. n. 388 del 2000..
[9] Cass. 27 giu. 1988, n. 4348.
[10] «Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie», pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» 13 settembre 1973, n. 237.
[11] Ricordiamo, per tutti, il classico lavoro di G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 3ª ed., Milano, 1987.
[12] Ed, in particolare, quello per i procedimenti davanti al Tribunale, contenuto nel Titolo I, che prenderemo d’ora in poi, salva diversa avvertenza, a termine di paragone.
[13] Si v. anche la L. n. 203 del 1982, sui contratti agrari.
[14] In controtendenza, v. la scelta di prevedere un nuovo rito speciale per le impugnative dei licenziamenti assoggettati all’art. 18, L. n. 300 del 1970 (v. art. 1, commi 47 ss., L. n. 92 del 2012). Questo rito non è però stato esteso alle impugnative dei licenziamenti irrogati nel regime del c.d. Jobs Act (v. art. 11, d.lgs. n. 23 del 2015).
Oppure cfr. lo speciale procedimento per conseguire le prestazioni di invalidità civile, di cui al nuovo art. 445 bis, c.p.c. (introdotto dal d.l. n. 98 del 2011, conv., con modd., nella L. n. 111 del 2011).
[15] Si tratta degli artt. 410-412, c.p.c., modificati piú volte in un senso (ex d.lgs. n. 80 del 1998) e nell’altro (ex L. n. 183 del 2010, c.d. “collegato lavoro”).
[16] V. oltre § 10.
[17] Una delle innovazioni principali, che, però, non ha inciso sul rito, è stata la soppressione dell’Ufficio del Pretore (cui funzionalmente competevano gli affari di lavoro e previdenza ex art. 413, 1º comma, c.p.c.) in favore del giudice unico di Tribunale (v. il d.lgs. n. 51 del 1998).
[18] Non quelle previdenziali e pensionistiche, rimaste invece al giudice contabile.
[19] «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69», pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 21 settembre 2011, n. 220.
[20] Cass., ord., 4 aprile 2017, n. 8754.
[21] Cass., ord., 28 marzo 2014, n. 7397.
[22] L’art. 22, L. n. 689 del 1981, che non prevedeva l’inoltro del ricorso a mezzo del servizio postale, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nel 2004 (v. C. cost. 18 marzo 2004, n. 98).
[23] Per gli approfondimenti di questi profili nel processo del lavoro, v. infra, §§ 6-7.
[24] Già riportate supra, § 1.
[25] Su cui v. supra, § 3.
[26] Cass. 10 agosto 1978, n. 3895, 23 novembre 1979, n. 6128, Id. 15 gennaio 1986, n. 196, Id. 15 luglio 1987, n. 6195, Id. 11 giugno 1990, n. 5648, Id. 25 giugno 2008, n. 17300 ed altre.
[27] Dopo Corte cost. 26 novembre 2002, n. 477, Id. 18 marzo 2004, n. 98 . V. anche Cass. 31 marzo 2011, n. 7351.
[28] V. Cass., ord., 13 giugno 2011, n. 12932, la quale, in materia di opposizioni ad ordinanza-ingiunzione, ha affermato che «… <a> seguito della sentenza n. 98 del 2004 della Corte costituzionale, l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione di cui all’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, può essere proposta anche tramite il servizio postale; in tal caso, l’opposizione notificata a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno deve considerarsi tempestiva – alla luce dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4 della legge 20 novembre 1982, n. 890 – qualora la consegna del plico da parte del notificante all’agente postale sia intervenuta nel termine di cui al primo comma del citato art. 22, rimanendo irrilevante che il medesimo pervenga alla cancelleria del giudice adito successivamente alla scadenza del termine stesso».
[29] Cass. 15 gennaio 1986, n. 196, cit., Id. 15 luglio 1987, n. 6195, cit., Id. 22 dicembre 1988, n. 7007, Id. 22 aprile 1995, n. 4555, Id. 8 ottobre 2007, n. 21017, Id. 25 giugno 2008, n. 17300, cit. ed altre.
[30] A favore della produzione documentale anche successivamente al deposito degli atti introduttivi e, comunque, in sede di appello, v., p. es., Cass. 5 agosto 2000, n. 10335; contraria, sempre ex plurimis, Id. 20 gennaio 2003, n. 775.
[31] V. Cass., s.u., 20 aprile 2005, n. 8202, in «Lav. giur.», 2005, 641; conformi, ex multis, le successive Cass. 25 novembre 2005, n. 24900, Id. 14 marzo 2006, n. 5465, Id. 21 giugno 2007, n. 14486, Id. 10 luglio 2008, n. 18884, Id. 2 febbraio 2009, n. 2577.
[32] Cass. 9 maggio 1990, n. 3816.
[33] Principio consolidato: ex multis, v., nel tempo, Cass. 10 novembre 1981, n. 5964, Id. 16 dicembre 1983, n. 7443, Id. 15 maggio 1989, n. 2328, Id. 2 giugno 1993, n. 6140, Id. 26 aprile 1998, n. 4296, 16 maggio 2002, n. 7137.
[34] Cass. 1º marzo 2000, n. 2557, Id. 7 marzo 2000, n. 2572, Id. 7 febbraio 2001, n. 1738.
[35] In, tra l’altro, «Foro it.» 2005, I., 1135.
[36] Cosí, tra le altre, Cass. 23 dicembre 2004, n. 23929, Id. 17 marzo 2005, n. 5879, Id. 16 gennaio 2007, n. 820.
[37] V., p. es., Cass. 27 maggio 2008, n. 13825, Id. 23 agosto 2011, n. 17495.
[38] Nelle opposizioni avverso i verbali della circolazione stradale, a questo incombente provvede invece la Cancelleria, secondo quanto avveniva nel vigore degli artt. 22 sgg., L. n. 689 del 1981 (art. 7, comma 7, d.lgs. n. 150 del 2011).
[39] Cui ha posto fine C. cost., ord. 24 febbraio 2010, n. 60.
[40] V § precedente.
[41] Art. 419, c.p.c., poi modificato da Corte cost. 29 giugno 1983, n. 193.
[42] Cass. 16 novembre 2007, n. 23815, Id. 17 maggio 2005, n. 10335, Id. 21 luglio 2001, n. 9965, Id. 12 agosto 1996, n. 8652 ed altre; cosí già Cass., s.u., 4 dicembre 1991, n. 13025, in, tra l’altro, «Not. giur. lav.», 1992, 433. Isolata la contraria Cassazione 1º agosto 2007, n. 16955.
[43] Su cui si è detto supra, § 6.
[44] Tale potere può essere esercitato «in ogni momento», ma di regola è attivato all’inizio dell’udienza di discussione, quando, nel contraddittorio, si verificano regolarità (p. es., presenza di una prescritta autorizzazione per la costituzione in giudizio) e validità degli atti introduttivi.
[45] Tale profilo si collega strettamente a quello dell’esercizio dei poteri istruttori officiosi, di cui si dirà nel § seguente.
[46] Artt. 426-427, c.p.c., non applicabili nel contenzioso stradale ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2011.
[47] Dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 247, c.p.c., operata da Corte cost. 23 luglio 1974, n. 248.
[48] Tralasciando il 3º comma, che non rileva ai nostri fini.
[49] Cosí, p. es., Cass. 15 luglio 2015, n. 14820, Id. 29 luglio 2011, n. 16781, Id. 16 luglio 2009, n. 16337. Si tratta di opinione non unanimemente condivisa: contra, p. es., Cass., s.u., 17 giugno 2004, n. 11353, cit., Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305.
[50] Circostanze che le parti potrebbero non aver adeguatamente valorizzato nelle loro allegazioni o che non apparivano nei loro esatti contorni nella fase iniziale del giudizio.
[51] P. es., quando i fatti erano chiari e noti fin dal principio e la parte, negligentemente, non li ha allegati a sostegno del proprio diritto od a fondamento delle proprie eccezioni e difese, o non ha prodotto documenti decisivi che aveva nella sua piena disponibilità fin dal principio, ecc..
[52] C.d. giudice della terza via, oggi ritenuto non ammesso per effetto del nuovo art. 101, 2º comma, c.p.c. (ex L. n. 69 del 2009); in giurisprudenza, tra le altre e con opinioni non sempre concordanti, v., p. es., Cass. 4 luglio 2018, n. 17473, Id. 23 maggio 2014, n. 11453.
[53] V., per tutte, Cass. 25 maggio 2010, n. 12717.
[54] D.l. n. 112 del 2008, conv., con modd., nella L. n. 133 del 2008, in vigore dal 25 giugno 2008.
[55] Nel 1973, infatti, le sentenze civili di primo grado non erano provvisoriamente esecutive.
Dott. Giampiero Panico
(Magistrato del Tribunale della Spezia)