Cass. pen., sez. V, 05 gennaio 2022, n. 156


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA Gastone – Presidente –

Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere –

Dott. REYNAUD Gianni Filippo – Consigliere –

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.C., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 11/01/2021 della Corte di appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Antonella Di Stasi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Fimiani Pasquale, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

udito per l’imputato l’avv. Massimo Di Marco, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e riportandosi ai motivi.

Svolgimento del processo 

  1. Con sentenza del 11/01/2021, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza emessa in data 21/03/2019 dal Tribunale di Como, che aveva dichiarato L.C. responsabile dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 a lui ascritti ai capi D) e G) dell’imputazione – perchè quale professionista e depositario delle scritture contabili delle società “M. T. s.r.l.” e G.A. I. B. s.r.l., consapevole dell’attività illecita posta in essere dalle stesse società e dagli amministratori, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in concorso con P.M. e A.G., consentiva di indicare nelle dichiarazioni annuali relative a dette imposte (anni (OMISSIS) con riferimento alla prima società e anni (OMISSIS) con riferimento alla seconda società) numerosi elementi passivi fittizi avvalendosi di documenti relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti per l’importo complessivo di Euro 4.360.536,27 per la prima società e di Euro 5.915.251,12 per la seconda società – e lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione.
  2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione L.C., a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali.

Argomenta che la Corte di appello aveva confermato l’affermazione di penale responsabilità del L. limitandosi ad eseguire un rinvio per relationem alla sentenza di primo grado ed a fornire indicazioni assertive ed apodittiche, prive di concrete risposte ai plurimi motivi di appello; le argomentazioni dei Giudici di appello erano, pertanto, apparenti ed integravano il vizio di omessa motivazione; apparente era anche la valutazione di rilevanza delle dichiarazioni dei testi G. e D.S.; la Corte territoriale, poi, non aveva fatto alcun riferimento all’importante deposizione del consulente Dott. T.M. e data una lettura distorta alle dichiarazioni rese dall’imputato.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 e vizio di motivazione con riferimento all’elemento oggettivo del reato.

Argomenta che il ricorrente non aveva partecipato alla creazione del meccanismo fraudolento posto in essere dai coimputati P. e A. ma di esserne vittima; la sentenza impugnata aveva confermato la sussistenza dei reati contestati valutando in maniera contraddittoria le risultanze istruttorie e basandosi essenzialmente sulla qualifica di commercialista dell’imputato; numerose erano le circostanze emerse che comprovavano che il ricorrente non era consapevole della frode nè dei propositi illeciti dell’organizzazione; il ricorrente, inoltre, controllava la regolarità delle fatture e non poteva avvedersi che esse erano relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto non aveva mai visionato i documenti accompagnatori nè aveva un obbligo in merito; ribadisce che il solo fatto di essere stato il commercialista di due società che avevano commesso illeciti non poteva comportare l’automatica condanna in concorso per i reati contestati; le sentenze di primo e di secondo grado, infine riportavano gravi errori e gravi contraddizioni che erano state fuorvianti nella ricostruzione dei fatti.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. e vizio di motivazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato.

Argomenta che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte il professionista risponde a titolo di dolo eventuale dell’illecito tributario commesso dal cliente solo se conosce le gravi anomalie contabili del cliente; il ricorrente non aveva mai dubitato della genuinità della documentazione prodotta dai clienti e poteva essere tacciato di negligenza e superficialità nel controllo ma tanto non poteva integrare il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva; le dichiarazioni rese dai testi D.S. e G. dimostravano che il ricorrente era all’oscuro di un siffatto rischio; anche le dichiarazioni rese dall’imputato in sede di esame, lungi dall’avere contenuto confessorio, evidenziavano l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

  1. La difesa del ricorrente ha chiesto, a norma del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, conv. in L. n. 176 del 2020, la trattazione orale del ricorso.

Motivi della decisione

  1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, secondo le argomentazioni che seguono.

Va ricordato che, in caso di “doppia conforme” affermazione di responsabilità, come nella specie, è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.

E’, infatti, giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico – giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595; Sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, Rv. 256096, non massimata sul punto; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4.2012, Valerio, Rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall’appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure.

Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso) debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107, Sez 3, n. 7406 del 15/01/2015, dep. 19/02/2015, Rv.262423).La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'”ossatura” dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Delvai, Rv. 223061).

Nella specie, la Corte di Appello non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha fornito compiuta risposta ai motivi di appello, come specificamente enunciati nella parte espositiva della sentenza di appello (cfr pag. 5,6,7,8,9,10,11,12 della sentenza impugnata).

La doglianza proposta si appalesa, di contro, del tutto generica, in quanto meramente contestativa e priva di specifica esposizione delle questioni che sarebbero state sollevate con il gravame ed alle quali i Giudici di appello non avrebbero fornito riscontro argomentativo.

Il ricorrente, infatti, si limita a lamentare il mancato esame delle censure contenute nel proprio gravame senza esporre in concreto il contenuto delle questioni che non sarebbero state esaminate dalla Corte territoriale, se non con il richiamo numerico ad alcune delle pagine dell’atto di appello.

Va ricordato che in tema di ricorso per cassazione, i relativi motivi non possono limitarsi al semplice richiamo “per relationem” ai motivi di appello, allo scopo di dedurre, con riferimento ad essi, la mancanza di motivazione della sentenza che si intende impugnare. Requisito, infatti, dei motivi di impugnazione è la loro specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame. Conseguentemente, la mancanza di tali requisiti rende l’atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre effetti diversi dalla dichiarazione di inammissibilità (Sez. 5, n. 2896 del 09/12/1998, dep. 03/03/1999, Rv. 212610; Sez. 2, n. 27044 del 29/05/2003, Rv. 225168; Sez. 6, n. 21858 del 19/12/2006, dep.05/06/2007, Rv.236689; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 25/02/2014, Rv. 258962).

Del pari inammissibili sono le restanti doglianze; in particolare, la contestazione relativa alla valutazione del materiale probatorio non solo risulta genericamente formulata ma si connota quale inammissibile censura di merito volta a richiedere sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze istruttorie.

  1. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, entrambi relativi alla sussistenza del reato contestato, sono infondati.

Va osservato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il commercialista di una società può concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale.

Risulta pacifica la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente, in generale, nei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni: si è affermato che il commercialista può concorrere, ex art. 110 c.p., nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l’emittente di queste ultime (Sez. 3, n. 28341 del 01/06/2001, Rv. 219679-01); lo stesso principio, inoltre, è stato affermato in relazione al reato di indebita compensazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017, dep. 2018, Rv. 272713-01) ed in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ove il commercialista è stato ritenuto concorrere con il legale rappresentante dell’ente (cfr Sez 3 n. 28158 del 29.03.2019, Caldarelli e altri, non massimata; Sez. 3, n. 7384 del 27/02/2018, dep. 2019, Di Carlo ed altri; Sez.3 n. 19335 del 11/02/ 2015, Magistroni, non massimata; Sez. 3, n. 39873 del 16/04/2013, Proserpi, non massimata).

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale; il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato poichè in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Sez. 6, n. 36818 del 22/05/2012, Rv. 253347; Sez. 4, n. 4383 del 10/12/2013, dep. 30/01/2014, Rv. 258185; Sez. 4, n. 24895 del 22/05/2007, Rv. 236853; Sez. 1, n. 5631 del 17/01/2008, Rv. 238648).

La concezione unitaria del concorso di più persone nel reato, recepita nell’art. 110 c.p., consente di ritenere che l’attività costitutiva della partecipazione può essere rappresentata da qualsiasi contributo, di carattere materiale o psichico, del quale deve essere, nondimeno, fornita idonea prova, anche in via logica o indiziaria, mediante elementi dotati di sicura attitudine rappresentativa che involgano sia il rapporto di causalità materiale tra condotta e evento che il sostrato psicologico dell’azione (cfr. in tema di concorso materiale, Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01, nonché, per in tema di concorso morale, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101-01, e Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01).

Con riguardo al profilo della colpevolezza, va rimarcato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Rv. 264395-01).

Ciò posto, la Corte di appello, nel ritenere la responsabilità concorsuale del L. nel reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 ha fatto buon governo dei suesposti principi diritti, con motivazione congrua e non manifestamente illogica o contraddittoria, contrastata genericamente dal ricorrente, con la sostanziale riproposizione delle medesime questioni di merito relativamente alla valutazione degli apporti dichiarativi valorizzati in sentenza.

I Giudici di appello hanno evidenziato che il ricorrente, nella sua qualità di commercialista, aveva tenuto la contabilità delle società di cui all’imputazione, curandone la registrazione delle fatture ed effettuando le dichiarazioni dei redditi; in particolare, le risultanze documentali, confermate dall’imputato in sede di esame, comprovavano che, nel periodo temporale considerato in imputazione, tutte le dichiarazioni fiscali delle società M. T. e G.A. I. B., erano state predisposte dal L. e firmate con il suo codice fiscale e che lo stesso aveva depositato i bilanci delle predette società con la sua smart. card.

Hanno, poi, rimarcato che: il ricorrente era a conoscenza di varie anomalie concernenti la contabilità delle società, quali la presenza di numerose autofatture (con identità di nome tra cedente ed acquirente) per importi rilevanti e prelievi di somme in contanti dell’importo oscillante tra 10.000,00 e 30.000,00 Euro al giorno; tali anomalie gli erano state più volte segnalate dalla sua dipendente D.S., che, sotto le direttive del medesimo, curava la registrazione delle fatture; il L., pur rilevando tali anomalie ed essendo consapevole della necessità della presentazione delle autofatture all’Agenzia delle Entrate e della segnalazione alla Guardia di Finanza per i prelievi in contanti, non si attivava in tal senso, ma proseguiva nell’assistenza fiscale delle società per il timore di perdere clienti (come dallo stesso dichiarato in sede di esame), così contribuendo all’attuazione del meccanismo fraudolento che aveva consentito all’amministratore delle società di avvalersi di documentazione fittizia.

La Corte territoriale, poi, osservava, quanto al profilo soggettivo della condotta partecipativa, che plurimi elementi fattuali comprovavano la sussistenza del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione potesse comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva; in particolare, risultava rilevante sia il numero complessivo delle fatture, sia l’importo delle stesse, sia la non occasionalità dei fatti; inoltre, la circostanza delle eccessive movimentazioni di contanti effettuate costituiva un forte segnale di allarme per comprendere la natura di cartiere delle due società di cui curava la contabilità da più anni.

In definitiva, i Giudici di merito hanno correttamente rilevato, sotto il profilo materiale, che il contributo causale del ricorrente alla commissione dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 andava individuato nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un’ulteriore forma di contributo partecipativo, rilevante se non altro come rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è stata correttamente individuata nella omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità delle società e nella prosecuzione dell’attività di assistenza fiscale. Con riferimento al profilo soggettivo, poi, la Corte di appello ha valorizzato una pluralità di elementi indiziari pienamente convergenti, desumibili da differenti fonti di prova che, complessivamente valutati, hanno evidenziato la sussistenza del dolo, quanto meno eventuale.

Ne consegue, pertanto, l’infondatezza delle doglianze.

  1. Il ricorso va, dunque, rigettato e, a norma dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022


COMMENTO: La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza del 5 gennaio 2022, n. 156 dichiara responsabile – ai sensi dell’articolo 110 c.p. – per il suo operato anche il commercialista di una società, colpevole di illeciti fiscali, qualora non abbia controllato la veridicità delle fatture. La questione riguarda un noto commercialista dichiarato responsabile del reato previsto e punito dall’art. 2 del D. Lgs. N. 74 del 2000 perché, nella sua veste professionale di dottore commercialista, era perfettamente al corrente della condotta illecita posta in essere dagli amministratori delle aziende sue clienti. A tal riguardo, occorre ricordare che secondo una consolidata giurisprudenza, il commercialista di una società può concorrere – a titolo di dolo eventuale – nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti (ex multis Cassazione penale, 27 febbraio 2018, n. 7384). 

Il contributo dell’agente concorrente, infatti, si può concretizzare in diversi modi: il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando si attui come un contributo facilitatore, incidendo sulla buona riuscita dell’illecito tributario. Risulta pertanto idonea quella condotta di partecipazione che si manifesti in un comportamento esteriore tale da offrire un contributo apprezzabile per la commissione del reato mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera di altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta tesa a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità di commettere il reato poiché in forza del rapporto associativo, diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Cassazione penale, 22 maggio 2012, n. 36818). Per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato si deve ricordare che, in base a consolidata giurisprudenza, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto de quo è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (Cass. pen., Sez. III, 19 giugno 2018, n. 52411). 

Gli Ermellini, pertanto, hanno correttamente valutato come il dottore commercialista non potesse ignorare le diverse “anomalie” nella contabilità delle società sue clienti, come la presenza di autofatture e prelievi di somme, che pure erano state poste alla sua attenzione. Il professionista-ricorrente, nonostante la piena consapevolezza dell’obbligo di presentare le autofatture all’Agenzia delle Entrate e la relativa segnalazione alla Guardia di Finanza per i prelievi in contanti, rimaneva inerte, continuando a svolgere la sua illecita attività fiscale al solo fine di assicurare la fidelizzazione del cliente.

Francesco Paolo Ledda

Avvocato Pisa