Cass. civ., sez. V, ord., 29 gennaio 2024 n. 2604
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO:
sul ricorso n. 25122/2015 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12. – ricorrente –
contro
XXXX, Società Intercomunale, nella persona del legale rappresentante pro tempore; – intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 4846/65/014, depositata in data 18 settembre 2014, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 5 dicembre 2023 dal Consigliere Omissis;
RITENUTO CHE
- La Commissione tributaria provinciale di Mantova, con sentenza n. 43 del 24 febbraio 2010, aveva rigettato il ricorso proposto dalla società SIEM, Società Intercomunale Ecologica Mantovana, avente ad oggetto tre atti di contestazione relativi agli anni 2005, 2006 e 2007, relativi all’omessa regolarizzazione di fatture di acquisto emesse dalla società Lomellina Energia s.r.l. per prestazioni di smaltimento di combustibile da rifiuti «CDR», con applicazione di aliquota Iva agevolata del 10%, anziché in misura ordinaria, considerato che tali prestazioni non rientravano nella tabella A, parte terza, punto 127 sexiesdecies, del d.P.R. n. 633 del 1972.
- La Commissione tributaria regionale, adita dalla società contribuente, ha accolto l’appello, dichiarando l’illegittimità degli avvisi di accertamento relativi agli anni 2006 e 2007 e l’estinzione del giudizio con riferimento all’avviso di accertamento per l’anno 2005 per definizione agevolata della lite, sulla base delle seguenti considerazioni:
-) la condizione per la fruizione della aliquota ridotta sulla attività di gestione dei rifiuti era che questi potessero essere qualificati come rifiuti urbani, secondo la definizione data dall’art. 7, comma 2, del decreto legislativo n. 22 del 1997, o anche rifiuti speciali ai sensi dell’art. 7, comma 3, lettera g) del decreto legislativo n. 22 del 1997;
-) l’agevolazione riguardava, dunque, anche la componente secca residuale dei rifiuti solidi urbani in impianti di termovalorizzazione;
-) non era corretta neppure la sanzione applicata dall’Ufficio in ragione dell’incertezza interpretativa della norma ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 546 del 1992, tenuto conto che nel tempo ci erano state una miriade di norme correttive e sostitutive, pseudo esplicative, decreti, risoluzioni, che avevano provocato ancora più confusione nella fattispecie di fatto identificata dai codici CER (catalogo Europeo dei Rifiuti) 19 e 20.
- L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi.
- La società SIEM, Società Intercomunale Ecologica Mantovana, non ha svolto difese.
CONSIDERATO CHE
- Il primo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 127 sexiesdecies, tabella A, del d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 184, comma 3, del decreto legislativo n. 152/2006 e degli artt. 6, comma 1 lett. d), l) e m) e 7 comma 3, lettera 1 bis, del decreto legislativo n. 22 del 1997. La Commissione Tributaria Regionale, senza peraltro motivare, dopo aver richiamato una serie di norme di legge aveva affermato, errando, che ai combustibili derivati dai rifiuti (CDR) era applicabile l’aliquota agevolala del 10%. Ed invero, per il periodo di vigenza dell’art. 7, comma 3, del decreto legislativo n. 22 del 1997 (cosiddetto «Decreto Ronchi», abrogato dall’art. 264 del decreto legislativo n. 152 del 2006″), il «CDR» era previsto all’art. 7, comma 3, lettera 1 bis, tra i rifiuti speciali e non rientrava, pertanto, nella tipologia di rifiuto indicato nella voce 127 sexdecies (che annoverava i rifiuti di cui all’art. 7, comma 3 lett. g); ma anche con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 de 2006 (che aveva trasposto la disposizione di cui all’art. 7 del decreto legislativo n. 22 del 1997 nell’art. 184 del decreto legislativo n. 152 del 2006), lo smaltimento del «CDR» restava assoggettato all’aliquota ordinaria del 20%, in quanto con l’art. 184, nella sua nuova formulazione, il «CDR» trovava esplicita collocazione, al comma 3, lett. m) (tra i rifiuti cd. «speciali»), era quindi distinto e separato dai rifiuti indicati alla lett. g) richiamata, in via indiretta dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 633 del 1972. Infatti, dal punto di vista fiscale, la norma agevolativa prendeva in considerazione, tra i rifiuti speciali, solo quelli di cui all’art. 184, terzo comma, lett. g), del decreto legislativo n. 152 del 2006 e le tipologie di rifiuti catalogate con lettere diverse, quindi, non potevano beneficiare di alcuna aliquota agevolata.
- Il secondo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 8 del decreto legislativo n. 546 del 1992, dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997 e dell’art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000. La Commissione tributaria regionale aveva erroneamente statuito sull’applicazione dell’esimente in assenza di specifica domanda formulata dalla società contribuente e la pronuncia d’ufficio violava il principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato con una palese extrapetizione.
2.1 Il secondo motivo, la cui trattazione è prioritaria, è infondato.
2.2 Deve premettersi che l’incertezza normativa oggettiva è prevista, come causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, da varie disposizioni:
-) l’art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 4, comma 1, lett. a), della legge n. 130 del 2022, che prevede che «La corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce»;
-) l’art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997, per il quale «Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento»;
-) l’art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 106 del 2005, convertito con modificazioni, dalla legge n. 156 del 2005, secondo cui «Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria».
2.3 Questa Corte ha, innanzi tutto, precisato che «In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza su portata e ambito di applicazione delle norme cui la violazione si riferisce – potere riconosciuto dall’art. 39 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (applicabile “ratione temporis”), tenuto fermo dall’art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e ribadito, con più generale portata, dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – sussiste quando la disciplina normativa da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, con un coordinamento concettualmente difficoltoso per equivocità di contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente» (Cass., 24 luglio 2013, n. 18031) e che «Sia nel vigore dell’articolo 39 bis del D.P.R. n. 636 del 1972, sia in forza dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 546 del 1992, l’incertezza interpretativa che giustifica il provvedimento con il quale il giudice tributario dichiari non applicabili le sanzioni non penali deve essere oggettiva e non soggettiva, atteso che la norma espressamente richiede si verifichino obiettive condizioni di incertezza» (Cass., 8 agosto 2005, n. 16707).
2.4 Ancora questa Corte ha affermato che «L’art. 39 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, aggiunto dallo art. 26 del d.P.R. 3 novembre 1981 n. 739 con effetto dall’1 gennaio 1982, ai sensi del quale la commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali quando la violazione sia giustificata da obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e l’ambito delle disposizioni cui si riferisce, è di immediata operatività in tutte le fasi del procedimento, e, quindi, anche in sede di rinvio, ove si debba ancora statuire sulla sussistenza della violazione stessa. La relativa applicazione, che è discrezionale solo per quanto attiene alla valutazione di dette condizioni d’incertezza, rientra nei compiti d’ufficio del giudice tributario, di modo che non esige un’istanza del contribuente, fermo restando che, se tale istanza sia stata formulata, il diniego del beneficio non può essere implicito e richiede un’espressa indagine sulle indicate condizioni» (Cass., 10 aprile 1990, nn. 2979, 2980 e 2981; Cass., 23 giugno 1993, n. 6951).
2.5 E’ stato, poi, evidenziato che «Il predetto art. 39 bis, quando prevede la declaratoria di non applicabilità delle sanzioni non penali per inosservanze spiegabili sulla scorta di obiettive incertezze normative, conferisce direttamente al giudice tributario il relativo potere, senza esigere una domanda di parte (la quale, se avanzata, ha natura di mera sollecitazione). Tale potere, in quanto assegnato alle commissioni tributarie senza delimitazioni riferibili al grado ed allo stato del processo davanti ad esse, deve ritenersi esercitabile anche nel giudizio di rinvio, sempre che nella relativa fase processuale sia pertinente la relativa problematica e non sussistano preclusioni» (Cass., 11 marzo 1995, n. 2820;
2.6 Inoltre è stato detto che «La richiesta di applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, art. 39 bis, avanzata per la prima volta in appello non è inammissibile, atteso che la richiesta di escludere l’applicabilità delle sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie, quando la violazione è giustificata da obbiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce, essendo diretta a sollecitare un potere di cui le Commissioni Tributarie possono avvalersi anche d’Ufficio, non può ritenersi domanda nuova in senso stretto (non proponibile nel giudizio di appello ex art. 345 c.p.c.). Detto potere delle Commissioni Tributarie è, peraltro, discrezionale per quanto attiene alla valutazione delle condizioni obbiettive di incertezza normativa e, pertanto, il suo esercizio (o il mancato esercizio) non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato” (Cass. n.4053/2001; n. 2820/1995; n. 9240/1990)» (Cass., 27 marzo 2006, n. 6943, in motivazione).
2.7 Ancor più di recente, questa Corte ha specificato che la natura dell’incertezza, la natura normativa del suo oggetto e la funzione dell’ordinamento giuridico e della sua normazione orientano verso una concezione dell’incertezza normativa come una situazione oggettiva, che è rilevante giuridicamente in quanto sia riferita soggettivamente ai soli Giudici (e non anche al generico contribuente o ai contribuenti che pure, per la loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata o all’Ufficio tributario, perché il titolare del potere d’imposizione tributaria deve svolgere continuamente un’attività d’interpretazione normativa, del cui risultato si deve dichiarare certo a prescindere dalle difficoltà incontrate, con la conseguenza che l’ufficio tributario non disapplicherà mai, di sua iniziativa, le sanzioni amministrative tributarie) e che l’unico soggetto che, al fine voluto dal legislatore, può ritenersi collegato giuridicamente all’incertezza normativa come situazione oggettiva è, dunque, il Giudice, perché il Giudice è il solo soggetto dell’ordinamento giuridico che, di fronte alla mancata stipulazione di qualsiasi convenzione tra i soggetti destinatari della norma, ha il potere di accertare se, prima che ci si rivolga a lui, davvero esistano le condizioni perché una convenzione non possa essere ragionevolmente stipulata e, quando il giudice si trovi in una situazione giuridica oggettiva di incertezza normativa tributaria, è circostanza che spetta allo stesso giudice di valutare, perché tale attività rientra nello svolgimento del suo fondamentale compito di creare certezza (Cass., 28 novembre 2007, n. 24670, in motivazione).
2.8 Si tratta i principi che vanno ribaditi in questa sede, non ritenendo questo Collegio di aderire al principio pure affermato da questa Corte secondo cui «la disapplicazione da parte del giudice delle sanzioni per violazioni di norme tributarie, qualora abbia accertato che le stesse sono state commesse in presenza ed in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell’interpretazione normativa, è possibile, anche in sede di legittimità, solo se domandata dal contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati». (Cass., 24 ottobre 2008, n, 25676; Cass., 12 novembre 2014, n. 24060; Cass., 14 luglio 2016, n. 14402; Cass., 26 giugno 2019, n. 17195; Cass., 3 giugno 2021, n. 15406).
2.9 Il motivo pertanto deve essere rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: «Il potere di disapplicazione delle sanzioni per violazioni di norme tributarie è esercitabile d’ufficio dal giudice tributario, qualora accerti che le stesse sono state commesse in presenza ed in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell’interpretazione normativa, e non postula una domanda di parte, la quale, se avanzata, ha natura di mera sollecitazione».
- Il primo motivo è inammissibile per carenza di interesse.
3.1 In proposito, va ricordato che «L’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito» (Cass., Sez. U., 22 novembre 2022, n. 34388) e che «l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 cod. proc. civ., va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata» (Cass., 29 maggio 2018, n. 13395; Cass., 4 aprile 2004, n. 6546; Cass., 23 maggio 2008, n. 13373).
- Per le ragioni di cui sopra, il ricorso va rigettato.
4.1 Nessuna statuizione va assunta sulle spese, non avendo la società intimata svolto difese.
4.2 Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa (ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile), disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1 bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., Sez. U., 25 novembre 2013, n. 26280; Cass., 14 marzo 2014, n. 5955).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, in data 5 dicembre 2023.
COMMENTO – L’ordinanza n. 2604 del 29 gennaio 2024 della Corte di Cassazione si inserisce in un filone giurisprudenziale che attribuisce al giudice tributario un ruolo cruciale nella disapplicazione delle sanzioni tributarie in situazioni di “obiettive condizioni di incertezza normativa”. Questa pronuncia, che rafforza e chiarisce principi già consolidati ma spesso soggetti a interpretazioni diverse, mette in luce la posizione della Cassazione in merito alla disapplicazione ex officio delle sanzioni da parte del giudice. Essa conferma, inoltre, il valore essenziale dell’incertezza normativa oggettiva come condizione di non punibilità per il contribuente, e sottolinea il ruolo esclusivo del giudice in tale valutazione.
L’incertezza normativa oggettiva costituisce un principio cardine nell’applicazione delle sanzioni tributarie, rappresentando un’esimente quando le disposizioni fiscali appaiono ambigue, contraddittorie o interpretabili in modo non unitario. La Cassazione ha ripetutamente affermato che, per essere rilevante, l’incertezza deve derivare da un’“equivocità normativa obiettiva” e non dalla mera percezione soggettiva del contribuente. La Corte, anche in questa ordinanza, chiarisce come “il titolare del potere impositivo deve svolgere un’attività di interpretazione normativa, del cui risultato deve dichiararsi certo”, e che tale certezza è proprio ciò che lo differenzia dal giudice, il quale, al contrario, può rilevare l’incertezza in quanto situazione oggettiva, a tutela del contribuente.
Questa interpretazione è sostenuta da una base normativa che si articola in più disposizioni. Tra queste, l’art. 8, c. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, l’art. 6, c. 2 del D.Lgs. n. 472/1997 e l’art. 10, c. 3 della L. n. 212/2000 (Statuto dei Diritti del Contribuente) prevedono che la sanzione non è applicabile laddove vi sia obiettiva incertezza normativa. Con riferimento a queste disposizioni, la Cassazione ha osservato: “l’incertezza normativa oggettiva, che giustifica la disapplicazione delle sanzioni, deve essere tale da essere valutata come una condizione di oggettiva confusione normativa, connotata da una pluralità di prescrizioni discordanti o ambigue, e non solo da un dubbio soggettivo del contribuente”.
L’ordinanza n. 2604/2024 affronta una controversia inerente alla corretta applicazione dell’aliquota IVA su prestazioni di smaltimento di combustibile derivato da rifiuti (CDR). Una società contribuente aveva applicato l’aliquota agevolata del 10%, mentre l’Agenzia delle Entrate contestava tale scelta, ritenendo invece applicabile l’aliquota ordinaria del 20%. La Commissione Tributaria Regionale (CTR), accogliendo il ricorso della società, aveva dichiarato non applicabili le sanzioni, giustificando la sua decisione con l’esistenza di un’incertezza normativa. La CTR aveva rilevato che “l’incertezza normativa si configurava a causa delle numerose modifiche legislative, risoluzioni e chiarimenti normativi” che avevano “generato un quadro di difficile interpretazione per gli operatori”. La Cassazione ha confermato la decisione della CTR, osservando che il giudice tributario ha il potere di disapplicare d’ufficio le sanzioni quando riconosce l’esistenza di una situazione di incertezza normativa oggettiva.
Un aspetto importante dell’ordinanza è l’affermazione che il potere di disapplicazione ex officio non richiede la sollecitazione del contribuente, poiché “il giudice è il solo soggetto dell’ordinamento giuridico cui è conferito il compito di valutare se esistano le condizioni per ritenere sussistente un’incertezza normativa che possa giustificare l’esenzione dalla sanzione”. La Cassazione ha così chiarito che l’incertezza normativa oggettiva rappresenta una condizione che legittima la disapplicazione delle sanzioni per garantire una tutela adeguata al contribuente, quando le disposizioni tributarie siano ambigue o interpretabili in modo contraddittorio.
La Cassazione ha ribadito la competenza esclusiva del giudice in questo ambito, precisando che “il titolare del potere di imposizione tributaria non può disapplicare le sanzioni sulla base di un’autonoma interpretazione normativa”, poiché l’amministrazione è tenuta a dichiarare la sua interpretazione normativa con certezza, e non può invocare un’incertezza che il contribuente potrebbe contestare in sede giudiziale. In altre parole, mentre l’amministrazione deve dichiarare con certezza la sua interpretazione normativa, solo il giudice ha il potere di valutare se l’incertezza esista e sia tale da giustificare una disapplicazione delle sanzioni.
Questa interpretazione è supportata dal principio di certezza giuridica e dal ruolo del giudice come arbitro imparziale. La Cassazione osserva che “l’ordinamento riconosce al giudice il compito esclusivo di valutare l’oggettività dell’incertezza normativa, poiché solo un giudice terzo può garantire una valutazione imparziale, non influenzata da interessi di parte”. Questo passaggio rafforza la posizione della Corte di Cassazione sulla necessità che il giudice mantenga un ruolo primario nella valutazione delle condizioni che legittimano l’esenzione sanzionatoria, essendo il soggetto imparziale preposto a tale compito.
In parallelo a questa interpretazione giurisprudenziale, il Decreto Legislativo n. 87/2024 ha introdotto una modifica rilevante all’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, aggiungendo il comma 5-ter il quale letteralmente dispone che: “Non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’amministrazione competente con i documenti di prassi riconducibili alle tipologie di cui all’articolo 10-sexies, comma 1, lettere a) e b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, provvedendo, entro i successivi sessanta giorni dalla data di pubblicazione delle stesse, alla presentazione della dichiarazione integrativa e al versamento dell’imposta dovuta, sempreché la violazione sia dipesa da obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”.
La norma in questione prevede in sostanza che il contribuente non sia punibile se si adegua alle indicazioni della prassi ufficiale entro sessanta giorni dalla pubblicazione delle stesse, presentando una dichiarazione integrativa e provvedendo a versare l’imposta dovuta.
Questa innovazione normativa si inserisce in un percorso legislativo che mira a rafforzare la compliance collaborativa, ossia una relazione più trasparente e costruttiva tra amministrazione e contribuente, fornendo a quest’ultimo una guida interpretativa chiara e precisa. La disposizione introdotta con il comma 5-ter rappresenta un ulteriore strumento di tutela per i contribuenti, che possono evitare sanzioni laddove si conformino alle indicazioni rese dall’amministrazione, purché la violazione dipenda da obiettiva incertezza normativa. Tale intervento rafforza il principio di buona fede e riduce il rischio di penalità per errori derivanti da ambiguità normative, rispondendo a un’esigenza di maggiore chiarezza interpretativa.
L’ordinanza n. 2604/2024 della Cassazione e l’introduzione del comma 5-ter all’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, ad opera del D.Lgs. n. 87/2024, delineano un quadro normativo e giurisprudenziale che rafforza il principio della certezza del diritto e valorizza il ruolo del giudice come unico interprete qualificato dell’incertezza normativa. Questo nuovo assetto normativo offre al contribuente un sistema di garanzie ampio, permettendo di fare affidamento sia sull’autorità giudiziaria per la disapplicazione ex officio delle sanzioni in caso di incertezza normativa, sia sulle prassi interpretative ufficiali dell’amministrazione, che, con determinate condizioni, consentono di evitare l’applicazione di sanzioni.
Dal punto di vista giuridico, emerge una distinzione fondamentale tra le funzioni del giudice e quelle dell’amministrazione finanziaria. Mentre quest’ultima è chiamata a formulare interpretazioni chiare e coerenti delle disposizioni tributarie per assicurare la certezza del diritto, il giudice ha il compito di garantire che le sanzioni vengano applicate in modo giusto e proporzionato, specialmente in presenza di difficoltà interpretative oggettive. L’intervento della Cassazione ha così confermato che il giudice può disapplicare le sanzioni in maniera autonoma, valutando direttamente le situazioni di ambiguità normativa e assicurando una tutela al contribuente, mentre l’amministrazione deve svolgere il ruolo di interprete chiaro e univoco della normativa applicabile.
Il D.Lgs. n. 87/2024 introduce modifiche rilevanti all’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, modificando il comma 5-bis e inserendo il nuovo comma 5-ter. La riformulazione del comma 5-bis stabilisce che, nel rispetto del principio di proporzionalità, non sono punibili le violazioni che non arrecano un pregiudizio concreto all’attività di controllo dell’amministrazione e che non influiscono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta, o sul versamento del tributo. Questa modifica risponde all’esigenza di proporzionalità sanzionatoria, escludendo dalla punibilità le irregolarità formali che non hanno impatto reale sull’obbligazione tributaria.
Il nuovo comma 5-ter, invece, stabilisce come detto in precedenza, che il contribuente non sia punibile se si adegua alle indicazioni della prassi ufficiale entro sessanta giorni dalla pubblicazione delle stesse, presentando una dichiarazione integrativa e provvedendo a versare l’imposta dovuta.
Questa norma costituisce una novità importante ma appare anche più gravosa per il contribuente rispetto al passato. Mentre l’incertezza normativa, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata, poteva in precedenza comportare l’automatica disapplicazione delle sanzioni senza specifici adempimenti, il nuovo comma 5-ter richiede ora un’azione attiva da parte del contribuente. Infatti, per beneficiare della non punibilità, il contribuente deve adeguarsi alle indicazioni dell’amministrazione e, entro sessanta giorni dalla pubblicazione delle stesse, presentare una dichiarazione integrativa e versare l’imposta dovuta. Questa innovazione potrebbe quindi comportare per il contribuente un aggravio burocratico, potenzialmente problematica soprattutto nei casi in cui l’interpretazione normativa risulti non immediatamente chiara.
Va notato che il nuovo comma 5-ter sembrerebbe non trovare applicazione nell’ambito dei tributi comunali (sul punto si veda la Nota di lettura IFEL del 2 settembre 2024), poiché l’art. 10-sexies della L. n. 212/2000, richiamato dalla norma, disciplina esclusivamente l’amministrazione finanziaria statale, limitando l’uso della prassi interpretativa al perimetro delle imposte erariali. L’amministrazione finanziaria pubblica, attraverso circolari interpretative e consulenze giuridiche, fornisce supporto ai contribuenti per l’interpretazione delle norme, ma questi strumenti non sono vincolanti per i tributi locali e per l’autonomia regolamentare dei Comuni. Il Dipartimento delle Finanze, infatti, interviene con circolari e risoluzioni ministeriali che, sebbene non obbligatorie, possono comunque generare affidamento nei contribuenti.
Questa situazione pone questioni interpretative delicate per i tributi locali, per i quali non esiste un riferimento normativo equivalente. Il Ministero delle Finanze, in più occasioni, ha chiarito che le circolari ministeriali in ambito locale non possono vincolare gli enti comunali. In particolare, la risoluzione n. 1 del 29 gennaio 2002 afferma: “attribuire a soggetti esterni il compito di imporre le proprie determinazioni agli enti locali in merito all’applicazione concreta dei loro tributi […] contrasta apertamente con i principi generali dell’autonomia impositiva riconosciuti dall’ordinamento”. Anche l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 73/E del 6 luglio 2012, ha ribadito il principio per cui la competenza in materia di tributi locali è attribuita esclusivamente all’ente impositore, poiché detiene il potere di regolamentazione e accertamento dei tributi locali.
La mancanza di un riferimento normativo univoco per i tributi comunali in materia di esenzione sanzionatoria per incertezza normativa ha portato dottrina e giurisprudenza a ipotizzare l’introduzione di specifiche normative di supporto. In tale contesto, alcune proposte auspicano l’adozione di norme regolamentari comunali che consentano ai contribuenti di fare affidamento sulla prassi ministeriale come esimente, almeno in termini di attenuazione delle sanzioni. Ad esempio, il prototipo di regolamento dello Statuto dei diritti del contribuente predisposto dall’IFEL (Fondazione per la Finanza Locale) suggerisce che “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione comunale o dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate”.
Questa impostazione offre una tutela ulteriore ai contribuenti, soprattutto laddove vi siano interpretazioni divergenti tra il Comune e il Ministero delle Finanze. Tuttavia, la soluzione regolamentare non risolve del tutto il problema, poiché le indicazioni ministeriali restano non vincolanti per i Comuni, e il rischio di conflitti interpretativi rimane. La giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato la necessità di limitare l’influenza della prassi ministeriale nell’ambito dei tributi locali, ribadendo che essa non può trovare fondamento nell’art. 52 del D.Lgs. n. 446/1997, che attribuisce al Ministero la sola facoltà di impugnare i regolamenti comunali per vizi di legittimità. L’esclusione delle circolari ministeriali dal regime di vincolatività impone quindi al legislatore la valutazione di un possibile intervento normativo che uniformi il sistema sanzionatorio anche per i tributi locali, per prevenire incertezze e garantire un’applicazione coerente delle esenzioni.
In conclusione, l’ordinanza n. 2604/2024 e il nuovo comma 5-ter delineano un sistema che mira a garantire maggiore certezza del diritto in materia fiscale e a valorizzare il ruolo del giudice nella disapplicazione delle sanzioni per incertezza normativa. Tuttavia, il D.Lgs. n. 87/2024 introduce un ulteriore onere a carico del contribuente, il quale, per beneficiare della non punibilità, deve presentare una dichiarazione integrativa entro sessanta giorni dalle indicazioni fornite dall’amministrazione. La mancata supposta inapplicabilità di questa norma ai tributi comunali e l’autonomia regolamentare dei Comuni continuano a sollevare problematiche interpretative e rischi di contenzioso. Alla luce delle posizioni espresse dalla giurisprudenza e dalle autorità fiscali, emerge la necessità di un intervento legislativo che chiarisca il ruolo della prassi ministeriale nel contesto delle imposte locali e rafforzi le garanzie per i contribuenti anche in ambito comunale, nel rispetto del principio di autonomia tributaria degli enti locali.
Dott. Francesco Foglia