Cass. civ., sez. V, ord., 19 gennaio 2025 n. 1274


Fatti di causa

La ricorrente ha chiesto la cassazione della sentenza n. 1020/02/2023, con cui la Corte di giustizia tributaria di II grado della Lombardia, rigettando l’appello, ha confermato la decisione di primo grado, con cui era stato respinto il ricorso della società avverso l’avviso d’accertamento che, relativamente all’anno d’imposta 2015, aveva ritenuto indebite le detrazioni Iva operate in relazione a fatture ricevute da varie agenzie di viaggio.

Dalla sentenza e dagli atti difensivi, e per quanto qui ancora di interesse, si evince che la controversia trova genesi nella verifica e nel relativo processo verbale di constatazione, redatto da funzionari dell’Agenzia delle entrate, con la conseguente notifica dell’atto impositivo, emesso all’esito infruttuoso del procedimento di accertamento con adesione. L’ufficio aveva contestato alla società l’indebita detrazione dell’iva applicata alla corresponsione di cd. incentivi, qualificati dalla contribuente corrispettivi di prestazioni di servizi offerti da agenzie di viaggio, che invece l’Ufficio, ai sensi dell’articolo 2, comma 3, lettera a), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ha ritenuto mere cessioni di denaro versato dalla società alle beneficiate, privo della natura di corrispettivo di presunte prestazioni ricevute, da trattare dunque, ai fini Iva, come operazioni fuori campo.

Nel ribadire la natura remunerativa degli incentivi, la contribuente ha invece rappresentato che la XXX appartiene al gruppo A., con a capo XXXX, sedente in M, operatore su scala mondiale nel settore viaggi, distributore di sistemi G., con cui i fornitori di servizi di viaggio possono pubblicare sulla piattaforma informazioni e dati su orari, disponibilità e prezzi dei servizi offerti. Ha riferito che l’attività principale del gruppo è la prestazione di servizi a favore di agenzie, compagnie aeree e altri fornitori di servizi di viaggio. La XXX Spa svolge la promozione e commercializzazione del G. del gruppo nel mercato di riferimento, con distribuzione dei software necessari alle agenzie di viaggio per accedere a detto sistema.

Nello specifico, premettendo che la capogruppo operativa XXX fungeva principalmente da ponte tra i fornitori di contenuti e servizi – ossia le compagnie aeree, le strutture alberghiere o le società di noleggio – e le agenzie di viaggio locali e globali – che per l’acquisto di biglietti e servizi tramite la piattaforma G. sostengono i costi del suo utilizzo, compito della società italiana era quello di sottoscrivere accordi di accesso alla G. con le agenzie di viaggio, oltre che fornire loro supporto tecnico, formazione e assistenza.

Nel 2015 la contribuente aveva percepito ricavi per servizi di marketing e promozione, regolarmente fatturati alla capogruppo per un totale di Euro 12.358.399,00. Per incoraggiare l’utilizzo del G., XXX aveva inoltre riconosciuto alle agenzie di viaggio un’incentivazione per ogni biglietto da esse venduto al cliente finale e ciò per il complessivo importo di Euro 33.890.604,00. Questi incentivi, nella prospettazione della ricorrente, avevano natura di corrispettivo versato dalla XXX alle agenzie a fronte dell’impegno, da queste assunto, di utilizzare la piattaforma G. per la vendita di biglietti al cliente finale. La XXX aveva pertanto detratto Euro 8.268.427,00, corrispondente all’iva esposta nelle fatture emesse dalle agenzie in ragione del “corrispettivo” (ossia dell’incentivo) percepito per la vendita di biglietti con utilizzo della piattaforma.

Per l’Amministrazione finanziaria gli incentivi erano invece da qualificarsi mere cessioni di denaro, ricomprese nell’art. 2, comma 3, lett. a) del D.P.R. n. 633 del 1972, e pertanto non imponibili ai fini Iva. Diversamente da quanto sostenuto dalla società, si trattava infatti di dazioni operate senza l’assunzione di obblighi contrattuali da parte dei percettori e conseguentemente l’ufficio aveva ritenuto non spettante la detrazione dell’iva esposta nelle fatture.

Con l’atto impositivo fu dunque contestata l’indebita detrazione di Euro 8.268.427,00 a titolo di iva e irrogate sanzioni sia per l’illegittima detrazione d’imposta, sia per la dichiarazione di imposte inferiori a quelle dovute, rispettivamente ai sensi dell’art. 6, co. 6, e dell’art. 5, co. 4, del D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 471.

Seguì il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, che con sentenza n. 4458/04/2021 rigettò il ricorso della contribuente. L’appello con cui la società instò nelle proprie ragioni fu respinto dalla Corte di giustizia tributaria di II grado della Lombardia con sentenza n. 1020/02/2023, ora al vaglio di questa Corte.

Condividendo la prospettazione erariale, il giudice regionale ha ritenuto che le erogazioni in denaro corrisposte dalla XXX Spa alle agenzie di viaggio dovessero qualificarsi come erogazioni liberali e non quali corrispettivi corrisposti a favore delle medesime agenzie per prestazioni da queste eseguite. A tal fine ha richiamato precedenti della giurisprudenza di legittimità, evidenziando come restasse indimostrata sia la diretta remunerazione dei beneficiari degli incentivi, sia la correlazione tra quanto corrisposto dalla società ai fruitori della piattaforma G. e lo svolgimento di obbligazioni di fare, previsto dall’art. 3, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972; ha negato il diritto alla detrazione dell’Iva, pure invocato dalla società, che contestava le sanzioni irrogate ai sensi dell’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 1997; ha rigettato gli ulteriori motivi subordinati articolati dalla contribuente.

La società ha censurato la sentenza, della quale ha chiesto la cassazione, affidandosi a sette motivi, ulteriormente illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. Nella memoria la società ha anche invocato, in via gradata, l’art. 2 del D.Lgs. n. 87 del 2024, con conseguente richiesta di irrogazione della sanzione amministrativa nella più contenuta misura del 70% dell’imposta oggetto di ripresa a tassazione. Ciò in applicazione del principio del favor rei, di cui all’art. 3, comma 3 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

All’esito della discussione tenutasi nella pubblica udienza dell’11 dicembre 2024, sentite le conclusioni della Procura Generale e delle parti presenti, la causa è stata discussa e decisa.

Ragioni della decisione

La società ha denunciato:

con il primo motivo l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, D.P.R. n. 633 del 1972, 1362 cod. civ. e 1363 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3 cod. proc. civ. La Corte di giustizia di II grado della Lombardia sarebbe incorsa in errore di diritto laddove, ignorando del tutto il contenuto dei contratti conclusi dalla società con le agenzie di viaggio, ha ritenuto che l’odierna ricorrente aveva erogato l’importo di Euro 33.890.604,00 quale mera “liberalità”, a fronte della pur ingente dazione di denaro, senza alcuna controprestazione da parte delle agenzie di viaggio.

Con il secondo motivo la nullità della sentenza impugnata per motivazione apparente in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. La sentenza impugnata risulterebbe comunque nulla per motivazione apparente, atteso che il riferimento all’esame degli atti ed agli elementi dedotti dalla società per dimostrare la corrispettività del servizio reso dalle agenzie di viaggio era stato generico, mancando un reale esame degli accordi contrattuali in base ai quali il c.d. “incentivo” era stato erogato alle stesse.

Con il terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 3, lett. a), 3, comma 1, e 19 del D.P.R. 633 del 1972, nonché 14, comma 1 e 24, comma 1, della Direttiva UE 2006/112, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. La pronuncia sarebbe errata nel confermare la tesi erariale, secondo cui la qualificazione dell’incentivo corrisposto alle agenzie di viaggio doveva considerarsi quale cessione di denaro esclusa da Iva, e pertanto fuori campo.

È intanto infondato il secondo motivo, che per ragioni logiche va trattato prioritariamente in quanto, ove accolto, travolgerebbe la sentenza con la sua conseguente cassazione.

Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale”, richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 01 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta l’obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento si concretizzi nell’assenza di esplicitazione del quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando sia carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su una valutazione generale e astratta (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).

Nel caso di specie, proprio nei passaggi della motivazione della sentenza d’appello riportati in ricorso si apprezza un ragionamento tutt’altro che generico, non solo perché esso si collega necessariamente alla parte della pronuncia dedicata allo “svolgimento del processo”, che a sua volta, nel riportare i fatti, richiama, a pag. 3, la concreta funzione degli incentivi, ma soprattutto perché le valutazioni contenute nella parte motiva della sentenza attingono abbondantemente la soglia del “minimo costituzionale”, spiegando con chiarezza ed esaustività le ragioni per le quali quel collegio ha ritenuto di escludere che gli incentivi costituissero la controprestazione di un rapporto sinallagmatico.

Il primo ed il terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi, vanno altrettanto disattesi.

La difesa della società censura la pronuncia, per vizio di interpretazione delle invocate norme nazionali e unionali, laddove con essa l’ingente dazione di denaro versato in favore delle agenzie di viaggio è stata qualificata come “liberalità”, e dunque come prestazione fuori campo ai fini iva, negando che l’utilizzo della piattaforma G. rappresenti la controprestazione resa dalle agenzie. La qualificazione ignorerebbe, secondo la difesa della ricorrente, tanto gli atti allegati al processo, quanto le regole interpretative degli atti e della disciplina iva, nonché le norme, in tema di operazioni fuori campo, dettate dalla Direttiva UE 2006/112.

In materia va ribadito il principio secondo cui “ai fini della assoggettabilità ad IVA di una prestazione di servizi, e del conseguente diritto alla detrazione dell’imposta assolta, l’onerosità dell’operazione è riconoscibile solo quando tra l’autore della prestazione ed il suo destinatario intercorra un rapporto giuridico di scambio di adempimenti sinallagmatici, per cui il compenso ricevuto dal primo costituisce il controvalore effettivo del servizio prestato al secondo, con la specificazione che il fatto generatore dell’IVA va identificato nella materiale esecuzione di una prestazione “individualizzabile”, tale, cioè, da costituire condizione di esigibilità del corrispettivo” (Cass., 9 giugno 2017, n. 14406, nella quale si trattava di assoggettabilità ad IVA dell’ipotesi dei cd. “premi impegnativa”, per mancanza di un legame diretto ed immediato tra prestazione e corrispettivo, conseguentemente escludendo il diritto del destinatario della prestazione alla detrazione dell’IVA, possibile solo quando l’imposta assolta sia dovuta; cfr. anche Cass., 4 agosto 2017, n. 19557; 9 marzo 2018, n. 5721; 10 novembre 2020, n. 25257; 01 aprile 2021, n. 9075).

Questa Corte, in analoghe controversie, e proprio con riguardo a censure riferibili alla carenza di prova sulla esistenza di rapporti contrattuali da cui desumere il vincolo sinallagmatico tra la dazione dei premi e la prestazione di un servizio, ha già esaminato la vicenda, risolvendola a favore dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Cass., 25 luglio 2014, n. 17024; 25 luglio 2014, n. 17021; cfr. anche 17 novembre 2015, n. 24508).

Quello che deve dunque emergere è la stipula di un accordo contrattuale sinallagmatico tra due o più soggetti giuridici, che sia caratterizzato dalla corrispettività delle prestazioni. Quando, al contrario, venga in evidenza una obbligazione di corresponsione di un “premio”, o di un “incentivo”, del quale un soggetto si fa carico al verificarsi di un certo evento futuro ed incerto, come il raggiungimento di un fatturato superiore ad un ammontare determinato, non è riconoscibile l’assunzione di un’obbligazione di facere (o comunque avente ad oggetto una prestazione di servizi) a carico del soggetto destinatario del premio, restando questo del tutto libero di attivarsi o meno per conseguirlo. La mancata realizzazione del risultato o il mancato procacciamento di clienti non integrerebbe infatti, a carico del soggetto, alcuna responsabilità da inadempimento contrattuale.

In queste ipotesi, pertanto, il premio non può essere qualificato come “corrispettivo” ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972 e va piuttosto configurato come mera cessione di denaro, non assoggettabile ad IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 633 del 1972.

D’altronde, a contrariis e quale cartina di tornasole, si è affermato che, in tema di iva, lo sconto si differenzia dal premio perché il primo è un valore incidente direttamente in diminuzione sul prezzo della merce compravenduta o del servizio scambiato, riducendone l’ammontare dovuto per le singole operazioni compiute, mentre il premio è un contributo autonomo, riconosciuto indistintamente al cliente al raggiungimento di un determinato fatturato o comunque per incentivarlo a futuri acquisti; pertanto, solo il premio e non anche lo sconto è sussumibile nella categoria della cessione gratuita di denaro, esente dall’iva ex art. 2, comma 3, lett. a, D.P.R. n. 633 del 1972, atteso che lo sconto si riferisce alla riduzione dei prezzi in concreto praticati nelle singole operazioni fatturate, mentre il premio configura ex se un’autonoma cessione avente a oggetto denaro, come tale non soggetta all’iva (Cass., 23 marzo 2023, n. 8364).

In altri termini, ciò che, in tema di Iva, è necessario è che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, l’imponibilità delle prestazioni di servizi presuppone la configurabilità di un rapporto giuridico da cui scaturiscano attribuzioni patrimoniali e la reciprocità delle stesse, in ragione della sussistenza di un nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario ed il compenso da costui ricevuto (Cass., 5721 del 2018, cit.; 9 giugno 2017, n. 14406).

Queste norme tributarie, come altrettanto correttamente rilevato, sono pienamente conformi alle disposizioni comunitarie dettate dalla VI direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17.5.1977, (e succ. mod.), che utilizza il criterio distintivo degli atti negoziali “a titolo gratuito” ed “a titolo oneroso” per individuare il presupposto impositivo dell’iva. Invero, a norma dell’art. 2, VI direttiva, “sono soggette all’imposta sul valore aggiunto: 1. le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale;

  1. Le importazioni di beni” (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24510).

Al riguardo è giurisprudenza costante che una prestazione di servizi è effettuata “a titolo oneroso”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva iva, soltanto quando tra l’autore di tale prestazione e il suo destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avviene uno scambio di prestazioni sinallagmatiche, per cui il compenso ricevuto dal primo costituisce il controvalore effettivo del servizio fornito al secondo (CGUE, 20 giugno 2013, in causa C-653/11, punto 40; 27 marzo 2014, causa C-151/13, punto 29 e giurisprudenza ivi richiamata; 16 dicembre 2010, in causa C-270/09, punto 16 e giurisprudenza ivi richiamata).

Questa nozione di prestazione di servizi si riflette nel diritto interno, giacché secondo l’art. 3 del D.P.R. n. 633 del 1972 “costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da” (sulla necessaria sinallagmaticità delle prestazioni di servizi, per la loro imponibilità ai fini dell’iva, cfr. Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5078). Pertanto, l’assoggettabilità ad iva delle prestazioni di servizi presuppone: a) la configurabilità di un rapporto giuridico da cui scaturiscano le attribuzioni patrimoniali; b) la reciprocità delle attribuzioni, data dalla sussistenza di un nesso diretto tra il servizio fornito dal destinatario ed il compenso da costui ricevuto.

Si tratta di interpretazione pressoché univoca, nazionale e unionale, che perimetra in modo chiaro il concetto di sinallagmaticità, rispetto alla quale la presente fattispecie non si discosta affatto per la sola circostanza che in molti dei precedenti l’incentivo sia stato corrisposto a fine anno e invece in questo in anticipo, emergendo di fatto le stesse identiche caratteristiche e finalità.

La motivazione della sentenza censurata, che si sviluppa lungo le linee appena illustrate, fa dunque corretta applicazione dei principi di diritto enunciati in materia.

Nel caso di specie risulta peraltro astrusa la ricostruzione dell’incentivo quale corrispettivo di (supposte) prestazioni rese dalle agenzie viaggio, e consistenti nell’utilizzo della piattaforma G. per l’acquisto di biglietti per i propri clienti finali. Se si valorizzasse una simile prospettiva, ci si troverebbe dinanzi ad una situazione ai limiti della abnormità, atteso che quella stessa operazione, se vista dal punto di vista del rapporto tra operatore del settore (l’agenzia viaggi) e la società madre spagnola A., costituirebbe operazione (la prenotazione per il cliente) per la quale il primo versa alla seconda il corrispettivo per la fruizione della piattaforma G., laddove, se vista dal punto di vista del rapporto tra l’operatore del settore (sempre l’agenzia viaggi) e la società XXX controllata dalla società spagnola, costituirebbe il servizio offerto dal primo alla seconda, e per il quale quest’ultima dovrebbe pagare un corrispettivo denominato “incentivo”. Quindi l’utilizzo del sistema G. per soddisfare il cliente finale (l’acquirente del biglietto di viaggio) per le agenzie di viaggio costituirebbe ad un tempo prestazione a loro vantaggio, offerta dalla società madre alla quale esse pagano un corrispettivo, ma anche prestazione che esse offrono alla XXX, dalla quale riceverebbero un corrispettivo, il che costituisce una contraddizione in sé.

In definitiva i motivi vanno rigettati perché infondati.

Con il quarto motivo, in via gradata è proposta la rimessione alla CGUE, ex art. 267 del TFUE, della questione di pregiudizialità unionale relativa alla corretta interpretazione degli artt. 14, co. 1 e 24, co. 1, della Direttiva UE 2006/112/UE, come attuati nel nostro ordinamento, rispettivamente, con gli artt. 2, co. 1 e 3, lett. a), e 3, co. 1, del D.P.R. n. 633/72.

Per quanto già chiarito trattasi di richiesta priva di fondamento, poiché la disciplina nazionale, così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, è pienamente compatibile con i principi unionali, dovendosi ribadire che in relazione al versamento delle cd. incentivazioni da parte della XXX in favore delle agenzie di viaggio difetta il requisito della sinallagmaticità, così che l’operazione è da collocarsi in quelle fuori campo Iva.

Con il quinto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 1997 e dell’art. 19 del D.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. La decisione sarebbe errata laddove esclude, sulla base dell’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471/1997, la legittimità della detrazione dell’IVA erroneamente applicata in fattura dalle agenzie di viaggio.

La censura intende evidenziare l’erroneità della pronuncia laddove in essa si afferma che “non è sostenibile l’invocato diritto alla detrazione dell’imposta addebitata in rivalsa dalle Agenzie di Viaggio ai sensi dell’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471/1997 perché, nel caso in esame, l’erogazione doveva essere esente da IVA a nulla rilevando l’erronea esposizione in fattura (…)”.

La ricorrente reclama che al caso di specie trovi comunque applicazione la regola prevista dalla seconda parte del comma 6 dell’art. 6 cit., secondo cui “in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario alla detrazione ai sensi degli artt. 19 e seguenti (…) l’anzidetto cessionario è punito con la sanzione amministrativa compresa tra 250 Euro e 10.000 euro”. Si tratta di sanzione diversa da quella prescritta dalla prima parte del comma 6 cit., quest’ultima pari al 90% della illegittima detrazione iva compiuta dal contribuente, ma che corrisponderebbe alla condotta in concreto posta in essere dalla società (pagamento di iva non dovuta e conseguente detrazione riportata nella dichiarazione annuale).

Il motivo va rigettato perché innanzitutto difetta di specificità e peraltro non risponde alla lettera della norma.

Infatti, intanto non è dato verificare se l’iva detratta dalla ricorrente fosse stata riportata nelle fatture e comunque fosse stata effettivamente corrisposta agli emittenti. Ma, soprattutto, la fattispecie contestata non involge il mero pagamento di iva in misura maggiore rispetto a quella dovuta, per un errore dei soggetti emittenti, bensì la diversa fattispecie dell’applicazione dell’imposta armonizzata ad operazioni fuori campo Iva.

Con il sesto motivo la società ha lamentato la violazione degli artt. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212, 8 del D.Lgs. 31 dicembre 1992. n. 546 e 6 comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ La sentenza impugnata sarebbe comunque viziata per violazione delle disposizioni relative alla c.d. esimente dell’obiettiva incertezza della normativa tributaria.

Il motivo è destituito di fondamento perché, per quanto già chiarito, la normativa non manifesta alcuna equivocità, così che la sua interpretazione non è investita da alcuna incertezza obiettiva.

Con il settimo e ultimo motivo è invocata la violazione degli artt. 8, L. n. 11 marzo 2014, 23 e 7, co. 4, del D.Lgs. n. 472 del 1997, nonché del principio, costituzionale ed unionale, di proporzionalità, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La sanzione irrogata è parametrata all’importo dell’imposta recuperata, essendo stata applicata la sanzione per indebita detrazione dell’IVA (90% dell’imposta, prevista in misura fissa ai sensi dell’art. 6, co. 6, primo periodo del D.Lgs. n. 471/1997) e quella per infedele dichiarazione IVA (90 per cento dell’imposta, ossia nel minimo tra il 90 per cento e il 180 per cento previsto dall’art. 5, co. 4, del D.Lgs. n. 471/1997), con il calcolo effettuato secondo il c.d. “cumulo giuridico”.

Il motivo va rigettato perché, secondo le norme ratione temporis vigenti la sanzione è stata applicata nella misura fissa del 90% della illegittima detrazione compiuta (art. 6, comma 6 cit.) e nel minimo previsto per la minore imposta dichiarata rispetto a quella dovuta (art. 5, comma 4, cit.).

Nella memoria la difesa della società ha tuttavia invocato l’applicazione della sanzione, meno afflittiva, prevista ed introdotta per entrambe le ipotesi dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87. A tal fine ha rappresentato che, nell’ambito degli ampi interventi di riforma del sistema tributario, che trovano genesi a partire dalla legge delega 9 agosto 2023, n. 111, è intervenuto l’art. 2, D.Lgs. n. 87 del 2024, che, tanto per l’ipotesi prevista dall’art. 5, comma 4, del D.Lgs. n. 471 del 1997, quanto per l’ipotesi prevista dall’art. 6, comma 6, del medesimo decreto legislativo, ha ridotto la sanzione al 70 per cento (rispetto a quelle più gravi, dal 90 per cento al 180 per cento in precedenza prevista per la prima infrazione -nel caso concreto determinata nel 90 per cento; e del 90 per cento, così disposta in precedenza in misura fissa, per la seconda infrazione).

Avvertendo tuttavia che l’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024 ha disposto che il regime sanzionatorio più favorevole, introdotto con i commi 2, 3 e 4 del cit. art. 2, trovi applicazione alle violazioni commesse a partire dal 1 settembre 2024, con ciò derogando al principio della retroattività della sanzione più favorevole, sancito dall’art. 3, comma 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ha al contempo denunciato l’illegittimità costituzionale della norma. Ciò sotto il profilo 1) dell’eccesso di delega rispetto ai principi e alle direttive stabilite dalla L. n. 111 del 2023; 2) della violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché degli artt. 6 e 7 CEDU e dell’art. 49 CDFUE.

Nello specifico, oltre che dell’eccesso di delega, la difesa della società si è doluta della violazione del principio di uguaglianza sostanziale dei cittadini, che in materia sanzionatoria imporrebbe il medesimo trattamento degli stessi fatti, prescindendo dalla loro commissione prima o dopo l’entrata in vigore della disciplina più favorevole. Si è doluta pertanto della violazione del principio della retroattività della lex mitior, applicabile tanto alle sanzioni penali in senso stretto, quanto a quelle amministrative aventi contenuto sostanzialmente penale. A tal fine ha invocato la disciplina e la giurisprudenza unionale. Ha quindi sostenuto che, a prescindere dalla sussistenza o meno dei presupposti per la rimessione della questione alla Corte costituzionale, comunque invocata, l’art. 5 debba essere disapplicato per contrasto con l’art. 49, par. 1, del CDFUE.

La richiesta di applicazione delle sanzioni nella misura più favorevole al contribuente, così come prevista dall’art. 2 del D.Lgs. n. 87 del 2024 non può trovare accoglimento, né le difese della società hanno allegato ragioni sufficienti ad evidenziare la non manifesta infondatezza della denuncia di illegittimità costituzionale della disciplina derogatoria.

Premesso che l’applicazione della sanzione più favorevole è preclusa da una espressa previsione normativa, ed in particolar modo all’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024, secondo cui la rivisitazione delle sanzioni amministrative in materia fiscale, complessivamente favorevole al contribuente, va applicata a partire dalle violazioni commesse dal 1 settembre 2024, così derogando al generale principio di retroattività della legge più favorevole, la scelta del legislatore non appare in contrasto con i principi costituzionali né con quelli unionali.

Questo collegio ovviamente non ignora la rilevante problematica sottesa al tema dell’applicazione della legge più favorevole per le ipotesi di rideterminazione delle sanzioni tributarie, questione di certo amplificata nel caso di specie, considerando che l’oggetto del contendere si inserisce nel quadro della ampia revisione dell’intero sistema sanzionatorio tributario, coinvolgendo in pratica l’intero impianto regolato dai D.Lgs. nn. 471 e 472 del 18 dicembre 1997.

E tuttavia, proprio questo ampio ripensamento della disciplina, come di tutto il sistema tributario, secondo la delega apprestata dal Legislatore con la L. n. 111 del 2023 – dall’art. 20 quanto alle sanzioni, con i conseguenti principi e criteri direttivi, specie, per quanto qui di interesse, quelli elencati nelle lett. a (per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali) e c, punti da 1 a 5 (per le sanzioni amministrative)- consente di “leggere” la deroga alla lex mitior disposta dal legislatore delegato in un quadro coerente con i principi costituzionali, così come con quelli unionali.

Deve intanto riaffermarsi che l’equivalenza tra sanzione amministrativa e sanzione penale costituisce una regola tendenziale ineludibile e inevitabile, che tuttavia non giunge ad una perfetta sovrapposizione dei piani. Se è vero che il principio del favor rei trova copertura costituzionale (nell’art. 25 Cost. secondo certa interpretazione, nell’art. 3 Cost. secondo più persuasiva ricostruzione), e sovranazionale nell’art. 49 CDFUE e nell’art. 7 CEDU, e che, come più volte affermato dalla giurisprudenza unionale e da quella nazionale, la sanzione amministrativa può assumere sostanza e natura penale, è altrettanto utile ricordare che la stessa natura penale delle sanzioni ha necessità d’essere perimetrata.

A tal fine, senza lunghe digressioni, punto di costante snodo in materia è sempre rappresentato dai criteri fissati dalla Corte EDU nella sentenza “Engel”, ossia la qualificazione penale dell’illecito e, in sua assenza, al fine della estensione delle garanzie previste dagli artt. 6 e 7 CEDU e 49 CDFUE a illeciti anche non qualificati formalmente come penali, lo scopo afflittivo e non riparatorio della misura, la gravità della misura, anche nella sua applicazione concreta, la rilevanza attribuita dalla disposizione alla gravità del fatto e alla colpevolezza dell’autore (Corte EDU, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others/Netherlands).

Ciò comporta che le regole di garanzia affermate dai principi unionali in tema di reato si estendano alle sanzioni amministrative, ma questo non significa che reato e pena siano perfettamente coincidenti con violazione amministrativa-tributaria e sanzione.

La riprova, in tema, è data proprio dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 472 del 1997, laddove la norma prevede che “Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”. Si tratta di una regola che, pur prevedendo una deroga al principio della sopraggiunta non punibilità di una condotta, non è stata mai posta in discussione, tanto meno nel panorama dottrinale e giurisprudenziale se ne è denunciato il contrasto con i principi della Carta dei diritti dell’Uomo o con quelli della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.

Ebbene, è pur vero che il terzo comma del medesimo articolo, che disciplina proprio l’applicazione della lex mitior, non prevede, al contrario, alcuna espressa deroga, limitandosi invece a disporre che “Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”, avendo dunque quale solo limite la definitività della sanzione applicata.

Ma, sebbene sia diffusa l’opinione che il silenzio normativo, a differenza della espressa previsione nel comma 2, escluda in radice eccezioni al principio del favor rei, non può ignorarsi che l’ipotesi trattata nel comma 2 è ben più radicale di quella disciplinata dal comma 3 (perché la prima ipotesi riguarda una fattispecie per la quale la legge successiva esclude del tutto il disvalore della condotta prima sanzionata, la seconda afferisce ad ipotesi per le quali la condotta resta invece sempre punibile, ma con una sanzione meno grave, così che il suo disvalore scema ma non scompare).

Può allora dedursi che l’esclusione assoluta della derogabilità della lex mitior incontra innanzitutto dei limiti proprio sul piano logico. Infatti, se è possibile che una sanzione continui ad essere applicata a fattispecie successivamente escluse dal regime sanzionatorio, non è dato comprendere perché ciò non possa parimenti accadere, ovviamente sempre in via di eccezione, per fattispecie ritenute con una legge successiva solo meno gravi. Ciò è quanto induce a considerare una interpretazione coerente con le fattispecie contemplate nel secondo e nel terzo comma dell’art. 3 cit., in un approccio ermeneutico che tenga conto di una lettura complessiva dei due commi, nei quali i principi della riserva di legge (comma 2) e quello della lex mitior (comma 3) non possono essere tenuti nettamente separati.

La conseguente considerazione è che le ragioni che sottendono la disciplina sanzionatoria apprestata in tema di obbligazioni tributarie, quando leggi successive escludano in radice il disvalore di una condotta, ma anche quando lo affievoliscano semplicemente, possono giustificare deroghe all’applicazione del principio del favor rei.

Queste considerazioni, a parere del collegio, hanno peraltro una chiara copertura proprio in precedenti della Corte costituzionale.

A tal fine utili riscontri si rinvengono nei principi enucleati da Corte costituzionale, sentenza 16 aprile 2021, n. 68, con la quale, in riferimento allo specifico caso della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria alla condanna per il reato di omicidio colposo per violazione delle regole sulla circolazione stradale, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 30, quarto comma, della L. 11 marzo 1953, n. 8 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale). Al giudice remittente, giudice dell’esecuzione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, cui il condannato istante si rivolgeva perché nelle more, pur con sentenza penale definitiva, era intervenuta la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 222 cit. nella parte in cui non prevedeva, in alternativa alla revoca, la diversa misura della sospensione della patente, come prevista dal secondo e dal terzo periodo del medesimo comma 2 della norma, il giudice delle leggi ha dato risposta affermativa.

Nella motivazione la Corte costituzionale, pur a fronte di suoi precedenti, nei quali la sanzione amministrativa accessoria a sentenza penale passata in giudicato era apparsa ormai intangibile (a tal fine citando Corte costituzionale 24 febbraio 2017, n. 43), è pervenuta ad opposte conclusioni. Al di là dello specifico oggetto della controversia, per quanto qui di interesse è di rilievo che nella pronuncia la Corte Costituzionale, richiamando anche altra sentenza della Corte, la n. 63 del 21 marzo 2019 -che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per gli illeciti di cui agli artt. 187-bis e 187-ter del D.Lgs. n. 58 del 1998- ha sostenuto che “la stessa Corte costituzionale ha equiparato le sanzioni amministrative di tipo afflittivo a quelle formalmente penali ai fini dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior: principio di minor forza rispetto a quello di legalità costituzionale. Nell’occasione, la Corte ha affermato che, laddove la sanzione amministrativa abbia natura punitiva, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicarla, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento: ciò, salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius”.

È proprio nell’altra pronuncia richiamata, la n. 63 del 2019, che la Corte costituzionale, dopo essersi diffusa sulla copertura costituzionale della lex mitior in materia penale, da ricercarsi non già nell’art. 25 Cost. ma nell’art. 3 Cost., ed averne perimetrato l’applicazione, esaminando il principio con riferimento alle sanzioni amministrative “punitive”, ossia sostanzialmente equiparabili alle sanzioni penali, avverte che “Se poi, ed eventualmente in che misura, il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata funditus dalla sentenza n. 193 del 2016.

In quell’occasione, questa Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia “mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale”. In difetto, pertanto, di alcun “vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”, la sentenza n. 193 del 2016 ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito “per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel”. Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior, nei limiti appena precisati (supra, punto 6.1.) – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni.

L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale” (così, C. Costituzionale, sentenza n. 63 del 2019, punto 6.2).

L’importanza della necessità di applicazione del principio della legge più favorevole, e tuttavia il riconoscimento di ipotesi per le quali può derogarsi alla lex mitior trova riscontri non solo nella nostra giurisprudenza costituzionale, ma anche nella giurisprudenza unionale.

Recente, in tema, è la pronuncia assunta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in causa C-107/2023, del 24 luglio 2023, a seguito di rinvio pregiudiziale. Il giudice rumeno aveva proposto la questione relativa alle conseguenze dell’applicazione di sentenze della Corte costituzionale di quel Paese che, nel dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni, nella parte in cui prevedevano l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante la realizzazione di “qualsiasi atto processuale”, aveva di fatto determinato l’applicazione di una forma di prescrizione senza possibilità di atti interruttivi, ciò traducendosi nella vigenza di un sistema normativo, di diritto sostanziale, più favorevole all’imputato ai fini della prescrizione. A fronte della invocazione da parte di taluni cittadini, già condannati per gravi reati fiscali, della applicazione della disciplina più favorevole, in forza della quale i reati loro ascritti sarebbero caduti in prescrizione, il giudice rumeno – al fine di verificare la possibilità di disattendere decisioni della Corte costituzionale senza incorrere in sanzioni disciplinari- si era rivolto alla CGUE, interrogandosi sulla compatibilità delle regole di prescrizione più vantaggiose, di fatto introdotte dalla Corte costituzionale rumena, con il sistema normativo apprestato dall’Unione europea al fine di assicurare che ogni Stato membro garantisca un sistema sanzionatorio effettivo e dissuasivo in caso di frode grave ai danni degli interessi finanziari dell’Unione europea (art. 2 TUE, l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e l’art. 4, (paragrafo 3), TUE, in combinato disposto con l’art. 325, paragrafo 1, TFUE, con l’art. 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF, con gli articoli 2 e 12 della direttiva TIF, nonché con la direttiva 2006/112). E cioè se “con riferimento all’articolo 49, paragrafo 1, ultima frase, della (Carta), debbano essere interpretati nel senso che ostano a una situazione giuridica, come quella oggetto del procedimento principale, in cui i ricorrenti condannati chiedono mediante un mezzo straordinario di ricorso, l’annullamento di una sentenza penale definitiva di condanna, invocando l’applicazione del principio della legge penale più favorevole”.

Ebbene, la Corte di Giustizia ha affermato che “123. In simili circostanze, tenuto conto del necessario bilanciamento tra quest’ultimo standard nazionale di tutela e le disposizioni dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF, l’applicazione, da parte di un giudice nazionale, di detto standard, per mettere in discussione l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante atti processuali intervenuti prima del 25 giugno 2018, data di pubblicazione della sentenza n. 297/2018 della Curtea Constituzionala (Corte costituzionale), deve essere considerata tale da compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, ai sensi della giurisprudenza ricordata al punto 110 della presente sentenza (v., in tal senso, sentenza del 21 dicembre 2021, Euro B.P. e a., C-357/19, C-379/19, C-547/19, C-811/19 e C-840/19, EU:C:2021:1034, punto 212). 124 Di conseguenza, si deve ritenere che i giudici nazionali non possano, nell’ambito di procedimenti giurisdizionali diretti a sanzionare penalmente reati di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, applicare lo standard nazionale di tutela relativo al principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole (lex mitior), come menzionato al punto 119 della presente sentenza, al fine di mettere in discussione l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante atti processuali intervenuti prima del 25 giugno 2018, data di pubblicazione della sentenza n. 297/2018 della Curtea Constituzionala (Corte costituzionale).

  1. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima e alla seconda questione dichiarando che l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF devono essere interpretati nel senso che gli organi giurisdizionali di uno Stato membro non sono tenuti a disapplicare le sentenze della Corte costituzionale di tale Stato membro che invalidano la disposizione legislativa nazionale recante disciplina delle cause di interruzione del termine di prescrizione in materia penale per violazione del principio di legalità dei reati e delle pene quale tutelato dal diritto nazionale, sotto il profilo dei suoi requisiti di prevedibilità e di determinatezza della legge penale, anche se tali sentenze hanno la conseguenza di condurre all’archiviazione, per prescrizione della responsabilità penale, di un numero considerevole di procedimenti penali, ivi compresi procedimenti relativi a reati di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Per contro, dette disposizioni del diritto dell’Unione devono essere interpretate nel senso che gli organi giurisdizionali di tale Stato membro sono tenuti a disapplicare uno standard nazionale di tutela relativo al principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole (lex mitior) che consente di mettere in discussione, anche nell’ambito di ricorsi contro sentenze definitive, l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale in simili procedimenti mediante atti processuali intervenuti prima di una tale constatazione di invalidità”.

Dunque, a differenza della tutela del principio di legalità, che resta assoluto e mai recessivo, quanto al rispetto della lex mitior, di cui pur ne viene ribadita l’assoluta importanza in motivazione, la Corte di Giustizia riconosce tuttavia che il medesimo principio può risultare recessivo nella comparazione con altri interessi – di pari rango e che nel caso di specie si concretizza in quello di apprestare un efficace sistema sanzionatorio idoneo al contrasto a reati di frode grave ai danni degli interessi finanziari dell’Unione europea-, con sue conseguenti deroghe.

Il principio, elaborato e sviluppato in tema di sanzioni penali, va applicato al sistema sanzionatorio amministrativo, pur quando equivalente a norma penale.

Le pronunce della giurisprudenza costituzionale e unionale, con gli ulteriori richiami giurisprudenziali in esse contenute, evidenziano allora la manifesta infondatezza della questione proposta dalla ricorrente.

Non vi sarebbe neppure ragione, visti i precedenti già richiamati, di coinvolgere la pronuncia della Corte Costituzionale, 13 gennaio 2015, n. 10, la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con modificazioni dall’art. 1, L. 6 agosto 2008, n. 133), relativa alla introdotta addizionale sull’imposta sul reddito delle società, ex art. 75 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), ha tuttavia ritenuto di limitare gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, di fatto escludendone gli effetti retroattivi in nome delle gravi conseguenze altrimenti riversabili sulla capacità di rispetto dell’equilibrio di bilancio, ex art. 81 Cost.

Il richiamo a quest’ultima pronuncia è al più utile a individuare nella preservazione delle ragioni di equilibrio finanziario una delle ipotesi in cui un diverso e contrapposto interesse di rango costituzionale assurge a ragione che può indurre il Legislatore a “sacrificare”, eccezionalmente, la lex mitior.

Ma, ciò detto, quest’ultima pronuncia si rivela non certo decisiva rispetto alle conclusioni cui questo collegio perviene, sia perché in quel caso si trattava di una “deroga” all’applicazione della lex mitior proveniente da una pronuncia costituzionale e non da una espressa previsione di legge, come nel caso ora al vaglio di questo collegio, sia perché le ragioni tutelate da quella pronuncia si rivelano peculiari, con una comparazione secca tra tributi riconosciuti incostituzionali e ragioni di equilibrio di bilancio, laddove il caso de quo afferisce al tema della sanzioni.

Resta comunque chiaro che la deroga al principio della applicazione della legge più favorevole, come agevolmente si desume dai precedenti della Corte di legittimità e dalle Corti unionali, ha il suo comune denominatore nella esigenza di comparazione con altri diritti di rango costituzionale o eurounitario, comparazione all’esito della quale la lex mitior può risultare recessiva, giustificandosene dunque la deroga.

Ebbene, per quanto qui di interesse, l’irretroattività disposta dal citato art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 8 del 2024 per le nuove sanzioni, complessivamente più favorevoli per il contribuente, si colloca in un contesto, interno ed esterno, che accompagna la rimeditazione dell’intero sistema sanzionatorio, sul piano qualitativo come quantitativo.

Al di là della pertinenza delle ragioni esposte nella relazione illustrativa di accompagnamento, in ordine alla previsione dell’art. 5, non può negarsi che di certo il file rouge che giustifica la irretroattività delle sanzioni più favorevoli è la emersione di diritti o finalità di pari o superiore livello alla garanzia sacrificata.

È sufficiente la lettura dell’art. 20 della legge delega, e degli ampi obiettivi che con essa sono stati assunti dal Legislatore, per comprendere come la riforma -poco importa se epocale o meno, ma certo di grande respiro- non si limita a rideterminare le sanzioni in senso favorevole al contribuente, ma si accompagna ad un ripensamento del ruolo stesso della sanzione, implementando un contesto di collaborazione tra Amministrazione e contribuente (art. 20, comma 1, lett. a, n. 4), e persino prevedendo forme di compensazione tra sanzioni comminate e crediti maturati nei confronti delle amministrazioni (art. 20, comma 1, lett. a, n. 2), oppure valorizzando la condotta successiva o pregressa del contribuente in uno spirito radicalmente rivoluzionato rispetto al passato, quanto meno in termini di obiettivi (art. 20, comma 1, lett. 2 e 3).

Concentrare l’attenzione, come emerge dalla difesa della ricorrente, sui soli interventi inerenti il carico delle sanzioni, previsto nell’art. 20, comma 1, lett. c, n. 2 della L. 111 del 2023 (uno dei tanti principi e criteri per la revisione del sistema sanzionatorio, ma che di per sé rappresenta solo una porzione degli interessi in gioco e del riassetto normativo), significa limitare il cono visivo sulla riforma, che non è vagliata nella sua complessa articolazione.

È invece evidente che un simile riassetto -che peraltro non risulta neppure del tutto compiuto, almeno quanto a riordino della disciplina, atteso che i vecchi decreti legislativi nn. 471 e 472, le cui norme risultano modificate dal D.Lgs. n. 87 del 2024, cesseranno di avere vigore il 01 gennaio 2026, perché abrogati dal D.Lgs. 5 novembre 2024, n. 173, art. 102, con l’introduzione di un Testo Unico in materia – giustifica la scelta del legislatore delegato.

Basti considerare che un intervento di tale portata, e la previsione di sanzioni più leggere, con conseguente riduzione di risorse già preventivate, al di là delle esigenze di rispetto dei principi di equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico, ex art. 97 Cost., riversa direttamente i suoi effetti sul raggiungimento di prestazioni standard in materie di rango costituzionale altrettanto sensibili, quali le prestazioni sanitarie (art. 32 Cost.), scolastiche (art. 34 Cost.), di sicurezza pubblica, ecc.

È dunque agevole rilevare che una riforma del sistema tributario, nel quale la previsione di un minor carico sanzionatorio si relaziona ad una modifica radicale del rapporto Fisco/Contribuente, come già prospettato, giustifica ampiamente una irretroattività della nuova disciplina sanzionatoria, senza con ciò poter essere tacciata di violazione dei diritti presidiati dagli artt. 3 e 53 Cost.

E d’altronde, che la deroga sia “pensata” con estrema ponderazione lo si rinviene nella constatazione che l’irretroattività non è coincidente con il momento di entrata in vigore della legge, ma con una data ulteriormente successiva, a comprova della necessità che anche l’attenuazione delle sanzioni necessita di una “tempo” per l’attuazione dell’intero ripensamento dell’impianto sanzionatorio.

Ne discende anche che è parimenti priva di fondamento la denuncia di eccesso di delega del legislatore delegato, come pure prospettato dalla difesa della ricorrente, mancando una espressa previsione derogatoria della lex mitior nella legge delega.

Invece è proprio la complessa revisione della disciplina che in sé porta a reputare come il legislatore delegato, nella ponderazione complessiva dei valori e degli interessi di rilevanza costituzionale, abbia agito nel legittimo perimetro della delega conferita.

In definitiva, questo collegio ritiene che non sussistano ragioni che inducano a riconoscere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 87 del 2024, né reputa che la disciplina sia incompatibile con i principi unionali.

Il ricorso va dunque rigettato. Le spese, che seguono il principio della soccombenza, sono regolate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la società alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle entrate, che si liquidano nella misura di Euro 15.000,00 per competente, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.


COMMENTO –La sentenza della Corte di Cassazione n. 1274 del 19 gennaio 2025 si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità relativa al principio del favor rei in materia di sanzioni tributarie. L’intervento della Suprema Corte si è reso necessario per chiarire l’applicazione della disciplina sanzionatoria introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024 ed il suo impatto sulle sanzioni irrogate in conseguenza di violazioni antecedenti al 1° settembre 2024. La decisione riveste particolare importanza per la giurisprudenza tributaria, poiché si inserisce nel dibattito sulla retroattività della lex mitior, offrendo spunti di riflessione sulla compatibilità della normativa interna con i principi costituzionali e unionali.

La controversia in oggetto trae origine da un avviso di accertamento notificato a una società attiva nel settore dei viaggi, alla quale era stata contestata l’indebita detrazione dell’IVA su incentivi erogati alle agenzie di viaggio per l’utilizzo di una piattaforma di prenotazione. L’Amministrazione finanziaria ha qualificato tali incentivi come mere cessioni di denaro, escludendone la natura di corrispettivo per prestazioni di servizi e negando, conseguentemente, il diritto alla detrazione dell’imposta. L’Ufficio ha quindi proceduto ad irrogare sanzioni sulla base dell’art. 6, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del D.Lgs. n. 471 del 1997, rispettivamente per indebita detrazione dell’IVA e per dichiarazione infedele.

La società ha impugnato tali sanzioni, ma sia in primo grado che in appello la sua richiesta è stata rigettata, inducendola ad adire la Cassazione invocando l’applicazione del principio del favor rei, sancito dall’art. 3, comma 3, del D.Lgs. n. 472 del 1997, e richiedendo l’applicazione della più favorevole disciplina sanzionatoria introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024, il quale ha ridotto l’aliquota sanzionatoria al 70%.

La Cassazione si è pronunciata sulla legittimità della norma transitoria contenuta nell’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024, stabilendo che il nuovo regime sanzionatorio è applicabile esclusivamente alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024.

Tale previsione, secondo la Corte, introduce una deroga legittima al principio generale della retroattività della lex mitior, in quanto il principio del favor rei non ha carattere assoluto e può essere limitato da esigenze di tutela di interessi pubblici di rango costituzionale, come la certezza del diritto e l’efficienza del sistema tributario. 

La Corte ha ribadito che la riforma sanzionatoria introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024 non può trovare applicazione retroattiva in virtù della precisa volontà del legislatore, volta a garantire un’adeguata gestione della transizione normativa.

A tal proposito la Suprema Corte si è espressa nei seguenti termini: “La richiesta di applicazione della sanzione più favorevole introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024 non può trovare accoglimento, in quanto l’art. 5 del medesimo decreto stabilisce espressamente che il nuovo regime sanzionatorio si applica alle sole violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024. La scelta del legislatore di limitare la retroattività della lex mitior è coerente con i principi costituzionali e unionali, tenuto conto della necessità di preservare la certezza del diritto e garantire la sostenibilità finanziaria del sistema tributario. Inoltre, la giurisprudenza unionale ha chiarito che il principio della lex mitior, sebbene rilevante in materia sanzionatoria, non assume carattere assoluto e può essere oggetto di limitazioni ragionevoli, specie quando sussistano preminenti esigenze di interesse generale.”

La decisione in commento si colloca in un quadro giurisprudenziale che considera compatibili tali limitazioni con il diritto dell’Unione Europea. La Corte di Giustizia UE, infatti, ha più volte riconosciuto che il principio della lex mitior, pur avendo una rilevanza primaria in materia sanzionatoria, non assume un carattere assoluto e può essere oggetto di limitazioni ragionevoli, specialmente quando sussistano esigenze imperative di bilanciamento con altri interessi pubblici.

Tale orientamento trova conferma nella più recente giurisprudenza della Cassazione, la quale ha ribadito la necessità di valutare il favor rei in un contesto di coerenza normativa e sistematica.

Nel rigettare il ricorso della società contribuente, la Cassazione ha sottolineato che l’applicazione della sanzione più favorevole introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024 è espressamente esclusa dall’art. 5 dello stesso decreto.

La scelta del legislatore di limitare la retroattività della lex mitior è stata ritenuta coerente con i principi costituzionali e unionali, tenuto conto della necessità di preservare la certezza del diritto e garantire la sostenibilità finanziaria del sistema tributario. 

Secondo la Corte, l’applicazione immediata del nuovo regime sanzionatorio anche alle violazioni commesse prima della sua entrata in vigore avrebbe generato incertezza interpretativa e compromesso la stabilità del sistema di riscossione fiscale, rendendo più difficoltosa la gestione delle controversie pendenti.

Un aspetto di particolare interesse della sentenza riguarda l’analisi della giurisprudenza costituzionale in materia di applicazione della lex mitior alle sanzioni amministrative. 

La Corte ha fatto riferimento a pronunce precedenti, tra cui la sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2019, la quale ha affermato che, sebbene il principio della retroattività della legge più favorevole trovi fondamento nell’art. 3 della Costituzione, esso può subire limitazioni qualora emergano esigenze imperative di tutela di interessi pubblici superiori. Analogamente, nella sentenza n. 1274 del 2025, la Cassazione ha sottolineato che, nel bilanciamento tra favor rei e certezza del diritto, la scelta del legislatore di circoscrivere l’applicazione della nuova disciplina sanzionatoria alle sole violazioni successive al 1° settembre 2024 si giustifica in ragione dell’importanza della prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle violazioni tributarie.

Dal punto di vista sostenziale, la decisione della Cassazione avrà un impatto significativo per i contribuenti che hanno subito sanzioni fiscali antecedenti alla data stabilita dal D.Lgs. n. 87 del 2024, i quali non potranno beneficiare del regime più favorevole introdotto dalla riforma.

Tuttavia, la pronuncia lascia aperto il dibattito sull’opportunità di eventuali future modifiche normative che possano estendere il principio del favor rei anche al settore tributario in modo più uniforme, sulla scia delle garanzie già riconosciute nell’ambito penale.

La sentenza n. 1274 del 2025 si inserisce dunque in un quadro di continuità giurisprudenziale volto a rafforzare la certezza del diritto in materia tributaria. 

L’approccio seguito dalla Corte evidenzia la necessità di contemperare l’esigenza di uniformità e prevedibilità delle sanzioni fiscali con il principio della retroattività della legge più favorevole, evitando che il favor rei finisca per costituire uno strumento di incertezza nell’ordinamento giuridico. 

Nonostante il pronunciamento in essere, a parere di chi scrive, la questione sembra rimanere aperta a ulteriori sviluppi, sia a livello legislativo che giurisprudenziale, che potrebbero influenzare l’evoluzione della disciplina sanzionatoria tributaria nei prossimi anni.

Dott. Francesco Foglia