1.Premessa.

Le differenze strutturali tra ordinanza-ingiunzione (art. 18 Legge 689/1981) ed ingiunzione fiscale (art. 2 R.D. 639/1910), che sono state oggetto di altro articolo su questa Rivista, si riflettono anche sul diverso regime di impugnazione di tali atti e sul diverso rito applicabile ai relativi procedimenti.

  1. L’opposizione ad ordinanza-ingiunzione.

Il procedimento di opposizione a sanzioni amministrative era in passato regolato dagli artt. 22, 22-bis e 23 Legge 24.11.1981 n. 689 (rubricata “Modifiche al sistema penale”).

La prima di tali norme prevedeva le modalità di proposizione del ricorso avverso la sanzione amministrativa, la seconda si occupava del riparto di competenza tra Giudice di Pace e Tribunale, mentre la terza disciplinava le modalità di svolgimento del giudizio di opposizione, dall’esame preliminare di ammissibilità e dalla fissazione di udienza fino alla pubblicazione della sentenza e al regime di impugnazione di quest’ultima.

Relativamente a tale ultimo aspetto, la versione originaria dell’art. 23 Legge 689/1981 prevedeva, all’ultimo comma, che la sentenza conclusiva del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa fosse inappellabile ed unicamente ricorribile per Cassazione. Tale comma era stato tuttavia già abrogato dall’art. 26, comma 1, lettera b), D.lgs. 02.02.2006 n. 40: tale modifica risultava applicabile alle sentenze pubblicate a decorrere dal 02 marzo 2006, le quali risultavano quindi appellabili in base alle norme “comuni” di cui agli artt. 339 e ss. c.p.c.

Ad oggi, sia l’art. 22-bis, sia l’art. 23 Legge 689/1981 risultano interamente abrogati dall’art. 34, comma 1, D.lgs. 01.09.2011 n. 150.

La predetta disposizione ha inoltre profondamente riformato il testo dell’art. 22 Legge 689/1981 il quale, ad oggi, non disciplina più le modalità di proposizione del ricorso avverso le sanzioni amministrative, ma si limita a prevedere che “salvo quanto previsto dall’articolo 133 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e da altre disposizioni di legge, contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento e contro l’ordinanza che dispone la sola confisca gli interessati possono proporre opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. L’opposizione è regolata dall’articolo 6 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150”.

La norma in esame stabilisce dunque una generale giurisdizione del giudice ordinario in materia di opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento e contro l’ordinanza che dispone la sola sanzione accessoria della confisca.

Tale regola generale risulta ovviamente “recessiva” in presenza di disposizioni speciali di legge, che prevedano la giurisdizione amministrativa (art. 133 D.lgs. 02.07.2010 n. 104, testo legislativo dedicato appunto al riordino del processo amministrativo) o quella di altro giudice diverso dal giudice ordinario (es.: giudice tributario, contabile, etc.), e che risultano prevalenti per specialità sull’attuale art. 22 Legge 689/1981 (secondo il principio per cui lex specialis derogat generali).

Al di fuori di tali fattispecie derogatorie, la giurisdizione in materia di opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento e contro l’ordinanza che dispone la confisca spetta alla giurisdizione ordinaria ed il relativo procedimento si svolge secondo le disposizioni dettate dall’art. 6 D.lgs. 01.09.2011 n. 150.

Tale Decreto ha avuto quale precipuo e dichiarato scopo quello di “ridurre” e “semplificare” il procedimento civile di cognizione, secondo quanto disposto dall’art. 54 Legge 18.06.2009 n. 69 (legge-delega).

In particolare, tale opera di “semplificazione” è stata attuata mediante una riduzione dei molteplici riti in precedenza vigenti a sole tre tipologie: il rito del lavoro, il rito ordinario di cognizione ed il rito sommario di cognizione.

La materia delle sanzioni amministrative risulta interessata dagli artt. 6-7 D.lgs. 150/2011 (che prevedono l’applicazione del rito del lavoro rispettivamente all’opposizione ad ordinanza-ingiunzione e al verbale di accertamento di violazione del Codice della Strada) e, indirettamente, dall’art. 32 del predetto Decreto (che prevede invece l’applicazione del rito ordinario di cognizione quando ad essere impugnata sia un’ingiunzione fiscale di cui al R.D. 14.04.1910 n. 639).

Secondo l’art. 1 D.lgs. 150/11, per “rito ordinario di cognizione” si intende “il procedimento regolato dalle norme del titolo I e del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile”, ossia dagli artt. 163-310 c.p.c. sul primo grado di giudizio e dagli artt. 323-408 c.p.c. sulle impugnazioni.

Per “rito del lavoro” si intende invece “il procedimento regolato dalle norme della sezione II del capo I del titolo IV del libro secondo del codice di procedura civile”, ossia dagli artt. 413-441 c.p.c.

Mentre il rinvio alle norme sul processo ordinario di cognizione appare pressoché integrale, non altrettanto avviene invece per il rito del lavoro: infatti, già il successivo art. 2 D.lgs. 150/2011 prevede alcune esclusioni della normativa processual-civilistica in materia di rito del lavoro.

Si tratta o di norme che riguardano specificamente le controversie di lavoro in  quanto tali, e che non possono quindi essere trasposte a controversie relative ad oggetti differenti, o di norme derogate da disposizioni speciali di cui al D.lgs. 150/2011 medesimo.

Per comprendere la ratio di tali esclusioni occorre tenere a mente come l’applicazione del rito del lavoro alla materia delle opposizioni a sanzioni amministrative costituisca frutto di una scelta normativa, che non fa ovviamente venire meno l’intrinseca ed ineliminabile differenza tra l’oggetto di tali controversie e quello delle controversie di lavoro.

In altri termini, le opposizioni ad ordinanza-ingiunzione (art. 6) o a verbale di accertamento di violazioni al Codice della Strada (art. 7) sono per scelta del Legislatore controversie soggette al rito del lavoro, ma non sono, né possono in alcun modo essere assimilate, a controversie “di lavoro”, ossia concernenti questioni e problematiche relative all’applicazione del Diritto del lavoro.

Di conseguenza, ad esse devono necessariamente restare del tutto estranei gli istituti, previsti dagli artt. 413 e ss., inscindibilmente legati all’esistenza di un rapporto di lavoro e di una controversia relativa a tale rapporto e, in particolare, gli istituti che prevedono uno speciale regime di favor verso la parte lavoratrice.

Pertanto, è radicalmente esclusa l’applicazione delle norme del rito del lavoro relative a:

  1. competenza territoriale (art. 413 c.p.c.), per la quale le norme del D.lgs. 150/11 dettano disposizioni speciali;
  2. notifica del ricorso e rappresentanza in giudizio nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 415, comma 7, c.p.c.);
  3. costituzione e difesa personale delle parti (art. 417 c.p.c.) e difesa delle Pubbliche Amministrazioni (art. 417-bis c.p.c.), per le quali le norme del D.lgs. 150/11 dettano disposizioni speciali;
  4. accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi (art. 420-bis c.p.c.);
  5. facoltà per il giudice di disporre l’accesso sul luogo di lavoro e l’esame dei testimoni sul luogo stesso (art. 421, comma 3, c.p.c.);
  6. richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali (art. 425 c.p.c.);
  7. mutamento del rito da ordinario a speciale (art. 426 c.p.c.) e da speciale a ordinario (art. 427 c.p.c.), che è interamente regolato dall’art. 4 d.lgs. 150/2011, prevalente per specialità;
  8. rivalutazione monetaria automatica della somma liquidata in sentenza a favore del lavoratore (art. 429, comma 3, c.p.c.);
  9. provvisoria esecutorietà “speciale” in favore del lavoratore, con facoltà per il lavoratore di procedere ad esecuzione sulla base del solo dispositivo della sentenza e  limitazione della sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado ai soli casi di “gravissimo danno” (art. 431, commi 1-4 e 6, c.p.c.);
  10. competenza territoriale in grado di appello e appello con riserva dei motivi (art. 433 c.p.c.),
  11. facoltà di procedere ad esecuzione sulla base del solo dispositivo, in favore del lavoratore (art. 438, comma 2, c.p.c.);
  12. cambiamento del rito in appello (art. 439 c.p.c.), che è interamente regolato dall’art. 4 d.lgs. 150/2011, prevalente per specialità.

L’art. 2 D.lgs. 150/2011 prevede infine altre tra rilevanti deroghe rispetto al rito applicabile alle vere e proprie controversie di lavoro.

In primo luogo, l’ordinanza di pagamento di una somma a titolo provvisorio, quando il giudice ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova (art. 423, comma 2, c.p.c.), che nelle controversie di lavoro può essere emessa solo in favore del lavoratore, nelle controversie ex D.lgs. 150/2011 può essere concessa su istanza di ciascuna parte.

Ancora, per entrambe le parti la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva e la sospensione della provvisoria esecutorietà può essere concessa dal giudice di appello in presenza di “gravi e fondati motivi” (art. 431, comma 5, c.p.c. che richiama gli artt. 282-283 c.p.c.).

Non vi è dunque un regime di provvisoria esecuzione “differenziato”, che caratterizza invece le controversie aventi ad oggetto un rapporto di lavoro (nelle quali l’esecutorietà della sentenza favorevole al datore di lavoro può essere sospesa in presenza di “gravi e fondati motivi”, mentre quella favorevole al lavoratore può esserlo solo in presenza del più rigoroso presupposto del “gravissimo danno” per la controparte).

Infine, nelle controversie di lavoro il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal Codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio. In particolare, tale disposizione permette al Giudice del lavoro di derogare ai limiti previsti dal Codice civile in materia di prova testimoniale ex artt. 2721-2726 c.c.; in materia di presunzioni ex art. 2729 c.c.; in materia di confessione stragiudiziale resa ad un terzo ex art. 2735 c.c. (che, nelle controversie di lavoro, può essere provata per testimoni anche se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge).

Diversamente, nelle controversie soggette al rito del lavoro ex D.lgs. 150/2011, ma non aventi ad oggetto una controversia lavoristica, salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori officiosi del giudice non sono esercitabili al di fuori dei limiti previsti dal Codice civile.

Le disposizioni che più direttamente interessano la materia delle opposizioni a sanzioni amministrative sono rappresentate dagli artt. 6 e 7 D.lgs. 150/2011, che disciplinano rispettivamente l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione e l’opposizione a verbale di accertamento di violazione del Codice della Strada.

Le due norme presentano evidenti analogie, in quanto entrambe prevedono:

  1. l’applicabilità del rito del lavoro (rispettivamente alle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione ex art. 22 Legge 689/1981 e alle opposizioni a verbale di accertamento di violazioni del Codice della Strada ex art. 204-bis C.d.S.), ove non diversamente stabilito;
  2. una regola analoga in materia di determinazione della competenza territoriale, ossia fissano la competenza territoriale del giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione;
  3. un termine di decadenza per la proposizione del ricorso, pari a 30 giorni (se il ricorrente risiede in Italia) o 60 giorni (se il ricorrente risiede all’estero), decorrenti dalla notificazione dell’ordinanza-ingiunzione (art. 6), dalla contestazione immediata della violazione o dalla notifica del verbale di accertamento (art. 7), termine oltre il quale la proposizione del ricorso è inammissibile;
  4. la facoltà di deposito del ricorso mediante il servizio postale, con la conseguenza che la tempestività del deposito andrà valutata al momento della spedizione di quest’ultimo (analogamente a quanto avviene anche nell’ambito del ricorso tributario);
  5. la facoltà di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato ex art. 5 D.lgs. 150/2011 (con ordinanza non impugnabile, nel contraddittorio delle parti, in presenza di “gravi e circostanziate ragioni”; con decreto fuori udienza e senza contraddittorio, in caso di “pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile” e salva la successiva conferma all’esito dell’udienza);
  6. l’esecuzione delle notifiche del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione di udienza a cura della Cancelleria (analogamente a quanto disposto dall’art. 420, penultimo comma, c.p.c., secondo cui “a tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti provvede l’ufficio”);
  7. un termine di costituzione della parte resistente di dieci giorni anteriori all’udienza, analogamente a quanto prescritto nel rito del lavoro dall’art. 416 c.p.c.

Analogo termine era previsto anche dal previgente art. 23 Legge 689/1981.

Tuttavia, mentre sotto la vigenza della normativa abrogata tale termine era stato ritenuto dalla giurisprudenza come meramente ordinatorio e non stabilito a pena di decadenza, con conseguente facoltà per il giudice di ammettere documenti tardivamente prodotti e addirittura di rinnovare l’ordine di loro produzione rivolto alla Pubblica Amministrazione (si vedano, in tal senso, Cass. civ., sez. I, 16.03.1987 n. 2684; Cass. civ., sez. I, 09.06.1989 n. 2792 e Cass. civ., sez. I, 11.11.2004 n. 21491), l’attuale applicazione delle norme sul rito del lavoro (in particolare: art. 416 c.p.c.) portano al contrario a concludere per la perentorietà di detto termine.

Una volta scaduto quest’ultimo, la parte resistente può costituirsi in giudizio unicamente al fine di proporre mere difese o eccezioni cd. “in senso lato” (ossia rilevabili anche d’ufficio dal giudice).

La costituzione oltre tale termine comporta invece la decadenza dalla facoltà di:

  1. a) proporre domande riconvenzionali;
  2. b) proporre eccezioni sia processuali che di merito cd. “in senso stretto” (ossia non rilevabili d’ufficio dal giudice);
  3. c) chiedere l’autorizzazione alla chiamata in causa di un terzo;
  4. d) chiedere mezzi di prova e produrre documenti (compresi la copia del rapporto, gli atti relativi all’accertamento, alla contestazione e alla notificazione della violazione). Stante la gravità delle conseguenze che derivano a carico dell’Amministrazione resistente da una tardiva costituzione in giudizio, gli artt. 6 e 7 D.lgs. 150/2011 prevedono inoltre che tale termine di decadenza debba essere espressamente indicato nel decreto di fissazione della prima udienza che, unitamente al ricorso introduttivo, viene notificato alla parte resistente medesima;
  1. la facoltà per le parti di stare in giudizio personalmente nel procedimento di primo grado;
  2. la facoltà per l’amministrazione resistente di avvalersi di funzionari specificamente delegati a stare in giudizio;
  3. le attività compiute dal giudice in prima udienza, ossia, in particolare, la verifica dell’ammissibilità del ricorso rispetto al termine di decadenza di proposizione (l’eventuale inammissibilità deve essere dichiarata con sentenza) e la convalida del provvedimento opposto con ordinanza appellabile (che deve contenere anche la pronuncia sulle spese di lite), quando l’opponente o il suo difensore non si presentano senza addurre alcun legittimo impedimento, salvo che l’illegittimità del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall’opponente, oppure che l’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato abbia omesso il deposito dei documenti nel termine di 10 giorni anteriori alla prima udienza;
  4. la facoltà del giudice di annullare in tutto o in parte il provvedimento impugnato;
  5. l’obbligo per il Giudice di accogliere l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente;
  6. l’inapplicabilità dell’art. 113, comma 2, c.p.c., che prevede il ricorso alla cd. “equità necessaria” per le cause devolute alla cognizione del Giudice di Pace di valore non eccedente i 1.100 euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici derivanti da contratti conclusi mediante moduli e formulari.

L’esclusione della cd. “equità necessaria” comporta anche l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 339, comma 3, c.p.c. Tale norma limita l’appello contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo “equità necessaria” alle sole ipotesi di violazione delle norme sul procedimento, violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero violazione dei principi regolatori della materia.

Stante l’inapplicabilità dell’art. 339, comma 3, c.p.c., la sentenza del Giudice di Pace, che concluda il giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione o di opposizione a verbale di accertamento della contravvenzione stradale, sarà appellabile per qualsiasi motivo e senza alcuna limitazione. L’appello contro tali sentenze risulta pertanto un mezzo a critica del tutto libera;

  1. l’esenzione da ogni tassa o imposta, ivi inclusa l’imposta di registro della sentenza, fatta eccezione per l’applicazione del contributo unificato ex art. 10, comma 6-bis, DPR 115/2002.

Le due norme prevedono tuttavia anche alcune rilevanti differenze.

In primo luogo, l’art. 7 prevede unicamente un criterio di competenza territoriale, mentre non si pone un problema di riparto della competenza “verticale”, posto che il giudice competente a conoscere dell’opposizione a verbale di accertamento di violazione al Codice della Strada è sempre e comunque il Giudice di pace.

Diversamente, l’art. 6 contiene anche alcuni criteri di determinazione della competenza “verticale”, utili al riparto di competenza tra Tribunale e Giudice di Pace.

Di regola, la competenza in materia di opposizione all’ordinanza- ingiunzione spetta al Giudice di Pace.

Tuttavia, spetta invece al Tribunale quando la sanzione è stata applicata per una violazione concernente alcune materie specificamente fissate dall’art. 6 D.lgs. 150/2011, ossia:

  1. a) di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro;
  2. b) di previdenza e assistenza obbligatoria;
  3. c) di tutela dell’ambiente dall’inquinamento, della flora, della fauna e delle aree protette;
  4. d) di igiene degli alimenti e delle bevande;
  5. e) valutaria;
  6. f) di antiriciclaggio.

Si tratta di un’elencazione in parte analoga, anche se più ristretta, rispetto a quella contenuta nella normativa previgente (art. 22-bis Legge 689/1981), la quale devolveva al tribunale un numero maggiore di materie (ivi inclusa quella “urbanistica ed edilizia”, “di società ed intermediari finanziari” e quella “tributaria”).

La giurisprudenza di legittimità ha inoltre generalmente fornito un’interpretazione restrittiva delle materie riservate alla cognizione del Tribunale, ed in particolare dei concetti di “tutela della fauna” e di “igiene degli alimenti”. Infatti, “l’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa pecuniaria per la violazione dell’obbligo di controllo annuale sierologico di equidi per l’anemia infettiva … rientra nella generale competenza del giudice di pace … trattandosi di infrazione di obblighi finalizzati a prevenire la diffusione di una malattia tra animali vivi, sicché non sussiste la competenza del tribunale prevista dal successivo comma 4, lett. c) e d), della stessa norma, che si riferisce alle violazioni in materia di “tutela della fauna”, concernente gli animali inseriti nel proprio ambiente naturale e non d’allevamento, ovvero di “igiene degli alimenti”, relativa ad animali già macellati per il consumo alimentare” (Cass. Civ., sez. VI- 2, ord., 29.09.2015 n. 19355).

La competenza del Tribunale sussiste inoltre:

  1. se il valore della sanzione supera l’importo di Euro 15.493,00 (sia quando la sanzione amministrativa comminata in astratto dalla norma è superiore a tale importo, sia quando la norma prevede una sanzione pecuniaria proporzionale senza determinazione di un limite massimo ed in concreto viene applicata una sanzione superiore a tale importo);
  2. quando viene applicata una sanzione di natura diversa da quella pecuniaria, sola o congiunta a quest’ultima, fatta eccezione per le violazioni previste dal R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (in materia di assegni bancari e circolari), dalla Legge 15 dicembre 1990, n. 386 (nuova disciplina sanzionatoria degli interessi bancari) e dal D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della Strada).

Altra significativa differenza tra le due norme si rinviene in materia di rappresentanza in giudizio, poiché l’art. 6 D.lgs. 150/2011 contiene inoltre la previsione (assente invece nell’art. 7) secondo cui, nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione ex art. 205 Codice della Strada, il Prefetto può farsi rappresentare in giudizio (oltre che da propri funzionari specificamente delegati) anche dall’amministrazione cui appartiene l’organo accertatore, la quale vi provvede mediante propri funzionari appositamente delegati, laddove sia anche destinataria dei proventi della sanzione ex art. 208 C.d.S.

L’art. 7 D.lgs. 150/2011 contiene inoltre la previsione di un’ulteriore causa di inammissibilità del ricorso al Giudice di pace (assente nell’art. 6), che si verifica quando avverso il verbale di accertamento della violazione al Codice della Strada sia già stato proposto ricorso al Prefetto ex art. 203 C.d.S.

Tale causa di inammissibilità costituisce diretta conseguenza del carattere tra loro rigidamente alternativo del ricorso giurisdizionale ex art. 204-bis C.d.S. e del ricorso al Prefetto ex art. 203 C.d.S. Chi abbia proposto ricorso al Prefetto ex art. 203 C.d.S. avverso un verbale di accertamento non potrà dunque impugnare quest’ultimo anche davanti al Giudice di Pace ex art. 7 D.lgs. 150/2011, ma dovrà attendere l’ordinanza-ingiunzione prefettizia ed eventualmente impugnare quest’ultima ex art. 6 D.lgs. 150/2011.

Ancora, l’art. 7 D.lgs. 150/2011 contiene una norma specifica in materia di legittimazione passiva, che spetta:

1) al Prefetto, quando le violazioni opposte sono state accertate da funzionari, ufficiali e agenti dello Stato, nonché da funzionari e agenti delle Ferrovie dello Stato, delle ferrovie e tranvie in concessione e dell’ANAS;

2) a Regioni, Province e Comuni, quando le violazioni opposte sono state accertate da funzionari, ufficiali e agenti di tali Enti locali.

Altra previsione specifica dell’art. 7 D.lgs. 150/2011 è quella secondo cui l’opposizione si estende alle sanzioni accessorie.

Peculiari dell’art. 7 D.lgs. 150/2011 sono infine le previsioni per cui la sentenza di rigetto dell’opposizione:

1) deve determinare l’importo della sanzione in una misura compresa tra il minimo e il massimo edittale stabilito dalla legge per la violazione accertata; il relativo pagamento deve avvenire nel termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza e deve essere effettuato a vantaggio dell’Amministrazione cui appartiene l’organo accertatore, secondo le modalità di pagamento da questa determinate;

2) non può escludere l’applicazione delle sanzioni accessorie e, in particolare, la decurtazione dei punti dalla patente di guida.

Più sintetica appare invece la previsione dell’art. 6 D.lgs. 150/2011, il quale si limita a disporre che il giudice possa modificare l’ordinanza-ingiunzione opposta anche limitatamente alla sanzione dovuta, la quale è in ogni caso determinata in una misura non inferiore al minimo edittale.

 

  1. Il regime processuale applicabile all’impugnazione della cartella di pagamento.

Qualora l’Ente, che ha irrogato la sanzione amministrativa, abbia affidato la riscossione all’Agente nazionale della Riscossione, che vi procede mediante cartella di pagamento, quest’ultima è opponibile:

  • con ricorso ex 7 D.lgs. 150/11, qualora la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione del Codice della strada. In tal caso il termine per la proponibilità del ricorso è, a pena di inammissibilità, quello di 30 giorni decorrente dalla data di notificazione della cartella di pagamento ed il ricorso può essere proposto personalmente dal contribuente;
  • con opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi ex 615-617 c.p.c. quando vengano contestati fatti estintivi sopravvenuti (es.: adempimento successivo alla notifica del verbale, prescrizione maturata successivamente a tale notifica, etc.) o vizi formali propri della cartella (es.: omessa sottoscrizione, mancata indicazione del responsabile del procedimento, ecc.). In tal caso, l’atto introduttivo assume la forma di un atto di citazione, che l’opponente non può proporre in proprio, ma che necessita dell’assistenza tecnica di un difensore abilitato (Cass. civ., SS.UU., 22.09.2017 n. 22080).

 

  1. L’opposizione ad ingiunzione fiscale.

Qualora invece l’Ente, che ha irrogato la sanzione amministrativa, abbia affidato la riscossione di quest’ultima ad un Concessionario iscritto all’albo di cui all’art. 53 D.lgs. 446/1997 o vi abbia provveduto in proprio, viene emessa un’ingiunzione fiscale di cui al R.D. 14.04.1910 n. 639,  opponibile nelle forme del rito ordinario di cognizione.

Ciò è quanto stabilito dalla norma speciale di cui all’art. 32 D.lgs. 150/2011, secondo cui:

“1. Le controversie in materia di opposizione all’ingiunzione per il pagamento delle entrate patrimoniali degli enti pubblici di cui all’articolo 3 del testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, sono regolate dal rito ordinario di cognizione.

  1. È competente il giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento opposto.
  2. L’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’articolo 5”.

Poiché le sanzioni amministrative costituiscono senza dubbio un’entrata “patrimoniale” (extra-tributaria) dell’Ente, come tale soggetta alla giurisdizione ordinaria, non vi è dubbio che l’ingiunzione fiscale ad esse relativa debba essere opposta ai sensi della predetta norma.

Quest’ultima appare peraltro piuttosto sintetica, in quanto si limita a prevedere:

  • l’applicazione del rito ordinario di cognizione, con conseguente esclusione del diritto del contribuente di proporre l’opposizione in proprio e necessità di assistenza di un difensore tecnico;
  • la competenza del giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato (sia esso l’Ente che proceda in proprio alla riscossione delle proprie entrate o il Concessionario iscritto all’albo di cui all’art. 53 D.lgs. 446/1997);
  • la facoltà di sospensione dell’ingiunzione fiscale ex 5 D.lgs. 150/2011.

Nulla viene stabilito sul relativo procedimento, che risulterà quindi interamente regolato dalle norme del Codice di procedura civile sul rito ordinario di cognizione, senza alcuna particolare deroga (anche per ciò che attiene ai criteri di riparto della competenza tra Giudice di Pace e Tribunale, che saranno quelli stabiliti ex artt. 7 e 9 c.p.c.).

Nulla viene altresì stabilito sui termini della relativa impugnazione, e ciò può far sorgere il dubbio se possa ancora ritenersi applicabile il termine di trenta giorni dalla notifica dell’ingiunzione fiscale, posto dal previgente art. 3 R.D. 639/1910.

Tale norma, anteriormente alle modifiche apportate dall’art. 34, comma 40, D.lgs. 150/2011, disponeva che: “Entro trenta giorni dalla notificazione della ingiunzione, il debitore può contro di questa produrre ricorso od opposizione avanti il conciliatore o il pretore, o il tribunale del luogo, in cui ha sede l’ufficio emittente, secondo la rispettiva competenza, a norma del Codice di procedura civile. L’autorità adita ha facoltà di sospendere il procedimento coattivo. Il provvedimento di sospensione può essere dato dal conciliatore, pretore o presidente con semplice decreto in calce al ricorso”.

Ad oggi, invece, essa dispone che : “Avverso l’ingiunzione prevista dal comma 2 si può proporre opposizione davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. L’opposizione è disciplinata dall’articolo 32 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150”, ed ha quindi perduto ogni riferimento ad un termine finale per la proposizione dell’opposizione.

D’altra parte, però, anche sotto la vigenza del precedente testo normativo, la giurisprudenza di legittimità aveva concluso per la natura non processualmente perentoria di detto termine, il cui superamento aveva quale effetto non già quello di precludere e/o rendere inammissibile  l’opposizione, ma solo quello (extra-processuale) di rendere irretrattabile il credito contenuto nell’ingiunzione.

Tale effetto dell’irretrattabilità del credito, in caso di mancata opposizione dell’ingiunzione nel termine di trenta giorni dalla sua notifica, deve ritenersi tutt’oggi ricavabile dal sistema, nonostante la nuova formulazione dell’art. 3 R.D. 639/1910.

In primo luogo, il termine di trenta giorni è ancora oggi previsto per il pagamento dell’ingiunzione fiscale dall’art. 2 R.D. 639/1910, secondo cui “il procedimento di coazione comincia con la ingiunzione, la quale consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare entro trenta giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta”.

Se, trascorso il termine di trenta giorni, il Concessionario può intraprendere gli atti esecutivi significa evidentemente che, una volta trascorso tale termine, il titolo esecutivo si è formato e non è più contestabile neppure per ragioni di merito.

Di conseguenza, appare preferibile ritenere che ancora ad oggi l’atto di citazione in opposizione ad un’ingiunzione fiscale ex art. 32 D.lgs. 150/2011 debba essere notificato nel termine di trenta giorni dalla notificazione di quest’ultima.

 

  1. Considerazioni conclusive.

In conclusione, l’applicabilità del rito ordinario di cognizione appare meno favorevole per il contribuente (perché non gli consente di proporre in proprio l’opposizione) e più favorevole per l’Amministrazione (non soggetta al termine perentorio di decadenza di 10 giorni anteriori all’udienza, ma autorizzata a produrre documenti nei termini di cui agli artt. 183 o 320 c.p.c., a seconda che il giudizio si svolga presso il Tribunale o presso il Giudice di Pace).

Il Legislatore sembra quindi aver previsto un rito (i.e.: quello del lavoro) più favorevole al contribuente per le impugnazioni di atti (ordinanza-ingiunzione e verbale di accertamento della contravvenzione stradale) nei quali sia ancora possibile controvertere il merito e la liquidazione della pretesa impositiva, ed invece un rito più favorevole alla parte resistente, sia essa l’Amministrazione o un Concessionario (i.e.: rito ordinario di cognizione), qualora la liquidazione del credito sia già avvenuta e possano quindi essere “fisiologicamente” contestati solo vizi formali dell’ingiunzione stessa o fatti estintivi sopravvenuti della pretesa creditoria.

 

Dott.ssa Cecilia Domenichini

(Unicusano-Roma)