Cass. Pen., sez. III, 09 febbraio 2022, n. 4456


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACETO Aldo – Presidente –

Dott. GENTILI Andrea – rel. Consigliere –

Dott. DI STASI Antonella – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

V.V., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 27/21 della Corte di appello di Potenza del 14 gennaio 2021;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa MASTROBERARDINO Paola, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;

sentita, altresì, per il ricorrente l’avv.ssa F. A., del foro di Roma, in sostituzione dell’avv. G. A., del foro di Roma, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Potenza ha accolto il gravame con il quale il Procuratore generale della Repubblica aveva impugnato la sentenza con la quale il Tribunale di Matera aveva dichiarato la penale responsabilità di V.V. in ordine al reato di cui al D.P.R. n. 74 del 2000, art. 10-ter per avere egli omesso il versamento della somma da lui dovuta, in qualità di legale rappresentante della M. Spa, a titolo di Iva per l’anno di imposta (OMISSIS), in misura pari ad oltre 870.000,00 Euro e, pur avendolo condannato alla pena di giustizia, non aveva irrogato a carico del predetto le sanzioni accessorie stabilite dalla specifica normativa di settore in caso di sentenza di condanna; con la medesima decisione la Corte di appello lucana aveva rigettato i motivi di impugnazione proposti dal ricorrente avverso la sentenza del giudice di primo grado ed aventi ad oggetto, sia la effettiva sussistenza del debito tributario in misura superiore alla soglia di punibilità attualmente vigente in ordine al reato contestato, sia il mancato riconoscimento di un pregresso credito tributario vantato dal ricorrente, sia la logicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla conferma della confisca per equivalente disposta in relazione a taluni beni dei quali il V. non era già più proprietario al momento in cui fu disposto il sequestro dei medesimi, finalizzato alla successiva confisca, sia, infine, in ordine al trattamento sanzionatorio applicato nei confronti dell’imputato.

Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il patrocinio dei propri difensori fiduciari il V., articolando 4 motivi di impugnazione.

Il primo motivo di ricorso concerne, principalmente il fatto che la Corte lucana abbia omesso di considerare il fatto che, con sentenza n. 133 del 2019, la Commissione tributaria regionale di Potenza ha riconosciuto in favore del V. la fondatezza della richiesta di compensazione avanzata dal medesimo, per conto della predetta società da lui amministrata, in ordine a crediti tributari che questa vantava in maniera definitiva; ha rilevato il ricorrente che, una volta operata la predetta compensazione, il debito tributario residuo per Iva era inferiore alla soglia di punibilità, sicché lo stesso non poteva giustificare la sanzione penale a carico del prevenuto.

Il secondo motivo di impugnazione attiene al vizio di violazione di legge e di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui in essa non si è ritenuto il credito Iva che la società M. vantava al fine di abbattere l’importo dei tributi evasi al di sotto della soglia di punibilità.

Il terzo motivo attiene all’avvenuta conferma – operata, ad avviso del ricorrente, in termini di contraddittorietà motivazionale se non di omessa motivazione – della confisca per equivalente di taluni cespiti immobiliari già facenti capo al V. ma da questi donati ai propri figli in data (OMISSIS), cioè circa 8 mesi prima che su di essi cadesse il sequestro preventivo disposto solo in data (OMISSIS), senza che i giudici del merito abbiano in qualche modo dimostrato la natura meramente fittizia ed apparente delle predette cessioni e, pertanto, la non veridicità della intestazione dei beni in questione in favore di terzi estranei al reato.

Infine, con il quarto motivo il ricorrente ha lamentato il fatto che gli siano state negate le circostanze attenuanti generiche, senza una adeguata motivazione e che non sia stata riconosciuta al prevenuto la sospensione condizionale della pena senza che sia stata operata una qualsivoglia prognosi in merito alla possibilità o meno che il V., per il futuro, si astenga dal commettere ulteriori reati.

Motivi della decisione

Il ricorso, fondato nei limiti di quanto di ragione, deve essere accolto conformemente ad essi e rigettato nel resto.

Privi di pregio sono, infatti, i primi due motivi di impugnazione, che, per la loro sostanziale omogeneità contenutistica, possono essere congiuntamente esaminati.

Con essi, in sintesi, il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello potentina, nel rigettare il gravame presentato dalla difesa del V., non avrebbe tenuto conto della esistenza di un credito tributario vantato dal predetto – sancito da una pronunzia della Commissione tributaria regionale di Potenza che lo ha riconosciuto esistente – il cui ammontare, ove detratto dall’importo dell’Iva da lui non corrisposta quanto all’anno di imposta (OMISSIS), nella qualità di legale rappresentante della M. Spa, avrebbe reso siffatta omissione tributaria di importo inferiore alla soglia di punibilità prevista per il reato contestato.

Gli argomenti posti alla base delle doglianze sono non condivisibili.

Deve, infatti, in primo luogo rilevarsi, concordemente con la sentenza impugnata, che la circostanza, dedotta – sia pure con qualche apoditticità da parte del ricorrente non essendo state specificate affatto le ragioni poste alla base di tale decisione – avente ad oggetto la presenza di una sentenza, indicata come sentenza n. 133 della Commissione tributaria regionale di Potenza depositata in data 16 gennaio 2019, il cui contenuto viene indicato come favorevole per il V., non è di per sé tale da incidere in termini positivi in merito alla posizione processuale del ricorrente.

Invero, si rileva, in primo luogo che la sentenza in questione, la quale avrebbe ad oggetto (quanto segue si riporta non senza una problematica condivisibilità sul piano dei principi giuridici) la non ostatività – ai fini della richiesta di compensazione di un credito vantato con altri debiti della medesima natura – della avvenuta cessione a terzi di tale credito tributario in materia di Iva da parte della M. Spa, non risulta – non essendo stato tale dato documentato dal ricorrente, sul quale, in quanto soggetto a ciò interessato, gravava il relativo onere dimostrativo – essere passata in giudicato; essa, pertanto, non contiene una affermazione avente la caratteristica della definitività neppure sul piano tributario.

Sotto questo profilo la stessa – anche se si volesse aderire ad un isolato precedente (che, tuttavia, parrebbe discostarsi dalla generale regola in forza della quale è stata eliminata, anche sul piano logico, la cosiddetta pregiudiziale tributaria dal nostro ordinamento processuale) secondo il quale le sentenze pronunziate dal giudice tributario, se non definitive, non hanno efficacia vincolante nel giudizio penale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 21 ottobre 2008, n. 39358), difettando del requisito sopra indicato, appunto la definitività – non avrebbe alcuna valenza ai fini di astringere in un unico indirizzo ricostruttivo delle vicende sottostanti, univoco sia sotto il profilo tributario che sotto quello penale, i fatti di cui alla contestazione.

Ma, in termini più generali – e ad avviso di questo Collegio più aderenti al dettato normativo – deve ritenersi che, non diversamente da quanto avviene per ciò che riguarda le sentenze emesse dal giudice amministrativo (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 14 marzo 2011, n. 10210), anche le sentenze emesse dal giudice tributario, ancorché definitive, non vincolano quello penale, in quanto l’art.238-bis c.p.p., che ne consente l’acquisizione in dibattimento, precisa che le stesse siano valutate a norma dell’art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p, comma 3, dal giudice procedente ai fini della prova del fatto in esse accertato (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 gennaio 2016, n. 1628); in altre parole, le stesse valgono quali elementi probatori posti a sostegno della tesi di chi le abbia addotte, ma non hanno una particolare valenza probatoria, essendo la loro valutazione sottoposta al principio del libero convincimento del giudice, senza alcun altro vincolo per questo, se non quello, ordinario, di congruamente e plausibilmente motivare la proprie decisioni in termini conformi al diritto.

Considerata, pertanto, la inammissibilità del primo profilo impugnatorio, non sussistendo alcun obbligo di conformazione del giudizio penale a quello tributario, per ciò che attiene al secondo, connesso, profilo si rileva che la Corte lucana ha, in termini di convincente plausibilità, condiviso le argomentazioni già fatte proprie dal Tribunale materano, il quale aveva, in radice, escluso la possibilità da parte della M., e per essa del suo legale rappresentante, di portare in compensazione del debito per l’Iva non versata per l’anno di imposta (OMISSIS) altri preesistenti crediti tributari da essa vantati (così da abbattere la sua esposizione al di sotto della soglia di punibilità).

Tanto era stato ritenuto in ragione del fatto che di tali crediti quella già aveva, diversamente, disposto attraverso un negozio di cessione in favore di un soggetto terzo, nella specie un primario istituto di credito bancario; è, infatti, di tutta evidenza che, una volta intervenuta la loro cessione a terzi, dei crediti in questione, non essendo essi più riferibili alla M. ma al soggetto cessionario, la prima non poteva più disporre nei confronti del proprio debitore, opponendoli in compensazione di eventuali crediti che questi vantasse nei suoi confronti.

Così esponendo in termini di assoluta correttezza giuridica e di limpida chiarezza motivazionale, le ragioni del rigetto del gravame sul punto i giudici del merito hanno indicato i motivi per i quali non poteva ritenersi che il debito tributario gravante, nella qualità rivestita, sul V., non raggiungesse la soglia di punibilità penale.

Sono, invece, fondati i restanti due motivi di impugnazione, sia quello legato alla avvenuta confisca per equivalente di taluni cespiti immobiliari che il V., fin da un periodo antecedente alla esecuzione del sequestro preventivo su di essi aveva donato ai propri figli, sia quello relativo al rigetto della richiesta di concessione in favore del V. del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Sui due punti controversi la motivazione della sentenza impugnata è effettivamente deficitaria.

Premesso, infatti, quanto al primo di essi, da una parte, che al V. è contestata esclusivamente la violazione del D. Lgs. N. 74 del 2000, art. 10 ter e non anche la violazione dell’art. 11 medesimo D.Lgs., e, da altra parte, che l’art. 12-bis sempre citato D.Lgs., dispone che, in caso, fra l’altro, di condanna per uno dei reati preveduti dal medesimo D.Lgs., è sempre ordinata la confisca diretta dei beni che ne costituiscono il prezzo od il profitto, ovvero, quando ciò sia impossibile, quella per equivalente di beni aventi identico valore, si rileva che il rigore di tale previsione è mitigato dalla circostanza che non deve trattarsi di beni dei quali la appartenenza sia di spettanza di un terzo estraneo al reato o dei quali il condannato non abbia la disponibilità, sebbene questa vada intesa in termini non di formale titolarità ma di semplice libera relazione materiale con il bene (in tale senso si vedano, per la loro efficacia didascalica: Corte di cassazione, Sezione III penale, 17 settembre 2021, n. 34602, nonché, negli stessi termini, Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 gennaio 2019, n. 4887, secondo le quali, in tema di confisca per equivalente, la “disponibilità” del bene, quale presupposto del provvedimento ablatorio, non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di esso venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà).

Ciò posto, nel caso di specie è indubbio che il ricorrente non sia il proprietario dei beni attinti dal provvedimento di confisca, essendo stati questi da lui donati ai figli, terzi apparentemente estranei rispetto al reato commesso, in data anteriore allo stesso provvedimento di sequestro preventivo che li ha colpiti.

In punto di permanenza della effettiva disponibilità dei beni in questione in capo al V., la Corte territoriale, pur investita del relativo motivo di impugnazione, nulla dice, essendosi essa limitata ad osservare che la donazione “fu effettuata con una finalità indubbiamente strumentale, in quanto diretta a sottrarre i beni alla garanzia patrimoniale dell’ingente obbligazione tributaria già sussistente in capo alla M. spa”, di tal che, dovendosi presupporre “il c.d. consilium fraudis, deve ritenersi insussistente lo stato di buona fede sia del donante che dei suoi discendenti donatari”.

In tal senso la Corte lucana – oltre ad avere introdotto (per altro in termini di indimostrata presupposizione) degli elementi, quali la non estraneità, attraverso un indimostrato consilium fraudis, degli attuali titolari dei beni alla ipotesi di reato, che avrebbe dovuto giustificare, come dianzi accennato, una contestazione del D.Lgs. N. 74 del 2000, art. 11 mai intervenuta – ha, altresì, dato per sufficiente, ai fini della dimostrazione della mera fittizietà della cessione e, pertanto, della permanenza della disponibilità dei beni in capo al cedente (pur nei termini dianzi delineati alla luce della giurisprudenza di questa Corte), il mero fatto che la cessione fosse stata eseguita in danno del creditore erariale.

Ma si tratta di una ipostasi meramente assertiva priva di ampia affidabilità, posto che il cedente potrebbe avere realmente ceduto il bene, senza averne mantenuto alcuna effettiva disponibilità solo al fine di preferire a quella dell’Erario la posizione economica di altro soggetto; condotta questa in esito alla quale non ci sarebbero gli elementi per ritenere sussistere le condizioni per procedere, secondo i termini di cui al citato D. Lgs. N. 74 del 2000, art. 12-bis alla confisca per equivalente di un valore pari all’importo del profitto o del prezzo conseguiti tramite la commissione del reato.

Al riguardo, infatti, il Collegio rileva che l’argomento, speso dalla Corte territoriale in termini di pretesa adeguatezza motivazionale, appare, invece, come detto meramente assertivo, tanto da giustificare sul punto l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame, in punto di conservazione o meno da parte del V. della materiale disponibilità dei beni da questo ceduti con l’atto del (OMISSIS), alla Corte di appello di Salerno.

Anche la censura in materia di mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena è, come dianzi accennato, fondato.

Deve, infatti, premettersi che in sede di discussione conclusiva di fronte alla Corte di appello, la difesa del V. ebbe a chiedere, in estremo subordine, la concessione dei “benefici”; pur nella riportata laconicità, la espressione usata dal ricorrente appare inequivocabilmente destinata a sollecitare al giudice del gravame una favorevole pronunzia in materia di sospensione condizionale della pena, esclusa dal giudice di primo grado.

Sul punto la Corte lucana,, allineandosi in punto di stringatezza motivazionale al contenuto dell’appello proposto di fronte a lei, ha rilevato che la particolare scaltrezza manifestata dal V. nel delinquere, l’entità della somma sottratta all’Erario e la mancanza di un qualche segno di resipiscenza da parte del ricorrente, oltre ad ostare ad una riduzione del trattamento sanzionatorio ed al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, erano fattori tali da rendere non “meritevole di approvazione ogni altra istanza diretta al conseguimento di benefici di legge”.

Ritiene il Collegio che siffatta motivazione appaia inadeguata ad escludere la sussistenza degli elementi atti ad escludere che il V. potesse godere della sospensione condizionale della pena.

Invero la motivazione in questione in alcun punto fa riferimento alla esistenza o meno della condizione necessaria per il riconoscimento o meno del beneficio in discorso, cioè la prognosi fausta o infausta in ordine al successivo comportamento dell’imputato; l’indagine del giudice del merito avrebbe dovuto avere ad oggetto la esistenza o meno di elementi atti a fare ritenere che, per il futuro, il V. si asterrà o meno dal commettere nuovamente reati.

Non ignora il Collegio che in relazione alla motivazione in tema di sospensione condizionale della pena questa Corte ha rilevato che le ragioni del diniego di essa possono anche ritenersi implicite nella motivazione con cui il giudice neghi le circostanze attenuanti generiche, richiamando i profili di pericolosità del comportamento dell’imputato, dal momento che il legislatore fa dipendere la concessione del predetto beneficio dalla valutazione degli elementi indicati dall’art. 113 c.p. (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 7 dicembre 2020, n. 34754; idem Sezione III penale, 13 giugno 2019, n. 26191); ma, si osserva ora, in relazione alla concessione o meno della sospensione condizionale della pena, siffatte valutazioni debbono essere compiute, sia pure sulla base del medesimo materiale dimostrativo relativa alla valutazione sulla gravità del trattamento sanzionatorio, nell’ottica della verifica della solidità del quadro dimostrativo dell’effettivo pericolo di recidivanza; non a caso nelle fattispecie oggetto degli arresti sopra indicati, i prevenuti erano, infatti, tutti soggetti già pregiudicati e, pertanto, in qualche modo già adusi al delinquere.

Nel caso che ora interessa, invece, il V. ha subito solo alcune lontane condanne per reati bagatellari, in relazione alle quali ha beneficiato solamente una volta della sospensione condizionale della pena, in relazione peraltro ad un reato successivamente amnistiato.

Tanto considerato, si rileva che nel caso in esame gli elementi dimostrativi ad altro fine segnalati dalla Corte di Potenza non appaiono tali da giustificare, a fronte di un soggetto apparentemente non proclive, quanto meno nell’attualità, al delinquere, la deduzione da essi (ed unicamente da essi non avendone la Corte territoriale segnalati altri), in assenza di un’esplicita motivazione che renda chiare le ragioni di tale convincimento in capo al giudice del merito, di una prognosi infausta in ordine al futuro comportamento dell’imputato.

Anche sotto il profilo adesso illustrato la sentenza impugnata deve, perciò, essere annullata con rinvio alla Corte di Salerno che provvederà, tenuto conto di quanto segnalato, al riguardo.

Considerato che i motivi di ricorso accolti hanno ad oggetto esclusivamente aspetti, riguardanti il trattamento sanzionatorio, logicamente subordinati all’avvenuta affermazione della penale responsabilità dell’imputato, questa, visto l’art. 624 c.p.p. non intaccata dall’avvenuto annullamento della sentenza della Corte lucana, deve essere considerata oramai definitivamente accertata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla confisca ed alla concedibilità della sospensione condizionale della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Salerno.

Rigetta il ricorso nel resto.

Visto l’art. 624 c.p.p., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022


COMMENTO:

on la sentenza n. 4456 emessa dalla Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione in data 9 febbraio 2022, viene fatta chiarezza sul rapporto tra i reati tributari e l’ipotesi di confisca prevista ai sensi dell’art. 12 bis del D.Lgs. 74 del 2000: non è confiscabile l’immobile donato ai figli, se non si dimostri che tale trasferimento ha come fine quello di sottrarre garanzie ai danni dell’Erario. Più nello specifico i Giudici di legittimità si sono pronunciati su un caso in cui un contribuente era stato in precedenza condannato ai dell’art. 10 ter del D.Lgs. N. 74 del 2000 per omesso versamento di quanto da lui dovuto, in qualità di rappresentante di una società. Il ricorrente, a seguito della condanna nei primi due gradi di giudizio, adiva la Corte di Cassazione, lamentando la non corretta applicazione della confisca per equivalente in forza della quale erano stati confiscati degli immobili precedentemente donati ai figli. Il ricorrente, in particolare, eccepiva che gli immobili in questione erano stati donati in un periodo antecedente a quello in cui era stato disposto il sequestro preventivo. Conseguentemente, i giudici non avrebbero potuto dimostrare che tale atto di liberalità fosse stato animato dal mero scopo di sottrarre beni all’Erario. 

Nella fattispecie era acclarato che il ricorrente non era il proprietario dei beni confiscati, essendo stati questi dal medesimo destinati ai figli, terzi apparentemente estranei rispetto al reato commesso, in una data precedente al provvedimento di sequestro preventivo che li aveva colpiti. Secondo i giudici di merito, l’animus alla base della donazione effettuata dall’imputato era mosso da una finalità strumentale: poiché l’obiettivo consisteva nel sottrarre i beni come garanzia patrimoniale per obbligazione tributaria che gravava sul ricorrente. 

La Corte territoriale “in termini di indimostrata presupposizione” rilevava in sostanza il c.d. “consilium fraudis” sia del donante che dei donatari. Secondo gli Ermellini, però, si trattava di mera illazione, posto che il cedente avrebbe potuto cedere il bene, senza averne mantenuto l’effettiva disponibilità con un’unica finalità: preferire la posizione economica dell’Erario a quella di altro soggetto. Infatti la stessa Corte di legittimità riduceva il caso di specie ad una ipotesi “meramente assertiva priva di ampia affidabilità, posto che il cedente potrebbe avere realmente ceduto il bene, senza averne mantenuto alcuna effettiva disponibilità solo al fine di preferire a quella dell’Erario la posizione economica di altro soggetto; condotta questa in esito alla quale non ci sarebbero gli elementi per ritenere sussistere le condizioni per procedere, secondo i termini di cui al citato D. Lgs. N. 74 del 2000, art. 12-bis alla confisca per equivalente di un valore pari all’importo del profitto o del prezzo conseguiti tramite la commissione del reato”.

Francesco Paolo Ledda

Avvocato Pisa