Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, sez. II, sent., 18 aprile 2025 n. 380
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La società E. S.p.A. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Ascoli Piceno, n. 285/2/2021, pronunciata in data 7 giugno 2021 e depositata in data 21 luglio 2021.
La vicenda oggetto del presente giudizio ha avuto origine da avviso di accertamento n. ——/2020 notificato il 12 novembre 2020 dal Comune di Omissis per omessa dichiarazione e omesso versamento IMU e TASI, per gli anni 2016, 2017, 2018 e 2019, con riferimento a due piattaforme marine per l’estrazione di idrocarburi, denominate “Jole 1” e “Fabrizia 1”, che si trovano nelle acque territoriali, ad alcuni chilometri dalla costa, in corrispondenza del Comune di Omissis.
La società contribuente impugnava l’avviso di accertamento per plurimi motivi e concludeva chiedendo l’annullamento dell’atto impositivo con vittoria di spese.
Resisteva il Comune con proprie controdeduzioni, sostenendo la correttezza del proprio operato e contestando integralmente quanto sostenuto dalla controparte; concludeva, pertanto, chiedendo il rigetto del ricorso e la condanna della parte ricorrente alle spese di giudizio.
Si pronunciava la Commissione Tributaria Provinciale che, con la sentenza sopra richiamata, accoglieva parzialmente il ricorso della società contribuente, disapplicando le sole sanzioni quale conseguenza dell’oggettiva incertezza normativa vigente sulla disciplina applicabile e accogliendo per il resto.
La società contribuente deposita appello avverso la detta sentenza, eccependone la erroneità e chiedendone la riforma per la parte ad essa sfavorevole.
Si costituisce quindi in giudizio il Comune di Omissis chiedendo il rigetto dell’appello proposto da controparte con condanna alle spese di lite.
In data 7 marzo 2025 parte appellante deposita proprie memorie, confermando le proprie esperite difese e insistendo per le conclusioni come in atti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Letti gli atti e i documenti di causa, esaminati i motivi delle impugnazioni, il Collegio ritiene che l’appello non sia meritevole di accoglimento nei termini di seguito precisati.
La società contribuente propone appello avverso la sentenza in oggetto, chiedendone la riforma e deducendo
1) sui motivi di ricorso subordinati rigettati dalla Commissione Tributaria Provinciale;
2) sulla carenza del potere di imposizione del Comune di Omissis sulle piattaforme accertate;
3) sulla carenza del presupposto oggettivo per l’applicazione dell’imposta;
4) sull’esenzione delle piattaforme;
5) sulla recente giurisprudenza di merito che, nel negare l’assoggettamento ad ICI e IMU delle piattaforme, evidenzia le lacune e gli errori in cui incorrono le sentenze della Cassazione nn. 3618, 15509 e 15510 del 2016;
6) sulle norme successive alle (o comunque non esaminate dalle) sentenze di Cassazione nn. 3618, 15509 e 15510 del 2016 che confermano l’interpretazione della disciplina IMU sostenuta dalla contribuente in ordine alla non tassabilità delle piattaforme marine.
Il primo motivo di appello – “sui motivi di ricorso subordinati rigettati dalla Commissione Tributaria Provinciale” – attiene all’erroneità e alla illegittimità degli importi accertati in capo alla società appellante, in quanto concessionaria, nonché all’erroneità di non aver quantomeno decomputato alcune voci di spesa (sea lines, spese di perforazione, canoni concessori, ecc.) dalla base imponibile. Con riferimento a tale ultimo aspetto, l’odierna appellante eccepisce che la statuizione di prime cure deve essere disattesa a motivo del fatto che non ha tenuto nel debito conto che ai fini di determinare la base imponibile (tramite stima diretta per gli immobili censibili nelle categorie catastali dei gruppi D ed E) devono escludersi i macchinari, i congegni, le attrezzature ed gli altri impianti, funzionali allo specifico processo produttivo, così riducendosi il perimetro della stessa nozione di fabbricato ai fini catastali e, conseguentemente, lo stesso presupposto IMU.
Questa Corte rileva che, ai sensi dell’art. 3 del d. lgs. 504/1992, ratione temporis vigente, la legittimazione passiva della società contribuente discende dalla non contestata posizione di concessionaria e la determinazione del tributo è avvenuta, in assenza di accatastamento delle piattaforme e in difetto della presentazione di dichiarazione IMU, sulla scorta dei dati contabili dalla stessa resi disponibili, in conformità dei criteri stabiliti dall’art. 7, co. 3, del d. l. n. 333/1992 e tenendo conto che le piattaforme marine sono opifici complessi costituiti da plurimi elementi strutturalmente connessi che ne determinano la qualità, l’utilità e conseguentemente il valore come emergente dai suddetti dati contabili.
Il primo motivo è infondato.
Il secondo motivo di appello – “sulla carenza del potere di imposizione del Comune di Omissis sulle piattaforme accertate” – verte sull’asserita carenza della soggettività attiva d’imposta del Comune di Omissis sul tratto di mare territoriale su cui insistono le piattaforme, potendo il potere di imposizione del Comune essere esercitato solo nell’ambito del territorio comunale e non sul mare territoriale adiacente.
Questo Collegio ritiene innanzitutto che, in assenza di espressa previsione normativa, non possa in alcun modo escludersi una potestà anche degli enti locali nell’ambito del mare territoriale, fino ad una distanza di 12 miglia marine e nei limiti derivanti dalle convenzioni internazionali. Peraltro tale risulta essere l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte che, con la sentenza n. 3618/2016, ha così statuito “Deve ritenersi esistente anche una potestà degli enti locali nell’ambito del mare territoriale, fino ad una distanza di 12 miglia marine, paragonabile a quella esercitata sul proprio territorio, con estensione della sovranità dello Stato e, per esso, dei relativi Comuni, sul mare territoriale, pur con i limiti derivanti dalle convenzioni internazionali. Anche se il mare non è ricompreso tra i beni del demanio marittimo, che concernono solo il lido, la spiaggia e le terre emerse, tuttavia i beni infissi nel fondo del mare territoriale sono equiparabili a quelli del demanio marittimo (cfr art. 29 c.n.). Le strutture stabilmente infisse nel fondo del mare territoriale sono, quindi, soggette al potere impositivo dell’ente territoriale di riferimento, rientrando nella definizione di fabbricati, e sono soggette ad ICI ai sensi del D. Lgs. n. 504 del 1992 , art. 3, come modificato dalla L. n. 368 del 2000“.
D’altronde il fatto che le norme conferiscano espressamente allo Stato determinati poteri autoritativi aventi ad oggetto attività che si svolgono sul mare territoriale non può essere interpretato nel senso che sia impedito ad altre autorità amministrative, quali i Comuni, di esercitare il loro potere sul medesimo bene. A tale considerazione occorre poi aggiungere il fatto che l’IMU non è un tributo proprio degli enti locali, quanto un’imposta istituita dallo Stato con propria legge, che attribuisce ai Comuni la sola potestà di disciplinarne gli aspetti applicativi.
Pertanto, nonostante la mancanza di espressi riferimenti normativi, è indubbio che l’ente comunale “abbia e debba poter esercitare competenze e funzioni amministrative anche sul mare territoriale” (si pensi, per altro verso, a mero titolo esemplificativo alle attività burocratiche dei municipi legate alla dispersione in mare delle ceneri dei defunti, alla possibilità di regolarizzare installazioni per bagnanti, alla pur possibile nascita o morte nel mare territoriale, ecc.). In tal senso vanno peraltro le argomentazioni espresse dalla sentenza della Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 13794/2005) che riconosce dignità di territorio comunale al mare prospiciente la costa del Comune sino al limite del mare territoriale e, tra l’altro, specifica come “sull’intero territorio dello Stato, ivi compreso il mare territoriale, convivono e si esercitano i poteri dello stato contestualmente ai poteri dell’ente regione e degli enti locali”.
Il secondo motivo è infondato.
Con il terzo motivo parte appellante lamenta la “carenza del presupposto oggettivo per l’applicazione dell’imposta” per difetto della natura immobiliare delle piattaforme marine, perché le stesse non possono essere iscritte in catasto e perché non risulterebbero idonee a produrre un reddito proprio.
In relazione al primo profilo relativo alla natura immobiliare delle piattaforme marine deve rilevarsi che le stesse sono senz’altro opere complesse saldamente ancorate/infisse nel fondale marino. Pertanto la natura immobiliare delle piattaforme marine emerge in tutta la sua evidenza dalla semplice lettura dell’art. 812 cod. civ. che così recita “Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo o sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. Sono mobili tutti gli altri beni”.
In relazione all’ulteriore profilo legato alla asserita non accatastabilità, questa Corte rileva che la tesi non può essere accolta innanzitutto perché
– ai sensi dell’art. 29 del codice della navigazione “Le costruzioni e le altre opere appartenenti allo Stato, che esistono entro i limiti del demanio marittimo e del mare territoriale, sono considerate come pertinenze del demanio stesso”, pertanto i beni stabilmente infissi/ancorati nel mare territoriale sono equiparati ai beni del demanio marino;
– il presupposto impositivo IMU è il possesso di immobili “… siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati …” (art. 1, d. lgs. 504/1992);
– le piattaforme marine non risultano annoverate tra gli immobili che per espressa previsione normativa beneficiano di esenzione ai fini IMU, dal che ne discende comunque l’assoggettabilità a IMU delle piattaforme in questione.
In secondo luogo e ad abundantiam occorre anche rilevare che – la disciplina per l’iscrizione catastale è dettata dal R.d.l n. 652/1939, poi convertito nella l. n. 1249/1939 relativa alla “Costituzione del catasto generale dei fabbricati”, che all’art. 4, ai fini dell’individuazione delle unità da iscrivere in catasto, così recita: “Si considerano come immobili urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costituite, diversi dai fabbricati rurali. Sono considerati come costruzioni stabili anche gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente assicurati al suolo”;
– “le piattaforme petrolifere, così come le centrali a cui sono annesse, sono classificabili nella categoria D/7, svolgendosi operazioni qualificabili quali attività industriali (es: trattamento preliminare degli idrocarburi) quali fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di vita industriale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni” (Cassazione, sentenza 3618/2016);
– per gli impianti rientranti in una delle categorie catastali del gruppo D, la base imponibile, in mancanza di rendita catastale, è costituita dal valore di bilancio, pertanto le piattaforme marine risulterebbero comunque accatastabili.
Di alcun rilievo anche l’ultimo profilo relativo all’asserita inidoneità delle piattaforme a produrre un reddito proprio, atteso che è indubitabile che le piattaforme marine costituiscano opifici industriali complessi e polivalenti finalizzati allo svolgimento di un’attività produttiva a destinazione imprenditoriale. L’eccezione è d’altronde superata dalla stessa asserzione della società appellante che nel proprio atto di appello, fra gli altri, così scrive “… gli impianti funzionali ad un processo produttivo (e tra essi, per le ragioni che vedremo, rientrano le piattaforme petrolifere)” e, più avanti, “… sono funzionalizzate allo specifico processo produttivo di estrazione degli idrocarburi” così riconoscendo la natura produttiva/industriale/imprenditoriale delle piattaforme.
Il terzo motivo è infondato.
Con il quarto motivo la società contribuente eccepisce la “esenzione delle piattaforme” marine ritenendole accatastabili in categoria E/3 (esenti) e non D/7.
Stante la indiscussa natura di opificio industriale complesso e polivalente finalizzato allo svolgimento di un’attività produttiva a destinazione imprenditoriale, anche il presente rilievo risulta privo di pregio sol che si consideri che l’art. 2, co. 40, del d.l. n. 262/2006 dispone che “Nelle unità immobiliari censite nelle categorie catastali E/1, E/2, E/3, E/4, E/5, E/6 ed E/9 non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale, ad ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale o reddituale”.
Il quarto motivo è infondato.
Con il quinto motivo la società appellante deduce circa “la recente giurisprudenza di merito che, nel negare l’assoggettamento ad ICI e IMU delle piattaforme, evidenzia le lacune e gli errori in cui incorrono le sentenze della Cassazione nn. 3618, 15509 e 15510 del 2016”.
In premessa, la società appellante rappresenta, in particolare, che “Sino a quando viviamo in un paese di civil law, le sentenze non valgono che per il caso da esse decise …” chiede pertanto “a codesta on.le Commissione di applicare la legge vigente (segnatamente, il d. lgs. n. 504/1992, come richiamato dalla successiva disciplina IMU), non regulae iuris tratte da sentenze che si sono allontanate dal dato normativo”.
Proprio nel rispetto di quanto rappresentato da parte appellante, questa Corte ritiene di doversi attenere ai dati normativi come sin qui prospettati che conducono a ritenere corretto e legittimo l’operato del Comune come proposto con l’avviso di accertamento originariamente impugnato.
Il quinto motivo è infondato.
Con il sesto motivo parte appellante deduce circa “le norme successive alle (o comunque non esaminate dalle) sentenze di Cassazione nn. 3618, 15509 e 15510 del 2016 che confermano l’interpretazione della disciplina IMU sostenuta dalla contribuente in ordine alla non tassabilità delle piattaforme marine”.
In primo luogo, parte appellante afferma l’intassabilità delle piattaforme marine che in quanto impianti tecnici rientrerebbero nella previsione di cui alla l. n. 208/2015.
Il rilievo non è meritevole di accoglimento poiché ai fini che qui interessano il riferimento normativo è improprio.
Infatti la l. 208/2015 attiene alla mera determinazione, tramite stima diretta, della rendita catastale degli immobili a destinazione speciale e peraltro prevede che, a tal fine, il carattere di amovibilità del macchinario/impianto, cioè l’impossibilità del bene di essere smontato e ricollocato in un’altra unità produttiva mantenendo la sua funzionalità, attesta che il macchinario costituisce un elemento stabile del fabbricato produttivo (nel caso di specie, della piattaforma). Nel caso di specie e in assenza di iscrizione catastale della piattaforma, per effetto del rinvio operato dall’art. 13, co. 3, del d. l. n. 201/2011 all’art. 5, co. 3, del d. lgs. n. 504/1992, ai fini dell’IMU e della TASI, trova invece applicazione il disposto secondo il quale “Per i fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, fino all’anno nel quale i medesimi sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, il valore è determinato, alla data di inizio di ciascun anno solare ovvero, se successiva, alla data di acquisizione, secondo i criteri stabiliti nel penultimo periodo del comma 3, dell’articolo 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 …”, vale a dire secondo i valori contabili come correttamente effettuato dal Comune appellato.
In secondo luogo, parte appellante rappresenta lo ius superveniens di cui all’art. 38 del d. l. n. 124/2019, che, introducendo a partire dal 2020 l’imposta immobiliare sulle piattaforme marine (IMPI), confermerebbe la non tassabilità delle stesse nei periodi antecedenti oggetto del presente giudizio.
A tal proposito, questa Corte rileva che proprio l’art. 38 surrichiamato, contrariamente a quanto rappresentato da parte appellante, conferma l’assoggettabilità a IMU/TASI delle piattaforme marine, nei periodi di imposta antecedenti il 2020. Esso introduce, infatti, a decorrere dall’anno 2020, l’imposta immobiliare sulle piattaforme marine (IMPI) “in sostituzione di ogni altra imposizione immobiliare locale ordinaria” sulle piattaforme petrolifere, confermando per tale via che, per le annualità antecedenti al 2020, le suddette unità erano soggette alla disciplina ordinaria dei tributi locali IMU e TASI. La norma in questione si limita a dettare una disciplina speciale dell’imposizione immobiliare locale sulle piattaforme petrolifere, devolvendo parte del gettito allo Stato e sottraendo ai Comuni, diversamente che per il passato, ogni margine di manovrabilità del tributo così introdotto.
Il sesto motivo è infondato.
Le questioni come sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati esaminati tutti gli aspetti rilevanti per la definizione del procedimento; gli argomenti di doglianza eventualmente non espressamente esaminati sono stati da questa Corte ritenuti assorbiti o non rilevanti ai fini della decisione e comunque non idonei a condurre ad una conclusione di segno diverso. La decisione, pertanto, assorbe e supera tutte le eventuali ulteriori domande formulate nel giudizio.
La decisione dei Giudici di prima istanza deve pertanto trovare integrale conferma, anche in relazione alla disapplicazione delle sanzioni in ragione dell’assenza di specifica impugnazione del capo relativo.
Per tutto quanto sopra, questa Corte rigetta l’appello con conseguente integrale conferma della sentenza dei Giudici di prime cure. Le spese di lite seguono la prevalente soccombenza e si liquidano come indicato in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia, delle difese svolte.
P.Q.M.
la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado delle Marche, come in motivazione, rigetta l’appello.
Condanna la società appellante alla rifusione delle spese di lite che liquida per il presente grado giudizio in € 8.000,00 (euro ottomila/00) oltre accessori come per legge.
Così deciso in Ancona, nella Camera di Consiglio del 18 marzo 2025.
COMMENTO –La sentenza n. 380 del 18 aprile 2025 della Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche offre lo spunto per una riflessione di ampio respiro sull’imposizione immobiliare delle piattaforme marine destinate all’estrazione di idrocarburi. Nonostante il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, il tema resta controverso in sede di merito, con esiti difformi che hanno visto in più occasioni i Comuni soccombenti. La decisione marchigiana permette dunque di mettere a fuoco non soltanto i singoli motivi di ricorso proposti dalla società concessionaria, ma anche il quadro più ampio dei rapporti tra norme catastali, imposte patrimoniali e potestà impositiva locale.
Il contenzioso trae origine da avvisi di accertamento IMU e TASI emessi da un Comune costiero nei confronti della società titolare di due piattaforme marine collocate a breve distanza dalla costa, ma comunque entro il limite delle dodici miglia che definisce il mare territoriale dello Stato. Gli avvisi si riferivano alle annualità 2016-2019 e si fondavano sulla qualificazione delle piattaforme come immobili produttivi, inquadrati nella categoria catastale D/7. La Commissione tributaria provinciale, investita in primo grado, aveva riconosciuto la legittimità dell’imposizione, annullando però le sanzioni in considerazione della complessità interpretativa della materia e dell’incertezza normativa che l’ha a lungo caratterizzata. La società aveva dunque impugnato la decisione in appello, articolando una serie di motivi che la Corte marchigiana ha esaminato e respinto, confermando integralmente la legittimità degli avvisi.
Il primo motivo di appello riguardava la determinazione della base imponibile. La società sosteneva che nel valore fossero state incluse componenti che non avrebbero dovuto concorrere all’imposta. Tra queste vi erano le cosiddette sea lines, condotte sottomarine che collegano la piattaforma agli impianti di terra e che svolgono una funzione essenziale per il trasporto delle materie prime estratte; le spese di perforazione, cioè i costi iniziali sostenuti per la realizzazione dei pozzi; i canoni concessori dovuti allo Stato per l’utilizzo del giacimento; e altre voci di costo strettamente connesse al processo produttivo. L’argomentazione della società si fondava sull’analogia con la disciplina introdotta dalla legge n. 208 del 2015, che, ai fini della determinazione della rendita catastale di taluni immobili speciali, aveva escluso dal computo macchinari e impianti funzionali al ciclo produttivo. Secondo la contribuente, un criterio analogo avrebbe dovuto applicarsi anche nella determinazione della base imponibile ai fini IMU.
La Corte marchigiana ha ritenuto infondato il motivo. Ha osservato che, in mancanza di rendita catastale, l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992 prevede che il valore dei fabbricati appartenenti al gruppo D sia determinato sulla base dei valori contabili iscritti in bilancio. Questo criterio considera l’opificio industriale come un insieme unitario, senza possibilità di scomporlo nelle sue parti funzionali. In questa prospettiva, le sea lines e le altre voci contestate non costituiscono elementi autonomi ma parti integranti del complesso produttivo. La soluzione si inserisce nel solco tracciato dalla Cassazione con le sentenze nn. 3618, 15509 e 15510 del 2016, che avevano chiarito come l’intero valore del bene, comprensivo degli impianti strettamente funzionali, debba concorrere alla determinazione della base imponibile. Alcune pronunce di merito, specie in Emilia-Romagna, avevano invece accolto la tesi dello scorporo, annullando gli avvisi e determinando la soccombenza dei Comuni. Si tratta tuttavia di decisioni isolate, che non hanno trovato conferma in sede di legittimità.
Il secondo motivo di appello riguardava la potestà impositiva del Comune sul mare territoriale. La società sosteneva che i Comuni non potessero esercitare alcuna potestà al di fuori delle terre emerse e che le piattaforme, trovandosi in mare aperto, non rientrassero nel territorio comunale. La Corte ha respinto l’argomento, richiamando la giurisprudenza della Cassazione, che già con la sentenza n. 13794 del 2005 aveva chiarito come il mare territoriale, fino al limite delle dodici miglia, faccia parte del territorio dello Stato. Tale principio è stato ribadito nel 2016 con la sentenza n. 3618, che ha affermato la legittimità della potestà impositiva dei Comuni sulle piattaforme situate nel mare territoriale prospiciente. L’IMU, quale imposta statale applicata a livello comunale, colpisce infatti tutti gli immobili siti nel territorio dello Stato, nozione che non può escludere il mare territoriale. Alcune decisioni di merito, in particolare in Abruzzo, hanno invece accolto la tesi della contribuente, ritenendo necessaria una norma espressa per estendere la potestà impositiva ai beni situati in mare. Anche in questi casi, tuttavia, la Cassazione ha successivamente riaffermato la validità dell’impostazione estensiva.
Il terzo motivo investiva il presupposto oggettivo dell’imposta. La società negava la natura immobiliare delle piattaforme, ne contestava l’accatastabilità e sosteneva che fossero prive di autonomia reddituale. La Corte ha richiamato l’art. 812 del codice civile, che qualifica come immobili le costruzioni stabilmente infisse al suolo, comprese quelle unite a scopo transitorio e persino gli edifici galleggianti stabilmente assicurati. Non vi è dubbio che le piattaforme, essendo stabilmente ancorate al fondale marino, rientrino in questa definizione. Sul piano catastale, l’art. 4 del r.d.l. n. 652 del 1939 include tra i fabbricati tutte le costruzioni stabili di qualunque natura, e la Cassazione ha già affermato che le piattaforme vanno inquadrate nella categoria D/7, relativa agli opifici industriali. Quanto alla redditività, la Corte ha osservato che le piattaforme hanno una funzione produttiva chiara e indiscutibile, rappresentando beni patrimoniali idonei a esprimere capacità contributiva. L’argomento della mancanza di redditività autonoma, accolto in alcune decisioni siciliane, non ha trovato riscontro in sede di legittimità: la Cassazione ha sempre valorizzato la destinazione produttiva come criterio sufficiente a giustificare l’imposizione.
Il quarto motivo riguardava l’inquadramento catastale. La società chiedeva che le piattaforme fossero classificate nella categoria E/3, così da beneficiare dell’esenzione. È opportuno ricordare che le categorie catastali E comprendono immobili destinati a servizi di interesse pubblico, privi di autonoma capacità reddituale, come stazioni ferroviarie, aeroporti e fari. La categoria D/7, invece, riguarda gli opifici industriali, cioè immobili produttivi con autonomia funzionale e reddituale. La Corte ha escluso che le piattaforme possano rientrare tra gli immobili esenti, richiamando l’art. 2, comma 40, del d.l. n. 262 del 2006, che vieta di inserire nelle categorie E immobili a destinazione industriale o commerciale. La richiesta della società è stata dunque respinta, e la classificazione in D/7 confermata. Anche su questo punto, alcune decisioni di merito avevano tentato di estendere l’esenzione, ma la Cassazione ha costantemente ribadito che le piattaforme vanno considerate opifici industriali a tutti gli effetti.
Il quinto motivo faceva leva sulle decisioni di merito favorevoli ai contribuenti. La società sosteneva che le sentenze della Cassazione del 2016 fossero isolate e che non dovessero orientare l’interpretazione. La Corte marchigiana ha ribadito invece l’autorevolezza di quegli arresti, ricordando che le pronunce di legittimità hanno chiarito la natura immobiliare delle piattaforme e la loro imponibilità. Alcune commissioni tributarie emiliano-romagnole avevano annullato avvisi di accertamento ritenendo che l’istituzione dell’IMPI nel 2020 fosse la conferma della precedente non tassabilità. Si tratta tuttavia di interpretazioni minoritarie, che non hanno trovato seguito in Cassazione.
Il sesto motivo riguardava lo ius superveniens, richiamando sia la legge n. 208 del 2015 sia l’art. 38 del d.l. n. 124 del 2019. La Corte ha precisato che la prima disposizione attiene unicamente al calcolo delle rendite catastali e non ha alcuna incidenza sulla debenza dell’imposta, mentre la seconda ha istituito l’IMPI, che a partire dal 2020 ha sostituito IMU e TASI sulle piattaforme. L’IMPI ha natura innovativa e non retroattiva: non può essere letto come riconoscimento della non tassabilità pregressa. La Cassazione ha ribadito questa impostazione con le sentenze del 2020 e del 2021, affermando che le piattaforme restano imponibili per le annualità precedenti all’introduzione del nuovo tributo.
Dall’analisi complessiva emerge che la sentenza marchigiana si colloca nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, confermando la tassabilità delle piattaforme a fini IMU e TASI per gli anni 2016-2019 e respingendo tutte le argomentazioni difensive della società. Essa contribuisce a ridurre l’incertezza generata dalle pronunce difformi di merito, che in diverse regioni hanno portato alla soccombenza degli enti locali. È significativo che la Corte marchigiana abbia affrontato con chiarezza ciascun motivo, offrendo un percorso argomentativo coerente e privo di ambiguità.
Sul piano sistematico, il caso conferma la centralità di alcuni principi interpretativi: la nozione civilistica di bene immobile è ampia e consente di ricomprendere anche beni non convenzionali come le piattaforme; la mancanza di rendita catastale non esclude l’imposizione, poiché la legge prevede il criterio contabile; le categorie catastali esenti non possono essere piegate a fini elusivi; la potestà comunale si estende al mare territoriale; l’IMPI ha natura innovativa e non retroattiva. Si tratta di punti che la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito e che la sentenza marchigiana recepisce integralmente.
Non meno rilevanti sono le conseguenze pratiche per i Comuni. La possibilità di assoggettare a IMU le piattaforme fino al 2019 ha rappresentato per gli enti costieri una fonte di gettito significativa, spesso in grado di incidere sensibilmente sul bilancio. L’introduzione dell’IMPI ha trasferito il gettito allo Stato, riducendo l’autonomia finanziaria degli enti locali. L’incertezza giurisprudenziale ha tuttavia generato difficoltà nella programmazione finanziaria, poiché i Comuni, temendo la soccombenza, in alcuni casi hanno evitato di iscrivere in bilancio entrate che avrebbero potuto risultare controverse. La chiarezza offerta dalla Cassazione e recepita dalla sentenza marchigiana contribuisce a restituire certezza a un ambito che per anni è stato fonte di contenzioso.
Dott. Francesco Foglia