SOMMARIO: 1. L’ambito temporale di applicazione della norma. 2. Il divieto di giuramento. 3. L’ammissione della prova testimoniale scritta anche senza l’accordo delle parti. 4. Le modalità operative della testimonianza scritta. 5. La portata innovativa della disposizione. 6. Rapporti tra la prova testimoniale scritta e l’atto pubblico. 7. Ulteriori problematiche sollevate dalla nuova disposizione.

  1. La portata innovativa della disposizione.

I primi commenti, all’indomani dell’entrata in vigore del “nuovo” comma 4 dell’art. 7 D.lgs. 546/1992, ne avevano generalmente “ridimensionato” la portata innovativa, alla luce del fatto che, anche sotto la vigenza della disposizione precedente, l’orientamento della giurisprudenza tributaria assolutamente dominante limitava il divieto di testimonianza alla sola prova testimoniale da assumere in udienza, con le garanzie del contraddittorio, mentre ammetteva pacificamente l’utilizzo ai fini della decisione delle dichiarazioni rese dai privati agli organi dell’Amministrazione finanziaria nella fase amministrativa dell’accertamento. Queste ultime, già anteriormente alla riforma di cui alla Legge 31 agosto 2022 n. 130, assumevano quindi rilievo di elementi indiziari, idonei a concorrere alla formazione del convincimento del giudice, unitamente ad altri elementi (si vedano, in tal senso, ex multis, Cass. civ., sez. V, 07 aprile 2017 n. 9080; Cass. civ., sez. V, ord., 16 maggio 2019 n. 13174 e Cass. civ., sez. V, ord., 14 luglio 2021 n. 20033).

Per tali motivi, almeno in un primo momento non si è generalmente percepita la portata “innovativa” della riforma dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 rispetto al passato.

In realtà la predetta norma, seppure non tale da segnare una vera e propria “rottura” rispetto al passato, contiene comunque alcuni significativi elementi di innovazione, che si percepiscono soprattutto facendo riferimento a quella giurisprudenza di merito, formatasi nell’ambito del processo civile, che più volte ha messo in evidenza le significative differenze tra le mere “dichiarazioni testimoniali scritte”, acquisite al processo come prove documentali, al di fuori del contraddittorio, e aventi perciò valore meramente indiziario, e la testimonianza scritta di cui all’art. 257-bis c.p.c., quale vera e propria prova formata nel contraddittorio tra le parti (al pari della “tradizionale” testimonianza in forma orale).

Nell’ambito del processo civile, il principio del libero convincimento del giudice consente senza dubbio di porre a fondamento della decisione anche prove non espressamente previste dal Codice di rito, purché venga fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione. Tuttavia, deve escludersi che le prove c.d. “atipiche” possano avere l’effetto di aggirare divieti o preclusioni e di introdurre surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richiede adeguate garanzie formali. 

In applicazione di tale principio, con particolare riferimento agli scritti del terzo, sub specie di “deposizioni testimoniali scritte”, la giurisprudenza ha ritenuto che la loro piena efficacia probatoria sia necessariamente subordinata alla loro acquisizione al procedimento mediante prova orale oppure, dopo il 4 luglio 2009, mediante ricorso all’art. 257-bis c.p.c. (in tal senso, Tribunale di Varese, 09 aprile 2010).

Parte della giurisprudenza si è addirittura “spinta” a ritenere che l’introduzione dell’art. 257-bis c.p.c. abbia privato di qualsiasi efficacia giuridica, anche di mera “prova atipica” indiziaria, la dichiarazione scritta acquisita senza le forme previste dalla predetta norma e prodotta in causa come un mero documento. In tal senso Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, Sezione unica, 23 gennaio 2013 n. 20, secondo cui “L’art. 257 bis c.p.c. ha codificato la testimonianza scritta, precedentemente considerata alla stregua di una prova atipica costituita dalla dichiarazione scritta del terzo. Alla luce della nuova previsione dell’art. 257 bis c.p.c., la dichiarazione di un terzo, che la parte intenda produrre in giudizio, non può più rivestire alcuna rilevanza se non sia formata secondo il procedimento stabilito per il nuovo istituto, non essendovi più spazio per una mera dichiarazione scritta, sostitutiva della prova testimoniale”.

Non smentisce tale assunto neppure l’ ordinanza Tribunale di Belluno, 10 ottobre 2011, che ha ammesso l’acquisizione di dichiarazioni scritte di terzi assunte al di fuori dei limiti di cui all’art. 257-bis c.p.c. e senza l’utilizzo dell’apposito modello di cui all’art. 103-bis disp. att. c.p.c. unicamente nell’ambito dei procedimenti cautelari e possessori, nei quali la deformalizzazione dell’istruttoria può giustificare una maggiore “libertà di forme” rispetto al processo ordinario di cognizione (pur facendo salvo il requisito minimo dell’autenticazione della sottoscrizione del terzo, affinché ne sia provata la provenienza e la veridicità formale). 

Nell’ambito del processo ordinario di cognizione, invece, le norme di cui agli artt. 257-bis c.p.c. e 103-bis disp. att. c.p.c. tornano pienamente applicabili: di conseguenza, solo la testimonianza scritta assunta in conformità alle predette disposizioni può assumere efficacia di vera e propria “prova”, mentre le mere dichiarazioni scritte prodotte in causa sono inevitabilmente destinate a restare prive di qualsiasi rilievo o, tutt’al più, a rilevare come meri “indizi” o “argomenti di prova”, utili unicamente a corroborare il convincimento del giudice già raggiunto in base ad altre prove, ma in nessun caso sufficienti da sole a fondare tale convincimento (in tal senso Cass. civ., sez. VI-2, ord., 18 novembre 2021 n. 35242).

Ulteriore conferma di tale conclusione si trae infine anche dalla più recente Tribunale di Milano, 08 aprile 2013, in materia di valore probatorio dei rapporti investigativi.

La predetta pronuncia evidenzia infatti come l’attività di investigatore privato sia diretta alla produzione di un servizio di acquisizione di dati e di elaborazione degli stessi e rimanga dunque confinata nell’ambito delle attività senza valenza pubblicistica, costituendo attività professionale collocabile nel settore del commercio. 

Da ciò consegue che i rapporti formati dall’investigatore – su mandato di una delle parti processuali, per ottenere argomenti da utilizzare avverso la controparte – sono qualificabili, quanto alla valenza probatoria, in termini di “scritti del terzo” e rappresentano, dunque, una prova atipica. 

Si versa, in particolare, nell’ambito degli scritti formati in funzione testimoniale, poiché redatti da terzi nell’interesse della parte a formare il convincimento del giudice circa una tesi sostenuta. 

Una volta qualificate le relazioni degli investigatori privati come scritti del terzo in funzione di supporto testimoniale alla tesi della parte che li ha incaricati, ne consegue che, nel processo civile, non possono essere utilizzate le dichiarazioni testimoniali degli investigatori ma, semmai, i fatti precisi, circostanziati e chiari che il terzo (investigatore) abbia appreso con la propria percezione diretta: e ciò mediante la raccolta della prova orale nel processo.

Conseguentemente, è inammissibile la richiesta istruttoria con cui l’istante si limiti a chiedere al giudice che l’investigatore venga a “confermare” il rapporto investigativo versato in atti; rapporto che, contenendo “fatti” non assunti in giudizio nel contraddittorio e con le forme di legge, non è utilizzabile.

La predetta differenza tra “dichiarazioni testimoniali scritte” e “testimonianza scritta” di cui all’art. 257-bis c.p.c. appare senza dubbio destinata ad assumere rilievo anche nel processo tributario, smentendo l’assimilazione tra quest’ultima e le dichiarazioni rese dai privati agli organi dell’Amministrazione finanziaria nella fase amministrativa dell’accertamento.

Anche nel processo tributario, solo la “testimonianza scritta” di cui all’art. 257-bis c.p.c. potrà assumere valore di “piena prova”, idonea anche da sola a fondare il convincimento del giudice.

Diversamente, le dichiarazioni rese dai privati agli organi dell’Amministrazione finanziaria nella fase amministrativa di accertamento risulteranno assimilabili a delle mere “dichiarazioni testimoniali scritte”, secondo parte della giurisprudenza di merito addirittura prive di qualsiasi efficacia giuridica (a maggior ragione dopo l’introduzione della “testimonianza scritta”) o comunque, anche in base all’indirizzo più “permissivo”, aventi valore di meri “indizi” o “argomenti di prova”, e come tali utili tutt’al più a corroborare un convincimento che il giudice deve avere già formato in base a prove diverse.

  1. Rapporti tra la prova testimoniale scritta e l’atto pubblico.

Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la nuova formulazione dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 ammette la prova testimoniale scritta soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale

Queste ultime, infatti, in quanto coperte dalla fede privilegiata propria dell’atto pubblico (art. 2700 c.c.), non sono contestabili mediante una mera prova testimoniale, ma possono essere inficiate unicamente mediante lo strumento della querela di falso, per la quale resta ferma la giurisdizione esclusiva del Giudice ordinario, sub specie di Tribunale.

Pertanto, sotto tale profilo, la disposizione dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 non apporta alcuna particolare innovazione: qualora la parte contesti un documento coperto dalla fede privilegiata propria dell’atto pubblico, la stessa dovrà necessariamente proporre la querela di falso dinanzi al Tribunale competente e il processo tributario dovrà necessariamente essere sospeso (cd. “sospensione necessaria” di cui all’art. 39, comma 1, D.lgs. 546/1992) in attesa del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento per querela di falso, sulla quale il giudice tributario non può avere alcuna cognizione, neppure in via incidentale (art. 2, comma 3, D.lgs. 546/1992).

La testimonianza scritta risulterà invece pienamente ammissibile qualora la parte intenda contestare la veridicità intrinseca delle dichiarazioni verbalizzate o comunque tutti gli apprezzamenti valutativi non coperti dalla fede privilegiata.

Pertanto, in conclusione, lo strumento della testimonianza scritta di cui all’art. 257-bis c.p.c. non potrà essere utilizzato quando si intenda contestare il cd. “estrinseco” dell’atto pubblico, ossia:

  • la provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale che lo ha sottoscritto;
  • la data e il luogo in cui l’atto è stato redatto;
  • i fatti che il pubblico ufficiale attesta di avere compiuto;
  • i fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti dinanzi a sé;
  • le dichiarazioni delle parti, intese come fatto storico.

Diversamente, lo strumento della testimonianza scritta di cui all’art. 257-bis c.p.c.  potrà essere utilizzato quando si intenda contestare il cd. “intrinseco” dell’atto pubblico, ossia:

  • la veridicità delle dichiarazioni rese da terzi al pubblico ufficiale;
  • le valutazioni soggettive, gli apprezzamenti, i giudizi espressi dal pubblico ufficiale;
  • le dichiarazioni del pubblico ufficiale relative a fatti che egli stesso dichiara non essersi verificati alla sua presenza.
  1. Ulteriori problematiche sollevate dalla nuova disposizione.

Come è già emerso da questa breve disamina, la “nuova” formulazione dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 appare non priva di problematiche di coordinamento con la struttura del processo tributario, ed in particolare con la sua essenziale natura di processo documentale.

Il richiamo della predetta norma all’art. 257-bis c.p.c. presuppone in ogni caso, anche nell’ambito del processo tributario, un necessario preventivo vaglio di ammissibilità e rilevanza della prova testimoniale scritta da parte del giudice.

Sotto questo aspetto, la testimonianza scritta si discosta notevolmente dalla mera produzione in giudizio delle dichiarazioni rese dai privati agli organi dell’Amministrazione finanziaria nella fase amministrativa dell’accertamento, che vengono introdotte nel processo come prova documentale, senza alcun preventivo controllo di ammissibilità e rilevanza delle stesse rispetto all’oggetto del giudizio da parte del giudice.

La testimonianza scritta introdotta dal “nuovo” comma 4 dell’art. 7 D.lgs. 546/1992 non può al contrario prescindere da tale preventivo vaglio.

Ciò comporta la necessità, per la parte che intenda avvalersi di tale mezzo di prova, di farne specifica richiesta, deducendo la prova mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati per articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (art. 244 c.p.c.). 

L’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 non indica alcuna preclusione temporale per la richiesta di tale prova che dunque, almeno in primo grado, dovrebbe ritenersi ammissibile non solo nell’ambito degli atti introduttivi (i.e.: ricorso o ricorso-reclamo del contribuente; controdeduzioni della parte resistente), ma anche nelle eventuali successive memorie integrative, che possono essere depositate fino a dieci giorni liberi prima dell’udienza di trattazione del merito (art. 32, comma 2, D.lgs. 546/1992). 

Qualora l’esigenza della prova testimoniale sorgesse dalle difese avversarie, la norma non sembrerebbe precludere la sua deduzione neppure nelle brevi repliche, ammesse  fino a cinque giorni liberi prima della trattazione in camera di consiglio (art. 32, comma 3, D.lgs. 546/1992), o direttamente in udienza, nel caso di pubblica udienza (anche se la deduzione di una prova testimoniale per articoli separati e specifici in un verbale di udienza appare nella pratica quanto meno “difficoltosa”).

In grado di appello, deve ritenersi senza dubbio sempre ammissibile la riproposizione di una prova testimoniale già richiesta, ma respinta e/o pretermessa dal giudice di primo grado; viceversa, la deduzione di una “nuova” prova testimoniale, non articolata in primo grado, risulterebbe soggetta ai limiti previsti dall’art. 58, comma 1, D.lgs. 546/1992 per tutte le nuove prove, ad eccezione di quelle documentali (sempre ammissibili, ex comma 2 della predetta norma)- e, quindi, ammissibile solo nei casi in cui il giudice la ritenga necessaria ai fini della decisione oppure la parte dimostri di non averla potuta fornire nel precedente grado di giudizio per causa a sé non imputabile.

I capitoli di prova testimoniale articolati dalle parti dovranno essere esaminati dal giudice relativamente alla loro ammissibilità e rilevanza ai fini della decisione, con facoltà di esclusione dei testimoni sovrabbondanti ed obbligo di esclusione di coloro che non possono essere sentiti per legge (es.: soggetti incapaci).

Il richiamo dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 all’art. 257-bis c.p.c. comporta infatti, come logica conseguenza e nei limiti della compatibilità, l’implicito rinvio a tutte le disposizioni del Codice di procedura civile che regolano la testimonianza, sia orale che scritta, e dunque agli artt. 244-257 c.p.c.

Pertanto, dalla nuova formulazione della norma sembra potersi desumere che, nel caso in cui una delle parti richieda l’ammissione di una testimonianza scritta, il giudice tributario sia obbligato a decidere – mediante ordinanza- sulla relativa richiesta, tenendo una vera e propria udienza di ammissione della prova.

In tal caso, però, ben  difficilmente la trattazione del merito della controversia tributaria potrebbe esaurirsi in un’unica udienza, come ad oggi generalmente avviene.

Si renderà infatti necessaria una vera e propria udienza di ammissione della prova, nella quale il giudice tributario valuterà l’ammissibilità e la rilevanza della testimonianza scritta richiesta e, in caso di ammissione della stessa, fisserà al testimone un termine per fornire le risposte scritte, nonché una successiva udienza per la disamina delle risposte fornite e per la conseguente fase decisoria. 

Il tutto con un probabile “allungamento” dei tempi processuali, il quale di certo non appare “in linea” con le esigenze di celerità e speditezza, che sembrano per il resto aver ispirato l’intera riforma di cui alla Legge 31 agosto 2022 n. 130.

Altra problematica di non scarso rilievo è rappresentata dalla possibilità o no di applicare al processo tributario il disposto dell’ultimo comma dell’art. 257-bis c.p.c. che, nel rito civile, prevede la possibilità per il giudice, una volta esaminate le risposte o le dichiarazioni scritte, di disporre che il testimone sia chiamato a deporre in forma orale.

La compatibilità di tale disposizione con il rito tributario appare quanto mai dubbia, stante la natura intrinsecamente documentale del processo tributario.

E’ lecito allora domandarsi di quali strumenti disponga il giudice tributario, qualora dubiti della veridicità della testimonianza resa in forma scritta (o ritenga la stessa reticente), ma non possa chiamare il teste a deporre in forma orale.

Ancor di più, è lecito domandarsi quali rimedi possa azionare la parte, alla quale la testimonianza scritta di “dubbia veridicità” o “reticente” è sfavorevole, per tentare di inficiare il valore probatorio della stessa.

Ad oggi, la nuova formulazione dell’art. 7, comma 4, D.lgs. 546/1992 non sembra poter fornire un’adeguata risposta a tali interrogativi, che potrà probabilmente venire solo dall’effettiva e concreta applicazione dell’istituto e dalla sua conseguente evoluzione giurisprudenziale.

Senza dubbio, qualora a causa della natura necessariamente documentale del processo tributario si escluda la possibilità di applicazione dell’ultimo comma dell’art. 257-bis c.p.c., il “nuovo” comma 4 dell’art. 7 D.lgs. 546/1992 potrebbe ragionevolmente prestarsi a possibili censure di illegittimità costituzionale per lesione del diritto di difesa (art. 24 Costituzione) e dei principi relativi al giusto processo (art. 111 Costituzione), non consentendo alla parte (né allo stesso giudice) alcun rimedio contro la “testimonianza scritta” reticente o di dubbia veridicità. 

Dott.ssa Cecilia Domenichini

Unicusano- Roma