T.A.R. Sicilia – Catania sez. II 14 novembre 2023 n. 3415


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO:

La ricorrente, operante nel settore del commercio agroalimentare, ha impugnato l’ordinanza dirigenziale del Comune di Omissis n. 5 del 29 marzo 2023, con cui è stata disposta l’immediata sospensione dell’attività, e la delibera del Consiglio Comunale n. 52 del 26 ottobre 2022, con cui è stata disposta l’integrazione del regolamento per la rateizzazione dei crediti arretrati, nella parte in cui prevede (art. 6) che la sospensione ai sensi dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 per irregolarità tributarie locali si applichi “per gli anni pregressi a quelli in corso”. La ricorrente ha agito, inoltre, per il risarcimento dei danni, di natura patrimoniale e non patrimoniale, derivanti dall’illegittimo operato dell’Amministrazione intimata.

Nel ricorso, per quanto in questa sede interessa, si rappresenta in punto di fatto quanto segue: 

  1. a) con il provvedimento impugnato il Comune ha disposto l’immediata sospensione dell’attività ai sensi dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 per presunte irregolarità nel versamento dei tributi locali, in particolare la tassa sui rifiuti (TARI), per gli anni dal 2019 al 2021; 
  2. b) precedentemente alla notifica dell’ordinanza impugnata, la ricorrente è stata informata dal Comune di presunti mancati versamenti dell’imposta sui rifiuti e di un ammontare del debito complessivamente pari ad € 36.129,60 (importo comprensivo di sanzioni), con la nota prot. n. 17591 del 15 dicembre 2022; 
  3. c) la lettera di messa in mora in questione è generica e priva di un’esposizione dettagliata degli importi dovuti e delle modalità di determinazione dell’imposta;
  4. d) all’esito di contraddittorio procedimentale, il Comune rispondeva con nota prot. n. 3705 del 14 marzo 2023, con cui confermava l’importo dovuto di € 36.129,60 e si limitava a rilevare che nel calcolo della TARI non erano state considerate le aree che producevano rifiuti agricoli come da s.c.i.a.; 
  5. e) senza che fosse emesso il necessario (e preannunciato) atto di accertamento/ingiunzione, il Comune adottava l’ordinanza impugnata, disponendo l’immediata sospensione di ogni attività.

Il contenuto dei motivi di gravame può sintetizzarsi come segue: 

  1. a) il provvedimento viola il principio di irretroattività, essendo stato emesso con effetti retroattivi rispetto a presunte inadempienze relative ad anni d’imposta precedenti alla stessa introduzione della norma regolamentare (di cui alla delibera del Consiglio comunale n. 52 del 26 ottobre 2022); 
  2. b) risulta costituzionalmente illegittima la disciplina regolamentare (nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione per le violazioni commesse per i periodi pregressi alla sua entrata in vigore); 
  3. c) è costituzionalmente illegittima, per violazione del principio di proporzionalità, la stessa disposizione di cui all’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 (il quale stabilisce una misura “fissa” della sanzione, non suscettibile di essere graduata da parte dell’autorità amministrativa irrogante, né dal giudice adito, al fine di tenere in considerazione le specifiche circostanze del caso concreto e la gravità stessa della violazione); 
  4. d) non è stato notificato alla ricorrente alcun atto di accertamento di natura tributaria e, pertanto, non sussiste il presupposto della irregolarità nel pagamento dei tributi locali; 
  5. e) è stata omessa la prescritta comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente lesione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale; 
  6. f) il provvedimento impugnato risulta viziato per difetto di istruttoria e di motivazione.

Con memoria in data 8 maggio 2023 la ricorrente, nel ribadire le proprie difese, ha dedotto, in particolare, di avere, a seguito di accesso, verificato che nessun avviso di accertamento o ingiunzione di pagamento erano stati emessi a carico della società per le maggiori imposte richieste a titolo di TARI relativamente agli anni 2019, 2020 e 2021, sicché manca il presupposto per l’irrogazione della sanzione di cui all’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019, né sono stati forniti il dettaglio delle imposte accertate per le singole annualità, il calcolo dell’importo delle sanzioni, l’esplicitazione degli interessi e delle eventuali altre componenti del debito.

Il Comune ha svolto in giudizio le seguenti difese: a) secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 161, della legge n. 296/2006, gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere notificati entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati; b) prima dell’invio di lettere di messe in mora, la responsabile della società è stata convocata ed interpellata al fine di rendere delucidazioni in merito alla tipologia e ai metri quadri effettivi di esercizio dell’attività; c) solo dopo la notifica della messa in mora, la ricorrente ha consegnato il conteggio relativo all’importo da corrispondere, con un apposito piano di rateizzazione; d) non risponde al vero che la messa in mora è priva di elementi utili ed idonei per comprenderne il contenuto, come dimostrato dai colloqui intercorsi con il commercialista della società; e) l’Amministrazione ha specificato che l’immobile, in ragione della categoria catastale (D10), è esente dal solo tributo IMU e non dalla TARI; f) appare pretestuosa la contestazione del quantum dell’imposta come determinato dall’ufficio comunale.

All’esito di sommaria delibazione, il Collegio, con ordinanza n. 226/2023 in data 16 maggio 2023 ha respinto l’istanza cautelare della ricorrente, osservando quanto segue: a) come emerge dall’atto di messa in mora del Comune n. 17581 in data 15 dicembre 2022, che, in buona sostanza, costituisce un’intimazione di pagamento, la società risulta debitrice per un importo € 36.129,60, relativi alla TARI; b) la ricorrente non ha fornito alcuna allegazione o prova di aver impugnato l’intimazione innanzi al giudice tributario, limitandosi ad affermare in seno al presente ricorso che l’Amministrazione avrebbe omesso di notificare i previ atti di accertamento; c) il menzionato atto n. 17581 del 15 dicembre 2022 vale anche come comunicazione di avvio del procedimento relativo alla sospensione dell’attività, come ivi esplicitamente affermato dall’Amministrazione municipale; d) non appare, prima facie, sussistente alcuna violazione del principio di irretroattività, posto che la misura viene applicata dal Comune con effetti ex nunc rispetto ad una esposizione debitoria tuttora attuale; e) la Sezione ritiene che non vi siano serie ragioni per dubitare della legittimità costituzionale della disciplina e osserva, comunque, che la questione relativa alla cosiddetta “quota fissa” della sanzione appare irrilevante, poiché nel caso in esame l’esposizione debitoria di cui si discute è alquanto consistente.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con decreto cautelare n. 163/2023 in data 18 maggio 2023 e, successivamente, con ordinanza collegiale n. 225/2023 in data 3 luglio 2023, ha, invece, espresso diverso avviso con riferimento al fumus boni iuris della pretesa azionata, attribuendo rilievo alla “… circostanza che, secondo le deduzioni di parte, la comminatoria della chiusura dell’esercizio commerciale prescinderebbe dalla definitività dell’accertamento tributario (pure in sede amministrativa, per come la parte assume che la sanzione sarebbe stata irrogata nel caso di specie), il che parrebbe poco compatibile con i principi di garanzia di una piena ed effettiva esperibilità della tutela giurisdizionale (rispetto a ogni pretesa tributaria)”.

Con memoria in data 18 settembre 2023 la ricorrente, nel ribadire le proprie difese, ha precisato, in particolare, quanto segue: a) nel corso del giudizio di appello la ricorrente ha documentato l’intervenuta impugnazione innanzi al giudice tributario della nota n. 3795 in data 14 marzo 2023, con la quale è stata rigettata l’istanza di annullamento della nota n. 17581 del 15 dicembre 2022; b) venendo in rilievo un debito tributario, l’Amministrazione avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 47 del regolamento per la disciplina delle imposte comunali, il quale contempla l’adozione di un formale avviso di accertamento a norma dell’art. 1, commi 161 e 162, della legge n. 296/2006; c) la diffida in data 15 dicembre 2022 non è nemmeno un simulacro di avviso di accertamento; d) non appare comprensibile la previsione di cui all’art. 4, sesto comma, del regolamento per la rateizzazione dei debiti arretrati in ordine all’oggetto della sospensione o revoca, e, comunque, il provvedimento impugnato contempla una sospensione che non si riferisce al titolo (cioè alla licenza commerciale) ma senz’altro all’attività svolta; e) la rilevanza del carattere definitivo dell’accertamento tributario costituisce la regola, salvo eccezioni, come accade nell’ambito delle procedure di affidamento; f) nel caso in esame difetta la stessa adozione di un atto impositivo e, in ogni caso, la disciplina di legge va interpretata in senso costituzionalmente orientato, avuto riguardo al diritto di iniziativa economica, nonché applicando il principio di proporzionalità che promana in primo luogo dal diritto europeo.

Nella pubblica udienza in data odierna la causa è stata trattenuta in decisione.

Il Collegio, pur nella consapevolezza del difforme orientamento espresso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana nella fase cautelare, ritiene che il ricorso non sia meritevole di accoglimento.

Ciò in considerazione dell’interpretazione che si è affermata nella prevalente giurisprudenza amministrativa, e che il Collegio condivide, in merito al disposto dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 (in applicazione del quale sono stati adottati la norma del regolamento comunale e il provvedimento amministrativo in questa sede impugnati).

Il citato art. 15-ter, rubricato “Misure preventive per sostenere il contrasto dell’evasione dei tributi locali”, stabilisce che “Gli enti locali competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti attività commerciali o produttive possono disporre, con norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti”.

Il regolamento per la rateizzazione dei crediti arretrati adottato dal Comune di Omissis prevede, con riferimento alle attività commerciali o produttive sottoposte a licenza commerciale che “non siano in regola con i tributi locali (TASI-IMU-TARI-IDRICO) per gli anni pregressi a quelli in corso”, che il Comune si adoperi per la sospensione o revoca della stessa licenza, “precisando che è possibile sanare la posizione debitoria con un massimo di sei rate applicando una sanzione nella misura del 30%, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e s.m.i.”.

La norma da ultimo citata, che costituisce attuazione dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019, va intesa, in conformità al suo tenore letterale, nel senso che, allorquando sia verificata una irregolarità nel pagamento dei tributi locali, e dunque una condizione di inadempienza agli obblighi tributari “per gli anni pregressi a quelli in corso” (ossia, per i periodi per i quali, al momento della verifica, siano già scaduti i termini di versamento dell’imposta), il Comune può condizionare l’esercizio dell’attività sottoposta a licenza alla regolarizzazione della posizione debitoria.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 8875/2022 in data 18 ottobre 2022, pronunciandosi in ordine all’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 in fattispecie del tutto corrispondente a quella qui in esame, ha escluso che il credito tributario debba essere definitivamente accertato (“né l’art. 8 del regolamento comunale, né la norma primaria statale richiedono che il debito tributario sia definitivamente accertato: ne discende che tutte le censure contenute nel primo motivo dell’appello, volte a contestare la definitività del debito tributario dell’appellante, sono prive di rilevanza, poiché il potere esercitato dal Comune nei confronti del richiedente trova fondamento in fonti normative che non presuppongono tale definitività”; cfr., in senso conforme, T.A.R. Brescia, Lombardia, Sez. II, 7 dicembre 2021, n. 1042, secondo cui “la norma di riferimento richiede l’”esistenza di morosità”, senza far alcun accenno alla sua definitività”).

Il Consiglio di Stato ha, inoltre, espressamente escluso che la disciplina in argomento possa considerarsi costituzionalmente illegittima (“la ratio dell’art. 8 del Regolamento comunale, esplicitata anche nella rubrica dell’art. 15-ter del D.L. n. 34 del 2019, è quella di combattere l’evasione fiscale negli Enti locali e quindi eventuali dubbi di legittimità costituzionale del citato art. 15-ter D.L. n. 34 del 2019 non hanno ragion d’essere, rispondendo sia la norma primaria statale, sia quella regolamentare, ai principi costituzionali della capacità contributiva e del buon andamento della P.A. (artt. 53 e 97 Cost.)”), al riguardo menzionando l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione Civile in data 4 maggio 2022, n. 14049, con cui è stato precisato che lo strumento previsto dall’art. 15-ter “consiste non già nella comminatoria di una misura afflittiva collegata all’inadempimento di un’obbligazione tributaria, ma nella previsione di una forma di coazione indiretta all’adempimento. La disposizione de qua ha dotato i Comuni di uno strumento volto a contrastare diffusi fenomeni di evasione dei tributi locali, che comporta l’esercizio ad opera dell’Ente locale di un potere autoritativo”.

Il Consiglio di Stato, con la richiamata sentenza, ha, infine, escluso che possa risultare leso l’interesse del ricorrente-contribuente ad una piena ed effettiva esperibilità della tutela giurisdizionale rispetto a ogni pretesa tributaria così come la libertà di esercizio dell’iniziativa economica, sul punto rimarcando che il contribuente, in caso di pagamento di un debito tributario non dovuto (nell’ipotesi, effettuato allo scopo di evitare la sospensione o revoca della licenza amministrativa), ha comunque diritto alla ripetizione dell’indebito (“invero, le alternative che possono presentarsi in concreto sono le seguenti: o il contribuente ha impugnato l’avviso di accertamento (o comunque l’atto su cui si è basata la pretesa impositiva), e allora non si tratta di violazione definitivamente accertata, cosicché egli ha disposizione l’azione di ripetizione laddove sia dimostrata la non debenza della somma e, quindi, il meccanismo del “solve et repete” può funzionare; ovvero il contribuente non ha impugnato l’avviso di accertamento, ma in tale ipotesi la violazione tributaria è definitiva. In ambedue le opzioni alternative, le doglianze formulate dall’appellante si rivelano prive di fondamento”).

In ragione dell’indirizzo espresso dalla citata giurisprudenza amministrativa e dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione non pare, quindi, potersi dubitare della natura non sanzionatoria della misura di cui si tratta, avente finalità di indurre l’impresa, la cui attività sia soggetta ad autorizzazione amministrativa, alla regolarizzazione della propria posizione tributaria in relazione alle imposte locali (impregiudicata la possibilità di contestare nella competente sede giurisdizionale la pretesa fiscale).

La formulazione letterale dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 non contiene alcun riferimento all’avviso di accertamento e richiede soltanto la verifica della regolarità corrente del pagamento dei tributi locali (per i quali sia scaduto il termine di versamento), stimolando il contribuente alla regolarizzazione dell’eventuale esposizione debitoria.

L’unico presupposto richiesto dalla norma è, in definitiva, l’esistenza del debito tributario, accertato dall’Amministrazione locale, costituendo la regolarità tributaria dell’impresa un requisito ulteriore per il rilascio (o il mantenimento) del titolo autorizzatorio.

Con la menzionata ordinanza in data 4 maggio 2022, n. 14049, la Corte di Cassazione ha, infatti, precisato che “Le controversie in tema di revoca di autorizzazioni, disposta a seguito di inadempienza nel pagamento di tributi locali, ai sensi dell’art. 15 ter del d.l. n. 34 del 2019, conv. con modif., dalla l. n. 58 del 2019, esulano dalla giurisdizione del giudice tributario, e spettano, invece, a quella del giudice amministrativo, non avendo ad oggetto la comminatoria di una misura afflittiva collegata all’inadempimento di un’obbligazione tributaria, ma la previsione di una forma di coazione indiretta all’adempimento, consistente nell’esclusione di pendenze in materia di tributi locali, il cui accertamento, pur concernendo aspetti sostanziali della disciplina tributaria, riveste carattere meramente incidentale, funzionale alla verifica dei requisiti soggettivi cui la legge subordina l’esercizio dell’attività e della legittimità del diniego opposto dall’amministrazione”.

Nel caso di specie, non appare dubitabile (né è smentito dalla ricorrente) che ricorra il presupposto di fatto del mancato adempimento dell’obbligazione tributaria, sicché il provvedimento amministrativo oggetto d’impugnazione risulta conforme ai requisiti normativamente prescritti.

Non appaiono sussistere neppure i vizi di istruttoria e di motivazione denunciati in ricorso, in quanto l’atto di messa in mora del Comune n. 17581 in data 15 dicembre 2022 ha certamente valenza di comunicazione di avvio del procedimento relativo alla sospensione dell’attività, come ivi esplicitamente affermato dall’Amministrazione municipale, ed il contraddittorio endoprocedimentale risulta assicurato, così come dimostra l’interlocuzione avviata dal Comune con la ricorrente anche in ordine alle modalità di applicazione del tributo (cfr. nota prot. n. 3705 in data 14 marzo 2023, con la quale il Comune ha precisato che la “Tari è applicata sulla base dei mq e non sulle giornate di ritiro o quantitativo dei rifiuti” e che “secondo quanto disposto dal comma 649 della legge 147/2013 le aree che producono rifiuti agricoli sono escluse dalla tassazione, ma restano tassabili le sole aree destinate ad eventuali uffici, punti vendita, magazzini ecc.. Nel calcolo della tari si è tenuto conto dei metri quadri delle seguenti aree come risultante dalla Scia da Voi presentata: Capannone A mq 1.150; Capannone B mq 960; Palazzina uffici mq 1.050. Mentre le altre aree non sono state considerate quali: Silos, Spiazzale ecc…”).

Peraltro, la ricorrente non ha fornito, neppure in giudizio, elementi utili per consentire un accertamento incidentale circa i presupposti (esposizione debitoria tributaria) per l’emanazione del provvedimento impugnato e la contestazione in ordine al debito di cui si discute appare estremamente generica.

Secondo la ricorrente, poi, il provvedimento impugnato violerebbe i principi costituzionali ed europei in materia di sanzioni amministrative (segnatamente, le “basilari garanzie costituzionali che presiedono all’applicazione di una sanzione amministrativa interdittiva, a carattere punitivo e con valore sostanzialmente penale (v. i c.d. criteri “Engel)”), essendo stato emesso con valenza retroattiva rispetto a presunti mancati pagamenti TARI (anni 2019 – 2021) per anni d’imposta precedenti alla sua stessa previsione (di cui alla delibera del Consiglio Comunale n. 52/2022).

L’assunto non è condivisibile in quanto, come detto, la giurisprudenza prevalente esclude la natura sanzionatoria della misura di cui si discute, sicché non opera il principio di irretroattività come invocato in ricorso (cfr. T.A.R. Brescia, Lombardia, n. 1042/2021, cit., secondo cui le misure di cui si discute “non possono essere qualificate come introduttive di sanzioni in senso stretto, ma volte ad escludere la possibilità di ottenere un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del richiedente, quando lo stesso si trovi ad essere debitore del Comune in relazione a tributi e canoni. E che non di sanzioni si tratti è dimostrato dal fatto che la condizione di inadempienza può essere sanata nel corso del procedimento, così rimuovendo l’ostacolo al rilascio dell’autorizzazione. Esclusa, dunque, la natura sanzionatoria delle previsioni in parola, non possono trovare positivo apprezzamento, né la censura riferita alla violazione del principio di irretroattività delle sanzioni, né quella correlata alla pretesa violazione della riserva di legge rispetto al potere impositivo”).

A bene vedere, in ogni caso, l’invocato principio di irretroattività non risulta pregiudicato, se si considera che la misura viene applicata dal Comune con effetti ex nunc rispetto ad una esposizione debitoria ancora attuale (debito che l’impresa ben può scegliere di estinguere, per evitare di andare incontro all’inibizione dell’esercizio dell’attività, secondo un principio di autoresponsabilità, come ricordato da Cons. Stato, n. 8875/2022, cit.).

Il richiamo al principio di proporzionalità delle misure sanzionatorie è, per le medesime ragioni sopra esposte, non pertinente al caso di specie (così come il richiamo al pronunciamento della Corte Costituzionale in data 23 settembre 2021, n. 185, che quel principio ha enucleato, con riferimento a sanzioni amministrative a carattere punitivo: “La fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti, che è in funzione dell’ampiezza dell’offerta di gioco e del tipo di violazione commessa”).

Peraltro, un problema di eccessività della misura in rapporto all’entità dell’infrazione andrebbe, comunque, escluso in concreto, avuto riguardo alla non esigua esposizione debitoria della ricorrente.

Per quanto precede, il ricorso va respinto.

L’esistenza di non univoci orientamenti della giurisprudenza in ordine alla questione decisa giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Staccata di Catania (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo respinge e compensa le spese processuali.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.


COMMENTO –Come noto l’articolo 15-ter del cosiddetto Decreto Crescita (D.L. 34/2019, convertito nella Legge 28 giugno 2019, n. 58) ha introdotto una disciplina volta a implementare le cosiddette “Misure preventive per sostenere il contrasto dell’evasione dei tributi locali”. Sin dalla sua emanazione, sulla norma in questione sono state sollevate perplessità in merito al rispetto di alcuni principi fondamentali nella materia tributaria. 

Questa disposizione infatti stabilisce che gli Enti locali possono, attraverso norme regolamentari, subordinare il rilascio, il rinnovo e il mantenimento di licenze e autorizzazioni per coloro che esercitano attività commerciali o produttive alla verifica del regolare pagamento dei tributi locali. La norma implica quindi l’adozione di provvedimenti sfavorevoli per la sfera giuridica del contribuente, che possono essere definite “sanzioni improprie” o atipiche, riferendosi ad “un insieme di strumenti di reazione alla violazione del precetto, non qualificati né disciplinati dal legislatore come sanzioni, ma che comunque hanno una funzione punitiva, parallela ad altre funzioni e non predominante”. Qui, infatti, la finalità principale indicata espressamente dal legislatore è quella di contrastare l’evasione dei tributi locali, il che porta a conseguenze sfavorevoli, anche di notevole rilevanza, per i soggetti destinatari.

La normativa in esame infatti a giudizio di chi scrive presenta alcune carenze che si riflettono sulle norme regolamentari da adottare. Come già evidenziato, l’art. 15-ter si presenta come una norma a fattispecie aperta che non fornisce le indicazioni necessarie per delimitare la potestà regolamentare e non rispetta le condizioni minime derivanti dai citati principi costituzionali e dell’Unione Europea, sia sotto il profilo sostanziale che procedimentale. Infatti, nel fare un esclusivo riferimento alla “verifica della regolarità del pagamento” dei tributi, la norma legittima un contesto nel quale i Comuni hanno teoricamente la possibilità di realizzare un meccanismo quasi automatico di adozione dei provvedimenti sanzionatori (quale ad esempio, la revoca della licenza…) che prescinde dalla contestazione del fatto illecito presupposto, dalla circostanza che lo stesso sia accertato definitivamente o che il contribuente abbia impugnato il relativo atto impositivo.

Proprio in merito alla legittimità di tali aspetti, si è però recentemente espressa la magistratura amministrativa, fornendo in questo ambito un utilissimo indirizzo agli enti impositori.

Recentemente infatti, il TAR Catania, con la sentenza n. 3415 del 14/11/2023, ha giudicato legittima la disposizione regolamentare che prevede la sospensione dell’attività commerciale per irregolarità tributarie locali relative agli “anni pregressi a quelli in corso”, ai sensi dell’art. 15-ter del d.l. n. 34/2019. Nel caso in questione, una società nel settore del commercio agroalimentare ha impugnato l’ordinanza che ha disposto la sospensione immediata dell’attività, insieme alla delibera comunale del 2022 che ha introdotto tale sospensione ai sensi dell’art. 15-ter del d.l. n. 34/2019, eccependo la retroattività della delibera per presunte irregolarità nel pagamento della TARI per gli anni dal 2019 al 2021.

Il TAR ha respinto il ricorso, sottolineando che la disposizione regolamentare impugnata, derivante dall’art. 15-ter del d.l. n. 34/2019, implica che, se vi è un’irregolarità nel pagamento dei tributi locali, quindi un mancato adempimento agli obblighi tributari “per gli anni precedenti a quelli in corso” (cioè, per i periodi in cui i termini di pagamento dell’imposta sono già scaduti al momento della verifica), il Comune può subordinare l’esercizio dell’attività soggetta a licenza alla regolarizzazione della posizione debitoria.

Come richiamato dai giudici amministrativi siciliani, già in precedenza il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8875/2022, ha escluso che il credito tributario debba essere definitivamente accertato e ha anche espressamente escluso la costituzionale illegittimità della disciplina in materia. Nella sentenza viene anche richiamata l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 14049/2022, per mezzo della quale gli ermellini hanno precisato che lo strumento previsto dall’art. 15-ter “consiste non già nella comminatoria di una misura afflittiva collegata all’inadempimento di un’obbligazione tributaria, ma nella previsione di una forma di coazione indiretta all’adempimento. La disposizione ha fornito ai Comuni uno strumento per contrastare la diffusa evasione dei tributi locali, permettendo all’Ente locale di esercitare un potere autoritativo”.

Dato l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa sopra citata e dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non sembra che si possa dubitare della natura non sanzionatoria della misura in discussione, la cui finalità è indurre l’impresa, soggetta ad autorizzazione amministrativa, a regolarizzare la propria situazione tributaria in merito alle imposte locali (senza pregiudicare la possibilità di contestare la pretesa fiscale davanti alla competente sede giurisdizionale). La formulazione dell’art. 15-ter del d.l. n. 34/2019 d’altro canto, non menziona l’avviso di accertamento e richiede solo la verifica della regolarità attuale del pagamento dei tributi locali (con termini scaduti), incentivando il contribuente a regolarizzare eventuali debiti.

Il solo presupposto richiesto dalla norma è l’esistenza del debito tributario accertato dall’Amministrazione locale, con la regolarità tributaria dell’impresa costituente un ulteriore requisito per il rilascio o il mantenimento dell’autorizzazione. 

Relativamente al giudizio in commento, secondo la ricorrente, il provvedimento impugnato violerebbe i principi costituzionali ed europei in materia di sanzioni amministrative, poiché sarebbe stato emesso con retroattività rispetto a presunti mancati pagamenti TARI per gli anni 2019-2021, per periodi d’imposta precedenti alla sua stessa previsione. Tale assunto non è tuttavia condivisibile per i giudici siciliani, in quanto la giurisprudenza prevalente esclude la natura sanzionatoria della misura in discussione, quindi il principio di irretroattività invocato nel ricorso non si applica. Inoltre, l’effetto del provvedimento è retroattivo solo rispetto a un debito ancora esistente (debito che l’impresa può estinguere per evitare la sospensione dell’attività, secondo il principio di autoresponsabilità, come stabilito dal Consiglio di Stato, n. 8875/2022).

La Sentenza in questione costituisce un’occasione di riflessione su di un istituto la cui applicazione ha da sempre posto qualche incertezza tra gli operatori degli uffici tributi degli enti locali. Va detto che la disposizione in oggetto presenta delle analogie, ma anche delle differenze che riteniamo debbano essere valutate criticamente, con una precedente norma, l’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 (così come modificato dal D.L. n.76/2020, convertito dalla L.120/2020) del cosiddetto Codice degli Appalti. Questo articolo stabilisce che “Un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione”.

Ma mentre l’art. 80 collega le conseguenze sfavorevoli (esclusione da una procedura d’appalto) a “violazioni gravi” e “definitivamente accertate”, la disposizione in esame fa un mero riferimento, quale presupposto per l’adozione dei provvedimenti sfavorevoli, al semplice rilievo di un’irregolarità del pagamento dei tributi locali. La genericità ed ampiezza del dettato normativo lascia, evidentemente, agli Enti locali una grande discrezionalità nel definire la nozione di “irregolarità tributaria” che deve essere individuata con apposita norma nel Regolamento da adottare. Ciò sia per quanto attiene alle caratteristiche della condotta che al profilo quantitativo della violazione. Non avendo, infatti, il legislatore definito in maniera puntuale e dettagliata la fattispecie presupposto, né fornito alcuna indicazione o criterio in ordine alla gravità della condotta, ciò può comportare l’applicazione di provvedimenti di natura “sanzionatoria” (nel senso più ampio del termine, come sopra specificato), che possono risultare non conformi ai principi generali, anche di rango costituzionale e comunitario. 

Come osservato proprio dal TAR Siciliano nella sentenza in commento, a dirimere la questione circa la legittimità di provvedimenti “sanzionatori” emanati in forza di norme regolamentari che non prevedono espressamente la presenza di violazioni tributarie definitivamente accertate, è stato di fatto il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8875/2022 datata 18 ottobre 2022, il quale pronunciandosi sull’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 in una fattispecie del tutto corrispondente a quella qui in esame, ha escluso che il credito tributario debba essere definitivamente accertato. Afferma infatti il Consiglio di Stato in tale occasione che “né l’art. 8 del regolamento comunale, né la norma primaria statale richiedono che il debito tributario sia definitivamente accertato: ne discende che tutte le censure contenute nel primo motivo dell’appello, volte a contestare la definitività del debito tributario dell’appellante, sono prive di rilevanza, poiché il potere esercitato dal Comune nei confronti del richiedente trova fondamento in fonti normative che non presuppongono tale definitività”

Va infine segnalato come tale concetto sia stato ulteriormente confermato anche dal T.A.R. Brescia, Lombardia, Sez. II, 7 dicembre 2021, n. 1042, secondo cui “la norma di riferimento richiede l’”esistenza di morosità”, senza far alcun accenno alla sua definitività”. 

I comuni che hanno adottato regolamenti in materia di regolarità tributaria ai sensi dell’art. 15-ter del decreto legislativo n. 34/2019 trovano sicuramente conforto dalla sentenza oggetto di esame nel presente scritto e dai pronunciamenti nella stessa richiamati, sebbene non appare superfluo a detta di chi scrive segnalare  comunque la necessità di una rivisitazione della normativa, che renda perfettamente coerente la disciplina sul contrasto all’evasione dei tributi locali rispetto al corretto rapporto tra le fonti legislative e regolamentari,  eliminando a priori eventuali dubbi sulla legittimità delle misure regolamentari adottate dagli enti. Tale fine andrebbe perseguito attraverso una definizione puntuale circa le fattispecie di “irregolarità tributaria” considerate rilevanti agli effetti della norma, ed una altrettanto puntuale definizione dei parametri di determinazione delle misure sanzionatorie applicabili dagli enti locali impositori. 

Dott. Francesco Foglia