Convegno Pontremoli, 14 settembre 2018

“Il processo tributario tra strumenti di deflazione ed esecuzione forzata”

SOMMARIO: §. 1 Premessa; §. 2 Mancato rimborso delle somme indebitamente versate dal contribuente e risarcimento del danno: la situazione anteriore alla entrata in funzione del decreto delegato 156/2015; §. 3 La situazione successiva alla emanazione del decreto legislativo delegato 156/2015 in materia di contenzioso tributario, ed anteriore al   decreto del Ministro dell’economia e delle finanze relativo alle garanzie che possono essere imposte al contribuente; §. 4 La situazione successiva alla emanazione del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze relativo alle garanzie che possono essere imposte al contribuente; §. 5 La impugnazione delle sentenze di ottemperanza: l’intervento della Cassazione; §. 6 Una considerazione finale.

  • . 1 Premessa

Appare logico che se un giudice si pronuncia su una questione controversa di carattere civilistico, il rapporto di cui si discute sia – almeno di regola-   provvisoriamente disciplinato dalla pronuncia giudiziaria, ancorchè essa non sia ancora definitiva, non sia ancora “passata in giudicato”; i presunti debitori non sono infatti assistiti da una “presunzione di innocenza”. E risulta opportuno che chi ha – in questa prima fase- perso possa essere garantito contro il rischio che la sua eventuale vittoria nell’ulteriore sviluppo del processo, risulti priva di concreto contenuto; come può accadere se al (provvisorio) vincitore venga versata una grossa somma e vi sia il pericolo che essa venga dispersa od occultata (ipotesi alquanto realistica nella materia tributaria). Ed è anche opportuno che la provvisoria esecutorietà possa essere sospesa da un giudice “superiore” o dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento.

Il principio secondo cui le sentenze sono di regola immediatamente esecutive è ormai pacificamente applicato nel diritto civile e nel diritto amministrativo, e costituisce -tra l’altro- una manifestazione di fiducia e di rispetto dello Stato nei confronti dei “suoi” giudici.

Invece, secondo una prassi assai risalente, le sentenze dei giudici tributari favorevoli al contribuente venivano eseguite solo dopo il loro passaggio in giudicato; quasi che la giurisdizione tributaria sia una giurisdizione “minore”, meno attendibile di altre. E soprattutto che parte pubblica e parte privata non operino in “condizioni di parità”.

A dire il vero, già il testo originario dell’art. 68, comma 2, D.Lgs. 546/1992 – che regola   il pagamento dei tributi in pendenza di giudizio – stabilisce che “se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza”.  E dunque la diligente Amministrazione avrebbe dovuto rimborsare immediatamente tutto quanto percepito e che risultasse non dovuto in base ad una sentenza ancorchè non definitiva (La legge parla di sentenza della commissione tributaria provinciale, ma sembra ovvio che la norma sia applicabile anche alle sentenze delle commissioni di secondo grado. In questo senso, si è espressa la Corte di Cassazione, ad esempio, nella sentenza n. 20526/2006, secondo cui “il comma 2 dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 stabilisce addirittura che se il ricorso viene accolto, il tributo eventualmente corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale (ma sembra logico che a maggior ragione il rimborso sia dovuto ove sia intervenuta la sentenza d’appello) deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza (non ancora passata in giudicato), con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali).

Ma la Amministrazione era solita tenere in poco conto questa indicazione legislativa, e le sue stesse circolari che ne raccomandano il rispetto, e dunque la nobile norma di principio era nella prassi quasi divenuta “telum imbelle sine ictu”.

In questa situazione di fatto è apparsa una rilevante novità che l’art. 10 della legge delega 23/2014 abbia demandato al legislatore delegato il compito di inserire nell’ordinamento processuale tributario “la previsione dell’immediata esecutorieta’, estesa a tutte le parti in causa (e dunque anche al contribuente), delle sentenze delle commissioni tributarie”.

In attuazione di questo principio, il Decreto legislativo 24/09/2015 n. 156, entrato per la parte che ci interessa in vigore il 1° giugno 2016, ha inserito nel testo del d. lgs. 546/1992 un articolo 67-bis (esecuzione provvisoria), secondo cui “le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo quanto previsto dal presente capo” (L’esecutività, mi par ovvio, comprende anche le spese processuali. In senso contrario cfr. lo scritto di Di Nardo sul sito della AMT).

A sua volta il “nuovo” art. 69 del D. lgs. 546/1992 intitolato “esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente” afferma al primo comma “le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono  immediatamente esecutive”.

Il medesimo comma prudentemente soggiunge “tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, puo’ essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilita’ dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia” (Il Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nel parere 17 novembre- 2 dicembre 2016, pare auspicare un frequente utilizzo di questa precauzione. Così si esprime: l’attuazione del principio di esecutività delle sentenze di condanna in favore del contribuente deve tener conto del rischio che, una volta ottenuto – in virtù di una sentenza esecutiva ma impugnata dall’Amministrazione – il pagamento di una somma a titolo di rimborso, non sia più possibile il recupero delle somme erogate in caso di successiva riforma della sentenza. La necessità in via generale di una garanzia, per le somme eccedenti l’importo di diecimila curo, ha anche l’indubbio vantaggio di evitare che la parte pubblica nei casi di impugnazione di una sentenza che la condanni a rimborsare somme al contribuente, sia indotta a chiedere sistematicamente la sospensione degli effetti della decisione. Ciò al fine di evitare rischi di responsabilità per danno erariale nell’ipotesi in cui, in caso di successiva riforma della sentenza, non fosse più possibile recuperare le somme per insolvenza del contribuente. In definitiva la garanzia assicura, nell’applicazione dei principi europei e nazionali sui giusto processo, la parità ed eguaglianza delle parti nel processo tributario. Ciò implica che la disciplina regolamentare non possa essere – se non marginalmente – ispirata alla tutela dell’interesse finanziario dello Stato, ma debba muoversi nell’ottica del contemperamento tra il diritto del contribuente, la garanzia di solvibilità in ipotesi di ribaltamento della sentenza, l’efficienza del processo). Si trattata di una mera facoltà subordinata al prudente apprezzamento del giudice, che deve esercitarla esplicitamente; tanto che “la garanzia cessa automaticamente qualora il giudice del grado successivo di giudizio ritenga di non subordinare la condanna al pagamento di somme in favore del contribuente alla prestazione della garanzia” (art. 2 primo comma del D.M. 22/2017).

Il secondo comma del citato art. 69 prevede che “con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emesso ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n.  400, sono disciplinati il contenuto della garanzia la sua durata nonche’ il termine entro il quale puo’ essere escussa, a seguito dell’inerzia del contribuente in ordine alla restituzione delle somme garantite protrattasi per un periodo di tre mesi”.

Infine è stata inserita la disposizione secondo cui “in caso di mancata esecuzione della sentenza il contribuente può richiedere l’ottemperanza a norma dell’articolo 70 alla commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla commissione tributaria regionale” (analoga disposizione è stata collocata nel secondo comma dell’art. 68).

Il sistema delineato dal legislatore delegato presenta difficoltà interpretative e lacune.

Il più immediato problema è però oggi costituito dalla disciplina applicabile in via transitoria; dato che fino all’approvazione dei decreti previsti dagli articoli 12, comma 4, e 69, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, come modificati dall’articolo 10 del presente decreto, restano applicabili le disposizioni previgenti di cui ai predetti articoli 12 e 69”. E solo con decreto 6 febbraio 2017 n. 22 il  ministero Economia e Finanze ha emesso il “ Regolamento di attuazione dell’articolo 69, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, sulla garanzia per l’esecuzione delle sentenze di condanna a favore del contribuente” (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 2017 ed entrato in vigore il 28 marzo: Il Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nel parere 17 novembre- 2 dicembre 2016, pare auspicare un frequente utilizzo di questa precauzione. Così si esprime: l’attuazione del principio di esecutività delle sentenze di condanna in favore del contribuente deve tener conto del rischio che, una volta ottenuto – in virtù di una sentenza esecutiva ma impugnata dall’Amministrazione – il pagamento di una somma a titolo di rimborso, non sia più possibile il recupero delle somme erogate in caso di successiva riforma della sentenza. La necessità in via generale di una garanzia, per le somme eccedenti l’importo di diecimila curo, ha anche l’indubbio vantaggio di evitare che la parte pubblica nei casi di impugnazione di una sentenza che la condanni a rimborsare somme al contribuente, sia indotta a chiedere sistematicamente la sospensione degli effetti della decisione. Ciò al fine di evitare rischi di responsabilità per danno erariale nell’ipotesi in cui, in caso di successiva riforma della sentenza, non fosse più possibile recuperare le somme per insolvenza del contribuente. In definitiva la garanzia assicura, nell’applicazione dei principi europei e nazionali sui giusto processo, la parità ed eguaglianza delle parti nel processo tributario. Ciò implica che la disciplina regolamentare non possa essere – se non marginalmente – ispirata alla tutela dell’interesse finanziario dello Stato, ma debba muoversi nell’ottica del contemperamento tra il diritto del contribuente, la garanzia di solvibilità in ipotesi di ribaltamento della sentenza, l’efficienza del processo.).

E’ stata così superata la preoccupazione che si ripetesse qui quanto accaduto in riferimento al primo comma dell’art. 8 dello Statuto del contribuente secondo cui “l’obbligazione tributaria puo’ essere estinta anche per compensazione”; norma ancora largamente inapplicata non essendo a tutt’oggi stato ancora emessi “i regolamenti emanati ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con cui doveva essere  disciplinata l’estinzione dell’obbligazione tributaria mediante compensazione” (Se il decreto non fosse stato emanato, avrebbero potuto risultare utili  gli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo che prevedono il ricorso avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, ed in ultima   ipotesi la nomina di un commissario ad acta che si sostituisca all’Amministrazione stessa. Esiste in proposito qualche precedente di notevole interesse. Segnalo in particolare la sentenza della Sezione Quarta del Consiglio di Stato n. 4713 del 13 ottobre 2015, che in riforma della pronuncia di primo grado ha accolto il ricorso della Dirpubblica (Federazione del Pubblico Impiego) ed ha  “ordinato all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, all’Agenzia delle Entrate e al Ministero dell’Economia e delle Finanze di provvedere all’adozione del Sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale e del Piano della performance nel termine di giorni 180 dalla comunicazione o notificazione della sentenza”. Minacciando esplicitamente la nomina di un commissario ad acta in caso di inadempimento (tanto che la Amministrazione ha adempiuto all’obbligo evidenziato). In termini analoghi è la sentenza del TAR Sicilia – sez. II 1361/2016 che ha censurato l’inerzia del Comune nella emanazione di un regolamento necessario per consentire l’accesso degli avvocati comunali al compenso tratto dalle propine. Quanto ai soggetti legittimati a promuovere simile controversia, a me sembra che l’interesse a ricorrere debba essere riconosciuto agli ordini professionali abilitati alla difesa avanti alla giustizia tributaria, posto che gli iscritti a tali ordini si gioverebbero della esecutività delle sentenze (quanto meno per quanto attiene alle spese). La legittimazione sarebbe poi spettata anche ai singoli contribuenti in contenzioso con l’Amministrazione ed interessati a conseguire sentenze esecutive o ad ottenere l’esecuzione coattiva delle sentenze che già abbiano in mano).

  • . 2 Mancato rimborso delle somme indebitamente versate dal contribuente e risarcimento del danno: la situazione anteriore alla entrata in funzione del decreto delegato 156/2015.

Si è già sottolineato come nella prassi amministrativa e giudiziaria sia rimasto pressochè inattuato il principio secondo cui il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale deve essere rimborsato d’ufficio, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali.

E’ però intervenuta la sentenza della Cassazione n.  18027 del 14 settembre 2016 che ha drasticamente ribadito  essere la norma in questione fonte di un’obbligazione ex lege da indebito, atteso che, quando l’impugnazione della parte trova  accoglimento e la pretesa tributaria che ne è oggetto viene caducata nell’intero o solo in parte, l’amministrazione in virtù dell’obbligo da essa stabilito – ma più in generale dell’obbligo che civilisticamente compete a chiunque è destinatario di un pagamento privo di causa – è tenuta ex officio ad eseguire il prescritto rimborso delle somme dovute, maggiorate degli interessi di legge, entro il termine di novanta giorni dalla notificazione della sentenza.

Poiché prima della emanazione del D. Lgs 156/2015 la legge non contemplava l’ipotesi di una possibile inottemperanza dell’amministrazione, si è posto il problema di   quali strumenti sollecitatori si offrano al contribuente insoddisfatto per pretendere che l’amministrazione dia corso al prescritto adempimento. Esclusa la praticabilità del rimedio rappresentato dal giudizio di ottemperanza, di cui al successivo art. 70, si è ritenuto che il contribuente potesse e possa sollecitare l’adempimento dell’amministrazione facendo pervenire alla medesima una formale richiesta di procedere al rimborso delle somme indebitamente trattenute. Ciò al fine di superare la preclusione altrimenti discendente dall’elenco tendenzialmente tassativo degli atti impugnabili avanti al giudice tributario (Si veda Cass. n. 24937 del 2011: prevedendo il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, comma 2, il rimborso d’ufficio entro 90 giorni dalla notificazione della sentenza che ha accolto il ricorso del contribuente, quest’ultimo, non ricevendo il prescritto rimborso, non può adire direttamente il giudice tributario, ma deve prima sollecitare il rimborso in sede amministrativa e solo successivamente può impugnare il diniego, anche tacito (Cass. n. 20616 del 2008)). Da questo preliminare adempimento che si impone alla parte per il carattere necessariamente chiuso del processo tributario – non discende però la conseguenza secondo cui sarebbe applicabile il termine dell’art. 21, comma 2, D.lg. 546/92, di modo che, ove esso sia decorso l’istanza sarebbe tardiva e la parte sarebbe inesorabilmente decaduta dal diritto al rimborso. Ciò in quanto l’istanza di rimborso non è funzionale all’insorgenza dell’indebito, che nasce invece ex lege dalla sentenza che ha accolto il ricorso del contribuente e che perciò stesso ha reso i pagamenti da questi effettuati in pendenza del giudizio privi di causa. Qui l’istanza ha dunque il solo scopo di sollecitare l’amministrazione all’adempimento e di precostituire in favore del contribuente, in caso di persistente inadempimento, il presupposto formale per poter legittimamente accedere al giudice tributario (In base alla sentenza delle Sezioni Unite  n. 25931 del 5 dicembre 2011: anche prima della riforma di cui all’art. 12 della legge n. 448/2001, l’art. 2 del D. Lgs n. 546/1992 riservava alle Commissioni Tributarie tutte le cause promosse in via cognitoria dal contribuente contro l’Amministrazione in materia di pagamento o di restituzione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale; per quanto riguardava più in particolare le controversie in tema di rimborso, tale principio generale non soffriva (e non soffre) eccezione in favore del giudice ordinario se non nel caso in cui l’Amministrazione abbia proceduto al riconoscimento del debito e non residui più alcuna questione sull’esistenza dell’obbligazione, il quantum della restituzione e le modalità della sua esecuzione. Pertanto non rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l’azione (nel caso di specie concretantesi nella richiesta di un decreto ingiuntivo) con cui il contribuente chieda il rimborso di quanto versato a titolo di imposta e dovutogli in restituzione in base alla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale; e tale difetto di giurisdizione permane anche se la sentenza di primo grado sia, nelle more del  giudizio avanti al giudice ordinario, confermata dalla Commissione Regionale (ed il relativo ricorso sia respinto dalla Corte di Cassazione). Ed in base a Cass. 19 ottobre 2012, n. 17993: è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, e non a quella del tribunale ordinario, la domanda con la quale il contribuente chieda la condanna dell’erario al pagamento degli interessi e dell’eventuale maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, 2º comma, c.c., in conseguenza della ritardata restituzione dell’imposta pagata in eccedenza.) Dunque l’istanza ha solo la funzione di consentire al giudice tributario di dichiarare la illegittimità del rifiuto (espresso o tacito) della amministrazione a restituire le somme richieste.

La sentenza 18027/2016 impone di verificare se dall’accertamento giudiziale dell’inadempimento della Amministrazione possa discendere qualche conseguenza pratica; e non solo una soddisfazione morale per il contribuente.

A me pare che una risposta derivi dalla sentenza della medesima Corte di Cassazione n.  16797 del 9 agosto 2016 secondo cui l’omesso o ritardato versamento di rimborsi dovuti può dar luogo a una condanna della Amministrazione stessa al risarcimento del danno ex art. 1224 del codice civile (art. 1224.  Danni nelle obbligazioni pecuniarie. — 1. Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. 2. Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori).

La sentenza da’ atto che ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, cod. civ. presupposto del riconoscimento del maggior danno da ritardo nell’adempimento di obbligazione pecuniaria – oltre naturalmente alla dimostrazione, anche presuntiva, della sua sussistenza – è che il debitore sia costituito in mora.

La mora del debitore presuppone però solo l’attualità e l’esistenza dell’obbligazione, non rilevando invece che il credito – nell’an o nel quantum – sia o possa essere contestato dal debitore.  In quanto la liquidità del debito non è condizione necessaria per la costituzione in mora non trovando applicazione in tema di pagamento il principio in illiquidis non fit mora. Pertanto, sussiste la mora del debitore, e cioè il ritardo colpevole di lui ad adempiere, quando la mancata o ritardata liquidazione sia conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore e, in genere, al fatto doloso o colposo di lui. In tal caso, legittimamente, quindi, la sentenza che liquida l’obbligazione inadempiuta stabilisce la decorrenza degli interessi moratori dalla data dell’interpellatio, e liquida gli eventuali danni. Tale principio si applica anche  al ritardato pagamento di rimborso d’imposta.

E qualora il contribuente evidenzi in un suo atto (domanda di rimborso o dichiarazione dei redditi) un credito d’imposta, non occorre da parte sua alcun altro adempimento ai fini di ottenerne il rimborso, in quanto tale condotta costituisce già istanza di rimborso essendo l’Amministrazione – edotta, con la dichiarazione, dei conteggi effettuati dal contribuente – posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria; e da quel momento  decorre, secondo i principi generali, l’ordinario termine di prescrizione decennale per l’esercizio della relativa azione dinanzi a) giudice tributario (d.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2).

Dunque il contribuente (specie se imprenditore) può richiedere il risarcimento del danno per il mancato adempimento dell’obbligo di rimborso formulando la relativa richiesta nel processo introdotto contro il rifiuto del rimborso opposto esplicitamente o tacitamente dalla Amministrazione. E tale risarcimento può raggiungere somme cospicue. Si consideri che nel processo in cui si è inserita la sentenza 16797/2016 la Commissione Tributaria regionale ha liquidato un danno di € 6.124.797,31 e la Cassazione ha censurato solo un profilo secondario della condanna (Con la ordinanza 18854/2009 (pur essa pronunciata nella vicenda in cui si inserisce la sentenza 16797/2016) la Cassazione ha affermato l’applicabilità anche nel risarcimento dei danni da omesso rimborso di imposte del principio di cui alla  sentenza n. 19499 del 2008, secondo cui : “nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale”. Si badi però che sussistono anche massime secondo cui In tema di obbligazioni pecuniarie costituite dai crediti di imposta, cui non sono applicabili gli art. 1224, 1º comma, e 1284 c.c., stante la speciale disciplina dell’art. 44 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602 – relativa a tutti gli interessi dovuti dall’amministrazione finanziaria in dipendenza di un rapporto giuridico tributario – la specialità della fattispecie tributaria impone un’interpretazione restrittiva dell’art. 1224, 2º comma, c.c.; pertanto, il creditore non può limitarsi ad allegare la sua qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, ma deve, alla stregua dei principi generali dell’art. 2697 c.c., fornire indicazioni in ordine al danno subìto per l’indisponibilità del denaro, a cagione dell’inadempimento, ed ad offrirne prova rigorosa (Cass. 30 dicembre 2010, n. 26403).

Da ultimo, non sembra del tutto fuor di luogo ricordare che l’art. 328 del codice penale sanziona la condotta del   pubblico ufficiale o incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto dell’ufficio che, per ragioni di giustizia   deve essere compiuto senza ritardo. Ed è anche punito il pubblico ufficiale entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compia l’atto del suo ufficio e non risponda  esponendo le ragioni del ritardo.

La, sia pure astratta, configurabilità di un reato consentirebbe poi il risarcimento anche del danno non patrimoniale (art. 185, secondo comma del codice penale)

  • . 3 La situazione successiva alla emanazione del decreto legislativo delegato 156/2015 in materia di contenzioso tributario, ed anteriore al   decreto del Ministro dell’economia e delle finanze relativo alle garanzie che possono essere imposte al contribuente.

Il ritardo nella emanazione del decreto ministeriale di attuazione delle disposizioni relative alla esecutività delle sentenze non definitive ha aperto le porte ad una considerevole quantità di problemi che incidono su una materia di per sé di incerta applicazione.

Il nuovo sistema è   compiutamente applicabile solo alle sentenze tributarie di merito prese a decisione dopo il 28 marzo 2017 perché solo in relazione a tali pronunce la Amministrazione ha potuto richiedere al giudice che in caso di sentenza favorevole al contribuente subordinasse l’esecuzione ad “idonea garanzia” in favore dell’ente creditore. Ma il “nuovo” principio della esecutorietà delle sentenze favorevoli al contribuente è in vigore quanto meno dal 1° giugno 2016.

Ci si può domandare se la posticipazione della entrata in vigore dei nuovi principi coinvolga solo l’art. 69 (che la disposizione transitoria esplicitamente richiama) o se “per trascinamento” tocchi anche i rimborsi previsti dall’art. 68.

Come già sottolineato, tale articolo prevede un obbligo dell’amministrazione che risale al testo originario della norma, la riforma del 2015 si limita a prevedere uno strumento più incisivo per rendere efficace l’obbligo in questione e dunque è logico che questo nuovo strumento si applichi anche alle sentenze pregresse.

Ed ancora, la esecuzione delle sentenze che riconoscono al contribuente il diritto a percepire meno di diecimila euro (oltre alle spese di lite) non può essere subordinata al rilascio di idonea garanzia. Ha un senso che anche per concludere con una esecuzione coattiva queste controversie di modesto importo si dovesse attendere l’emanazione di un atto amministrativo che non le riguarda?

Spingendosi ancora più in la’: poteva, prima del 28 marzo 2017. il giudice dare atto che nel caso di specie non era necessaria alcuna cauzione e quindi rendere immediatamente eseguibili sentenze che coinvolgessero somme superiori ai diecimila euro? E questo accertamento è di competenza del giudice del merito (La circolare Circ. n. 38/E del 29 dicembre 2015 della Agenzia delle entrate – Dir.Affari Legali, Contenzioso e Riscossione Riforma del processo tributario – Decreto legislativo 24 settembre 2015,  n. 156, riconosce è “opportuno pertanto che, nei  giudizi aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito ad una istanza di rimborso di somme superiori a  diecimila euro, gli Uffici provvedano a fornire al giudice eventuali elementi in loro possesso idonei ad incidere negativamente sul giudizio  di solvibilità del contribuente, al fine di ottenere, in caso di soccombenza, la previsione di una idonea garanzia”. Come si vede, l’agenzia considera scontato che la garanzia venga concessa dal giudice del rapporto) o di quello della ottemperanza (o di entrambi)?

Vi è poi il problema delle sentenze che, come quelle catastali, non incidono direttamente sull’ammontare di un debito tributario ma coinvolgono un suo presupposto. Ben si può sostenere che esse non sono toccate dal decreto attuativo e quindi sono   esecutive quanto meno dal 1° giugno 2016.

La stampa specializzata (cfr. Il Sole 24 ore del 5 ottobre 2016) ha dato  notizia di un fluire di sentenze di merito che tentano di scavalcare l’inadempimento ministeriale (Cfr. la sentenza n. 315/13/16 del 20 giugno 2016  della Commissione Tributaria Provinciale di Venezia (Presidente ed estensore il compianto collega Massimo Crotti) nel cui dispositivo si legge “la Commissione accoglie il ricorso ordinando all’Ufficio la immediata restituzione di quanto richiesto, rimborso che, una volta ottenuto, dovrà essere restituito alla Regione nei modi e tempi che la giustizia civile disporrà o nei modi e nei tempi derivanti da sussunti accordi tra società ricorrente e Regione. L’Ufficio viene condannato alle spese di lite, liquidate in 70.000 euro non ritenendo di condizionare parte ricorrente ad alcun vincolo fidejussorio stante la patrimonializzazione del gruppo. La suddetta sentenza è immediatamente esecutiva”.).

  • . 4 La situazione successiva alla emanazione del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze relativo alle garanzie che possono essere imposte al contribuente.

Appare opportuno formulare alcune considerazioni relative ad un sistema ormai compiuto (Si veda, ad esempio la guida de “Il Fisco” del luglio 2016, con scritti di Bruzzone, Lovecchio, Berti, Lamberti, Cicala ).

Già si è posto in luce che l’art.  10 della legge delega 23/2014 ha demandato al legislatore delegato il compito di inserire nell’ordinamento processuale tributario “la previsione dell’immediata esecutorieta’, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie”. In attuazione di questo principio, il  Decreto legislativo 24/09/2015 n. 156, entrato per la parte che ci interessa in vigore il 1° giugno 2016, ha inserito nel testo del d. lgs 546/1992 un articolo  67-bis (esecuzione provvisoria), secondo cui “le  sentenze  emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo  quanto previsto dal presente capo “.

A sua volta il “nuovo” art. 69 del D. lgs. 546/1992 afferma al primo comma “le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso  gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono immediatamente esecutive”. Come si vede, il “nuovo” art. 69 sembra voler circoscrivere la portata del “nuovo” art. 67bis e della stessa legge delega; ad esempio escludendo dalla immediata esecutività le sentenze che riconoscano ad un ente la qualità di Onlus (Ammesso che tali cause ricadano nella giurisdizione del giudice tributario).

Si impone pertanto una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata dell’art. 67bis che non richieda la enunciazione e quantificazione nel dispositivo della somma dovuta dall’ente impositore; ma ritenga sufficiente che essa possa essere dedotta dalla sentenza nel suo insieme (ove ciò non sia possibile siamo di fronte ad una sentenza non definitiva parziale teoricamente inammissibile nel processo tributario ex art. 35, 3° comma del d. lgs 546/1992).

Comunque appare quanto mai opportuno che la formulazione di dispositivi puntuali entri nella prassi dei giudici tributari posto che il vigente art. 70 prescrive il giudice dell’esecuzione debba “attenendosi agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione

Un ulteriore problema è costituito dall’inserimento nel nuovo sistema del principio della risarcibilità del danno derivante dal ritardo nel rimborso di quanto dovuto, già evidenziato dalle sentenze della Cassazione  n. 18027/2016 e n. 16797/2016, di cui si è supra riferito.

In particolare, a noi interessa il risarcimento del danno maturato ex artt. 1224 c.c. e 96 c.p.c. dopo l’emanazione della sentenza tributaria che ha accertato un debito della Amministrazione; mentre sui danni insorti nel periodo anteriore deve pronunciarsi tale sentenza indicando somme che potranno essere incassate con le procedure che andiamo esaminando.

Non vi è qui una norma simile a quella inserita nel codice del processo amministrativo all’art.  112 (disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza) al  comma 3: “può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” (Ammesso che tali cause ricadano nella giurisdizione del giudice tributario ).

E tuttavia sarebbe logico che il giudice tributario dell’ottemperanza potesse pronunciarsi sul risarcimento del danno; in quanto “la parte che vi ha interesse, puo’ richiedere, in tale sede,  l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria”.

Una diversa via per ottenere il risarcimento potrebbe essere costituita anche dalla procedura, un poco barocca delineata nella sentenza 16797/2016: istanza di rimborso, silenzio rigetto dell’Amministrazione, impugnazione avanti al giudice tributario del silenzio- rigetto con  richiesta di ristoro patrimoniale.

Oppure si potrebbe ipotizzare la citazione diretta della Amministrazione; che riterrei debba essere promossa avanti al giudice ordinario dal momento che  i presupposti tributari della obbligazione sono ormai definiti.

In entrambe le ipotesi  è però necessario aver attivato anche la procedura di cui all’art. 70, in caso contrario sarebbe infatti legittimo supporre che il contribuente abbia rinunciato alla immediata esecuzione della sentenza non passata in giudicato temendo l’esito negativo del giudizio  finale.

Infine, ritengo sia incostituzionale per eccesso di delega  l’abrogazione del rinvio alle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata contenuto nel precedente testo dell’art. 70. Posto che la legge delega prescriveva  l’«incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria» (articolo 10, comma 1, lettera b) e il «rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente» (articolo 10, comma 1). Nel parere della sesta commissione del Senato sulla bozza di decreto legislativo delegato si sottolinea che “all’esito vittorioso della causa, la nuova normativa costringe il contribuente medesimo, in caso di inerzia dell´amministrazione, a instaurare un nuovo procedimento, di ottemperanza, presso il giudice tributario per ottenere dall´amministrazione l’esecuzione della sentenza, eventualmente tramite la nomina di un commissario ad acta” (Il dubbio sollevato dal prof. Glendi è recepito nel parere della sesta commissione del Senato ne parre espresso sulla bozza presentata dal Governo).

  • . 5 La impugnazione delle sentenze di ottemperanza: l’intervento della Cassazione.

Come ovvio, occorrerà un certo tempo prima che la Corte di Cassazione abbia modo di pronunciarsi sulle questioni di cui ci siamo occupati.

In proposito, ricordo che ai sensi del comma 10 dell’art.70 cit., contro le sentenze emesse in esito al giudizio di ottemperanza è ammesso soltanto il ricorso in cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento.

In proposito, la giurisprudenza della Cassazione formatasi in riferimento alla esecuzione delle sentenze passate in giudicato   ha affermato che l’art. 70, comma decimo, del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nello stabilire che contro la sentenza conclusiva del giudizio di ottemperanza davanti alle Commissioni Tributarie “è ammesso soltanto ricorso per Cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento”, va inteso, come le altre espresse previsioni normative che avverso provvedimenti giurisdizionali aventi carattere decisorio non ammettono altro mezzo di impugnazione che il ricorso per Cassazione, nel senso che quest’ultimo, ai sensi dell’art. 111 Cost., è sempre consentito per violazione di legge, con riferimento tanto alla legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso che a quella regolatrice del processo (Cass. 5 agosto 2004, n. 15084; 28 febbraio 2011, n. 4796). E questa affermazione è senz’altro applicabile alla esecuzione delle sentenze non ancora passate in giudicato e le relative pronunce saranno, ad esempio nulle in caso di totale difetto di motivazione (sentenza n. 7801 del 23 aprile 2004).

  • . 6 Una considerazione finale:

Per concludere, mi permetto di sottolineare come i ritardi nei rimborsi alimentino un’economia contenziosa e perciò malata a scapito della economia sana e produttiva di beni per la collettività.

Se la Amministrazione versa immediatamente ad un’azienda la somma dovuta in base alla normativa vigente, la contesa finisce; e la azienda può utilizzare la somma ai propri fini commerciali o produttivi.

Se invece i tempi si allungano, l’azienda potrà promuovere un contenzioso, chiederà i danni, che potranno risultare – come nell’esempio concreto già esposto –  cospicui. E nel frattempo magari la impresa in bonis verrà rimpiazzata dal curatore fallimentare.

Forse il PIL non ne avrà pregiudizio, posto che nel calcolo del prodotto interno entrano anche le spese legali (come quelle mediche ed ospedaliere) ma l’economia reale non ne avrà un adeguato beneficio.

Prof. Avv. Mario Cicala