Convegno Lerici, 30 novembre 2018
“L’attuazione degli strumenti di deflazione anche alla luce del decreto n. 119/18 c.d. pace fiscale”
SOMMARIO: §. 1 Premessa. §. 2 Gli aspetti innovativi della riforma. §. 3 Gli aspetti di continuità della conciliazione tributaria pre e post riforma. §. 4 Raffronto tra la conciliazione tributaria e la transazione civilistica: analogie e differenze.
- . 1 Premessa.
L’istituto deflativo della conciliazione rappresenta uno tra i settori più significativamente innovati dal D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156.
Anteriormente all’entrata in vigore della modifica legislativa, e dunque fino alla data del 31 dicembre 2015, l’istituto era disciplinato in un’unica norma, il previgente art. 48 D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 (introdotto dall’art. 14, comma 1, D.lgs. 19 giugno 1997 n. 218).
La predetta norma, nonostante la sua rubrica (“Conciliazione giudiziale”), riuniva in sé due situazioni tra loro diverse, ossia la vera e propria conciliazione “giudiziale” o “in udienza” (altrimenti detta “conciliazione ordinaria”, di cui ai commi 1-3), e quella perfezionata al di fuori dell’udienza e successivamente “portata a conoscenza” della Commissione per i provvedimenti conseguenti sul processo tributario (cd. “conciliazione abbreviata” o “semplificata”, di cui al comma 5).
Con l’art. 9, comma 1, lettere s) e t), D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156, il Legislatore ha distinto più chiaramente le due fattispecie della conciliazione fuori udienza e della conciliazione in udienza, riservando ad ognuna di esse una norma apposita (rispettivamente, gli artt. 48 e 48-bis D.lgs. 546/1992), ed inserendo poi una disposizione comune ad entrambe le fattispecie (art. 48-ter D.lgs. 546/1992).
Come nel precedente sistema, la conciliazione (sia fuori udienza che in udienza) continua a rappresentare un istituto deflativo del contenzioso tributario a carattere premiale, applicabile a qualsiasi controversia tributaria, senza alcuna limitazione né di importo, né soggettiva (essendo stato rimosso il precedente limite, secondo cui la lite assoggettata a reclamo-mediazione ex art. 17-bis D.lgs. 546/1992 non era suscettibile di conciliazione).
In tal senso, essa continua a differenziarsi dagli istituti del reclamo e della mediazione di cui all’art. 17-bis D.lgs. 546/1992, applicabili alle controversie di valore fino a cinquantamila euro (soglia così elevata dai precedenti ventimila euro, da parte dell’art. 10, comma 3-bis, D.L. 24 aprile 2017 n. 50, convertito con modificazioni in Legge 21 giugno 2017 n. 96), ad esclusione di quelle relative a tributi costituenti risorse proprie tradizionali dell’Unione Europea o all’impugnazione di atti volti al recupero di aiuti di Stato (art. 47-bis D.lgs. 546/1992).
Si differenzia altresì dalla definizione agevolata di cui all’art. 6 D.L. 23 ottobre 2018 n. 119, certamente applicabile alle controversie tributarie in cui è parte l’Agenzia delle Entrate (con esclusione di quelle relative alle risorse proprie tradizionali dell’Unione europea, all’Iva riscossa all’importazione e alle somme dovute a titolo di recupero degli aiuti di Stato) ed applicabile alle controversie riguardanti enti territoriali, solo a condizione che questi ultimi stabiliscano l’applicazione delle relative disposizioni alle controversie tributarie che riguardano loro stessi o un proprio ente strumentale, entro il termine del 31 marzo 2019.
- . 2 Gli aspetti innovativi della riforma.
Numerosi sono gli aspetti di innovazione della nuova disciplina della conciliazione tributaria rispetto a quella previgente, principalmente riconducibili a tre aspetti.
Il primo è rappresentato dall’estensione dell’istituto della conciliazione al secondo grado del giudizio.
La conciliazione, sia fuori udienza, sia in udienza, risulta oggi utilizzabile anche dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale, seppure con un grado di premialità inferiore a quello applicabile nel caso in cui essa sia raggiunta in primo grado.
La conciliazione della controversia tributaria in primo grado comporta infatti l’applicazione delle sanzioni amministrative nella misura del quaranta per cento del minimo previsto dalla legge, mentre la conciliazione in grado di appello comporta l’applicazione di dette sanzioni nella misura del cinquanta per cento del minimo previsto dalla legge (art. 48-ter, comma 1, D.lgs. 546/1992).
Dal momento che la normativa non prevede preclusioni in tal senso, si ritiene che la conciliazione in grado di appello possa essere raggiunta anche quando tale procedura sia stata tentata senza successo in primo grado, anche se ciò comporterà ovviamente l’applicazione del grado di premialità ridotto previsto per il secondo grado di giudizio.
Anche a seguito delle modifiche normative apportate dal D.lgs. 156/2015, l’istituto della conciliazione resta invece completamente precluso dinanzi alla Corte di Cassazione, stante la particolare natura di tale processo, limitato ai soli aspetti di legittimità e tale da escludere necessariamente qualsiasi accertamento di fatto (si veda, in senso confermativo, Circolare Agenzia delle Entrate 29 dicembre 2015, n. 38/E).
Sotto tale aspetto, la conciliazione presenta un ambito applicativo più ampio rispetto a quello del reclamo-mediazione (istituto di per sé applicabile al solo procedimento di primo grado) e più ristretto rispetto alla definizione agevolata ex art. 6 D.L. 119/2018, applicabile alle controversie “pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di Cassazione e anche a seguito di rinvio”.
Peraltro, la conciliazione non prevede alcun limite temporale legato alla data di instaurazione del giudizio, e si presenta quindi come istituto di carattere generale, mentre la definizione agevolata si applica “alle controversie in cui il ricorso di primo grado è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore del presente decreto” (24 ottobre 2018), e si presenta quindi sotto tale aspetto come istituto di carattere eccezionale.
Altro aspetto di radicale modifica apportato dall’art. 9, comma 1, lettere s) e t), D.lgs. 156/2015 è rappresentato dalle modalità di perfezionamento dell’istituto della conciliazione.
Nella disciplina vigente fino al 31 dicembre 2015, la conciliazione si perfezionava con il versamento dell’intero importo dovuto o, in caso di rateazione, con quello della prima rata, da effettuarsi entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale in udienza o dalla sottoscrizione dell’accordo raggiunto fuori udienza, secondo il modello del cd. “pagamento-perfezionante”, in analogia a quanto previsto per l’omologo istituto dell’accertamento con adesione (artt. 8 e 9 D.lgs. 19 giugno 1997 n. 218).
A decorrere dal 1° gennaio 2016, la conciliazione si perfeziona invece “con la sottoscrizione dell’accordo” (art. 48, comma 4, D.lgs. 546/1992) o “con la redazione del processo verbale” (art. 48-bis, comma 3, D.lgs. 546/1992), ossia secondo un modello di cd. “consenso-perfezionante”.
Anche sotto l’aspetto del perfezionamento, la conciliazione si differenzia sia dal reclamo-mediazione ex art. 17-bis D.lgs. 546/1992, sia dalla definizione agevolata ex art. 6 D.L. 119/2018.
La prima si perfeziona infatti secondo il modello del “pagamento-perfezionante”, ossia con il versamento delle somme dovute o della prima rata entro venti giorni dalla sottoscrizione dell’accordo, quando ha ad oggetto un atto impositivo o della riscossione; secondo il modello del “consenso-perfezionante”, quando ha ad oggetto “liti da rimborso”, ossia restituzione di somme al contribuente.
La seconda si perfeziona nella generalità dei casi “con la presentazione della domanda … e con il pagamento degli importi dovuti o della prima rata entro il 31 maggio 2019”, ossia secondo un modello di “pagamento-perfezionante”. Solo eccezionalmente, quando non vi siano somme da versare, la definizione si perfeziona con la sola presentazione della domanda, e dunque secondo un modello di “consenso-perfezionante”.
La modifica normativa relativa alle modalità di perfezionamento della conciliazione ha avuto due importanti conseguenze.
Da un lato, essa ha allontanato l’istituto in esame da quello dell’accertamento con adesione rispetto al quale, nel proprio impianto originario dettato dal D.lgs. 19 giugno 1997 n. 218 (“Disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale”), presentava evidenti affinità.
Ad oggi, infatti, mentre la conciliazione di perfeziona su base consensuale (“con la sottoscrizione dell’accordo” o “con la redazione del processo verbale”), l’accertamento con adesione continua ancora a perfezionarsi su base reale (ossia, ai sensi degli artt. 8 e 9 D.lgs. 218/1997, “con il versamento delle somme dovute per effetto dell’accertamento con adesione” o “con il versamento della prima rata”, da effettuarsi nel termine di venti giorni dalla redazione dell’atto di accertamento con adesione).
D’altro lato, l’adozione di una modalità di perfezionamento della conciliazione fondata sull’accordo, anziché sul pagamento, ha agevolato l’estensione dell’istituto deflativo in esame alle cd. “liti da rimborso”.
Sotto la vigenza della precedente disciplina, si dubitava della compatibilità della conciliazione tributaria con tale tipologia di controversie: l’ostacolo maggiore era rappresentato proprio dalla difficoltà nell’individuazione di un “pagamento-perfezionante” in caso di conciliazione sul diritto al rimborso in favore del contribuente.
La nuova normativa elimina ogni perplessità a riguardo, prevedendo espressamente che l’accordo raggiunto fuori udienza o il processo verbale di conciliazione in udienza costituiscano “titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente” (art. 48, comma 4, e art. 48-bis, comma 3, D.lgs. 546/1992).
Viene quindi espressamente tipizzata l’ipotesi di una conciliazione che preveda un’obbligazione di dare a carico dell’Amministrazione, anche se la circostanza che gli artt. 48, comma 4, e 48-bis, comma 3, D.lgs. 546/1992 utilizzino la locuzione “titolo”, anziché quella di “titolo esecutivo”, ha fatto sorgere il dubbio sull’effettiva facoltà, per il contribuente, di far apporre la formula esecutiva su tali atti, in caso di inadempimento dell’Ente impositore, dell’Agente della riscossione o del Concessionario iscritto all’albo di cui all’art. 53 D.lgs. 446/1997.
L’ostacolo più significativo, in tal senso, è rappresentato dalla circostanza che il sistema processuale civile italiano si ispira ad un principio di tassatività dei titoli esecutivi, che sono quindi un numerus clausus, ossia sono solo quelli definiti espressamente come tali dall’art. 474 c.p.c. o da una disposizione di legge speciale, e non sono suscettibili di estensioni analogiche.
La perplessità di cui sopra è rafforzata dalla circostanza che istituti civilistici analoghi alla conciliazione, quali la mediazione o la negoziazione assistita, definiscano i relativi accordi come “titoli esecutivi” (si vedano, relativamente al verbale di mediazione, l’art. 12, comma 2, D.lgs. 04 marzo 2010 n. 28 e, relativamente all’accordo di negoziazione assistita, l’art. 5, comma 1, D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito in Legge 10 novembre 2014 n. 162).
Pertanto, ad oggi permane incertezza sulle conseguenze dell’inadempimento dell’Ente impositore, dell’agente della riscossione o del concessionario iscritto all’albo ex art. 53 D.lgs. 446/1997 rispetto all’obbligazione di rimborso contenuta in un processo verbale di conciliazione o in un accordo conciliativo raggiunto fuori udienza.
Più chiare risultano invece le conseguenze dell’inadempimento del contribuente rispetto alla conciliazione raggiunta in una controversia tributaria relativa all’impugnazione di un atto di accertamento o di riscossione.
Stabilisce infatti l’art. 48-ter, comma 3, D.lgs. 546/1992 che “in caso di mancato pagamento delle somme dovute o di una delle rate, compresa la prima, entro il termine di pagamento della rata successiva, il competente ufficio provvede all’iscrizione a ruolo delle residue somme dovute a titolo di imposta, interessi e sanzioni, nonché della sanzione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta”.
Ultimo aspetto di rafforzamento della conciliazione tributaria è rappresentato dalla sua estensione anche alle liti tributarie soggette agli istituti del reclamo-mediazione.
Il testo previgente dell’art. 17-bis, comma 1, D.lgs. 546/1992 disponeva infatti che: “Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48”. In altri termini, il testo dell’art. 17-bis, comma 1, D.lgs. 546/1992, in vigore fino al 31 dicembre 2015, prevedeva gli istituti del reclamo-mediazione e della conciliazione tributaria come tra loro del tutto alternativi.
Tale limite viene meno con la riforma dell’art. 17-bis D.lgs. 546/1992, operata dall’art. 9, comma 1, lettera l), D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156.
Ad oggi, quindi, anche le controversie tributarie soggette a reclamo-mediazione, ossia tutte le “controversie di valore non superiore a cinquantamila euro”, qualunque sia l’Ente impositore, qualora approdate alla fase giudiziale per mancato esito positivo della fase pre-contenziosa del reclamo, possono comunque essere conciliate.
Ciò comporterà tuttavia l’applicazione di un grado di premialità inferiore a quello previsto per la fattispecie di perfezionamento della fase stragiudiziale di reclamo- mediazione.
La conciliazione, ancorché raggiunta nel corso del primo grado del giudizio, comporta infatti una “premialità attenuata” rispetto al reclamo-mediazione, che si estrinseca nell’applicazione delle sanzioni amministrative nella misura del quaranta per cento, anziché del trentacinque per cento, del minimo previsto dalla legge.
- . 3 Gli aspetti di continuità della conciliazione tributaria pre e post riforma.
Malgrado le significative innovazioni sopra delineate, molti aspetti della conciliazione tributaria appaiono immutati a seguito della riforma operata dal D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156.
Il primo aspetto di continuità è rappresentato dalla natura della conciliazione, che era (prima della riforma) ed è rimasta quella di un istituto deflativo del contenzioso tributario a carattere premiale.
A seguito della riforma, il carattere di premialità risulta anzi accentuato, essendo venuta meno la previsione (contenuta nell’art. 48 D.lgs. 546/1992 in vigore fino al 31 dicembre 2015) secondo cui la misura delle sanzioni amministrative “non può essere inferiore al 40 per cento dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo”.
Non è inoltre mutato, rispetto al periodo precedente l’entrata in vigore del D.lgs. 156/2015, il necessario presupposto della conciliazione, rappresentato dall’esistenza di una controversia tributaria pendente, ossia di un ricorso non solo notificato, ma anche depositato ed iscritto a ruolo presso la Segreteria della Commissione. In tal senso, si veda Cass. civ., sez. V, 06 ottobre 2001 n. 12314, che definisce la conciliazione come “… una forma di composizione convenzionale della lite nella sede del processo”, con la conseguenza che essa postula “non soltanto la formale contestazione della pretesa erariale nei confronti dell’Amministrazione, ma anche l’instaurazione del rapporto processuale con l’organo giudicante mediante deposito del ricorso notificato presso la segreteria della Commissione tributaria, la cui mancanza determina l’inefficacia della conciliazione medesima”.
Anche sotto tale aspetto, la conciliazione si differenzia dal reclamo-mediazione ex art. 17-bis D.lgs. 546/1992, che richiede la notifica del ricorso, mentre sospende il termine per il suo deposito e la costituzione in giudizio del ricorrente per la durata di novanta giorni (eventualmente “maggiorati” della cd. “sospensione feriale”), durante i quali deve essere esperita la procedura di reclamo-mediazione. Il deposito del ricorso anteriormente alla scadenza dei novanta giorni dalla sua notifica non determina peraltro inammissibilità dello stesso, ma solo improcedibilità, dovendo la Commissione rinviare la trattazione allo scopo di consentire l’espletamento della procedura di reclamo-mediazione.
Si differenzia altresì dalla definizione agevolata di cui all’art. 6 D.L. 119/2018, applicabile “alle controversie in cui il ricorso di primo grado è stato notificato alla controparte – e non necessariamente depositato- entro la data di entrata in vigore del decreto” (24 ottobre 2018).
Parimenti immutata risulta l’estensione dell’accordo di conciliazione, che può definire la controversia tributaria in modo totale o parziale (mentre il positivo espletamento della procedura di reclamo-mediazione o l’adesione alla definizione agevolata implicano entrambe necessariamente la definizione totale della controversia).
L’estensione totale o solo parziale della conciliazione tributaria comporta differenti conseguenze sul processo tributario.
Infatti, se è già stata fissata l’udienza di trattazione, la Commissione pronuncia:
- in caso di conciliazione totale, sentenza di cessazione della materia del contendere, la quale, ai sensi dell’art. 46 D.lgs. 546/1992, costituisce una delle modalità di estinzione del giudizio tributario. Le spese si intendono di regola compensate, salvo che le parti abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione (o nell’accordo conciliativo raggiunto fuori udienza);
- in caso di conciliazione parziale, ordinanza di parziale cessazione della materia del contendere, nella quale dovranno anche essere dati i provvedimenti ordinatori sull’ulteriore corso del giudizio (posto che l’art. 35, comma 3, D.lgs. 546/1992 vieta le sentenze non definitive o parziali, ossia limitate solo ad alcune delle domande).
Se la data dell’udienza di trattazione non è ancora stata fissata, provvede il Presidente della Sezione con decreto.
- . 4 Raffronto tra la conciliazione tributaria e la transazione civilistica: analogie e differenze.
Il D.lgs. 156/2015 ha quindi significativamente innovato le modalità di concreto svolgimento dell’istituto della conciliazione, ma ha invece lasciato inalterata la natura di tale istituto, spesso accostato dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla figura contrattuale della transazione (artt. 1965 e ss. c.c.), anche se con essa non completamente identificabile.
L’accostamento tra l’istituto della conciliazione tributaria e quello della transazione civilistica è stato operato dalla giurisprudenza soprattutto al fine di sottolineare il loro comune carattere novativo, tale da estinguere l’obbligazione originaria e da determinare la sua sostituzione con un’obbligazione del tutto nuova per oggetto e per titolo.
La giurisprudenza ha quindi più volte affermato che la conciliazione tributaria presenta carattere novativo delle reciproche posizioni soggettive, al punto di comportare l’estinzione della pretesa fiscale originaria, unilaterale e contestata, e la sua sostituzione con una certa e concordata, tanto che il relativo processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute (Cass. civ., sez. V, 19 giugno 2009 n. 14300 e Cass. civ., sez. V, 24 febbraio 2017 n. 4807: sulla base di tale presupposto, la Corte ha ritenuto di non poter concedere la misura cautelare dell’ipoteca o del sequestro conservativo ex art. 22 D.lgs. 472/1997, essendo il titolo legittimante – atto di contestazione, provvedimento di irrogazione delle sanzioni o processo verbale di constatazione- venuto meno per effetto della conciliazione giudiziale).
Per la stessa ragione, è stata ritenuta infondata l’istanza di rimborso delle somme versate in conciliazione, a seguito di una sentenza di assoluzione nel processo penale scaturito dai medesimi fatti che avevano dato origine agli atti di accertamento coinvolti dall’accordo conciliativo: infatti, escludono la ripetizione sia l’inefficacia del giudicato penale nel processo tributario, sia l’autonomia giuridica della conciliazione rispetto all’atto impositivo (CTR Toscana, sez. XIII, 13 aprile 2017 n. 994).
Parte della giurisprudenza ha accentuato a tal punto il carattere negoziale della conciliazione giudiziale, da ritenere applicabile la norma civilistica- contrattuale di cui all’art. 1430 c.c., secondo cui “l’errore di calcolo non dà luogo ad annullamento del contratto, ma solo a rettifica, tranne che, concretandosi in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso” (Cass. civ., sez. V, 03 agosto 2006 n. 21325). Ciò in quanto “la conciliazione giudiziale … costituisce un istituto deflativo di tipo negoziale, attinente all’esercizio di poteri dispositivi delle parti, che postula la formale contestazione della pretesa erariale nei confronti dell’Amministrazione e l’instaurazione del rapporto processuale con l’organo giudicante, e si sostanzia in un accordo tra le parti, paritariamente formato, avente efficacia novativa delle rispettive pretese, in ordine al quale il giudice tributario è chiamato ad esercitare un controllo di legalità meramente estrinseco, senza poter esprimere alcuna valutazione relativamente alla congruità dell’importo sul quale l’Ufficio e il contribuente si sono accordati. Pertanto, l’errore di calcolo in cui le parti siano incorse nella definizione dell’imponibile o nella determinazione dell’entità del prelievo ricavabile dai parametri di tassazione, in tanto può dar luogo a rettifica, in quanto ricorrano i presupposti di cui all’art. 1430 cod. civ.”.
Malgrado le analogie sopra evidenziate, gli istituti della transazione civilistica e della conciliazione tributaria non possono tuttavia ritenersi del tutto identici.
In primo luogo, nettamente diverso è il loro oggetto: la transazione civilistica può infatti avere ad oggetto esclusivamente diritti disponibili (art. 1966 c.c.), mentre la conciliazione tributaria concerne per sua natura posizioni e crediti di natura indisponibile.
Ancora, la transazione è quel contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o ne prevengono una che potrebbe insorgere tra loro. Elemento imprescindibile della transazione civilistica è quindi costituito dalle reciproche concessioni che le parti si fanno l’un l’altra (aliquid datum, aliquid retentum).
Al contrario, il componimento conciliativo in sede tributaria potrebbe almeno teoricamente consistere, oltre che in “reciproche concessioni” tra le parti, anche in una rinuncia totale alla propria pretesa da parte dell’Amministrazione finanziaria o, al contrario, in un integrale riconoscimento della fondatezza della pretesa tributaria da parte del contribuente (entrambi, ovviamente, accettati dalle controparti).
Infine, la transazione di matrice civilistica costituisce il risultato della sola volontà negoziale delle parti, che infatti si estrinseca nella stipulazione di un contratto e che non presuppone in alcun modo l’intervento di terzi estranei.
La conciliazione tributaria, al contrario, postula pur sempre l’intervento del giudice, non solo quando avvenga in udienza- alla quale l’organo giudicante partecipa per definizione-, ma anche quando sia raggiunta fuori udienza. Anche in tale ipotesi, infatti, malgrado la conciliazione si perfezioni con la sottoscrizione dell’accordo (art. 48, comma 4, D.lgs. 546/1992), occorre pur sempre che quest’ultimo venga portato a conoscenza della Commissione tributaria per i provvedimenti conseguenti sul giudizio in corso.
Anche quando raggiunta “fuori udienza”, la conciliazione, oltre agli effetti sostanziali propri della transazione, produce anche necessariamente effetti processuali sul giudizio in corso e, in tal senso, non si esaurisce nella sola volontà negoziale delle parti, ma richiede necessariamente l’intervento del Giudice.
Proprio il controllo da parte di tale soggetto ha fatto sì che l’istituto della conciliazione potesse non entrare in conflitto con il principio cardine dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.
E’ vero, infatti, che l’obbligazione tributaria crea un vero e proprio diritto in capo al soggetto pubblico, che non può discrezionalmente rinunciarvi.
Già anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione, il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria risultava codificato nell’art. 13 R.D. 23 dicembre 1923 n. 3269, che vietava al Ministero delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti ed a qualsiasi autorità pubblica di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovrattasse stabilite da questa legge, né sospendere dalla riscossione senza divenirne personalmente responsabili”.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, tale principio risulta ricavabile dagli artt. 23, 53 e 97 della Costituzione (che, rispettivamente, prevedono il principio di riserva relativa di legge in materia tributaria, il principio secondo cui tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva ed i principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione).
Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria ha fatto dubitare della legittimità costituzionale di istituti, quali l’autotutela, l’accertamento con adesione o la conciliazione.
In particolare, per gli ultimi due istituti sopra menzionati, la legittimità neppure può essere giustificata- come invece avviene per l’autotutela- sulla base di un errore dell’Amministrazione finanziaria.
E’ però altrettanto vero che, rispetto ad un credito ancora contestato giudizialmente, e perciò non ancora accertato in modo definitivo, non è corretto parlare di “rinuncia al credito” (che sarebbe certamente vietata dal principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria), ma semmai più correttamente deve parlarsi di “rinuncia ad una pretesa”, che con tale principio non può entrare in conflitto.
Non sarebbe quindi tecnicamente corretto affermare che la parte pubblica – nel dare vita alla conciliazione – rinunci ad un diritto tributario (per sua natura indisponibile, e quindi sottratto alla transazione, che può avere ad oggetto solo diritti disponibili, ex art. 1966 c.c.).
Condizione fondamentale per il perfezionamento dell’accordo tra Amministrazione finanziaria e contribuente era (anteriormente alla riforma del 2015) ed è tuttora la presenza di una pronuncia giurisdizionale di convalida dell’intesa raggiunta dalle parti rispetto non già ad un “credito tributario”, quanto piuttosto ad una “pretesa tributaria” ancora giudizialmente contestata, e quindi ancora priva del crisma della definitività.
In conclusione, la riforma dell’istituto della conciliazione, operata dal Legislatore del 2015, pur incidendo in modo significativo sulle modalità concrete di svolgimento di tale istituto, non ne ha alterato l’essenza e la natura ed ha in particolare lasciato inalterato il ruolo del giudice tributario, quale garante dei principi costituzionali della legalità dell’accordo raggiunto dalle parti.
Dott.ssa Cecilia Domenichini
(Unicusano-Roma)