Convegno Lerici, 05 aprile 2019

“LE ENTRATE LOCALI  tra procedimenti deflattivi, sanzionatori e responsabilità erariale”

SOMMARIO: §. 1 Le problematiche di compatibilità tra gli istituti deflattivi del contenzioso e il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. §. 2 I criteri di cui all’art. 17-bis, comma 5, D.lgs. 546/1992 e la loro possibile estensione alle procedure deflattive diverse dal reclamo-mediazione. §. 3 L’incertezza delle questioni controverse e il richiamo all’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c. §. 4 Problematiche interpretative sull’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c.: pronuncia di rigetto o di inammissibilità? §. 5 Il criterio della “certezza” della questione giuridica. §. 6 Il grado di sostenibilità della pretesa tributaria. §. 7 L’economicità dell’azione amministrativa. §. 8 Considerazioni conclusive.

  • . 1 Le problematiche di compatibilità tra gli istituti deflattivi del contenzioso e il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

La discrezionalità dell’Ufficio tributario nell’ambito dei procedimenti di mediazione e conciliazione, e più in generale nell’ambito di tutti gli istituti deflattivi del contenzioso tributario, pone una problematica di possibile conflitto con il principio cardine dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione, tale principio trovava il proprio fondamento nell’art. 13 R.D. 23 dicembre 1923 n. 3269, che vietava al Ministero delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti ed a qualsiasi altra autorità pubblica di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovrattasse stabilite da questa legge, né sospendere dalla riscossione senza divenirne personalmente responsabili”.

Malgrado il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria non trovi espressa “consacrazione” in alcuna norma della Costituzione, lo stesso viene ritenuto desumibile dal combinato disposto degli artt. 23, 53 e 97 della Costituzione.

La prima di tali norme, disponendo che “nessuna prestazione … patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, contiene una riserva –ancorché relativa- di legge in materia tributaria. Essa comporta che l’obbligazione tributaria sia puntualmente disciplinata dalla legge in tutti i propri aspetti essenziali, sia soggettivi che oggettivi. Tale principio, che costituisce un corollario del più generale principio di legalità, implica che l’obbligazione tributaria abbia natura vincolante non solo per il soggetto passivo del tributo, ma anche per l’ente impositore, che esercita i poteri connessi senza alcun margine di discrezionalità.

La seconda delle norme costituzionali citate fissa il principio per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, mentre l’ultima pone il canone di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, vietando a quest’ultima ingiustificati trattamenti difformi tra contribuenti che si trovino in una situazione contributiva analoga.

In base al combinato disposto di tali tre precetti costituzionali, si continuò dunque a ritenere che l’obbligazione tributaria creasse un vero e proprio diritto in capo al soggetto pubblico, il quale non poteva discrezionalmente rinunciarvi.

Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria ha fatto dubitare dell’ammissibilità costituzionale sia dell’autotutela amministrativa, sia degli istituti deflattivi del contenzioso tributario, quali l’accertamento con adesione e la conciliazione (entrambi introdotti nel nostro ordinamento con D.lgs. 19 giugno 2018 n. 218) o il più recente reclamo-mediazione (art. 17-bis D.lgs. 546/1992, introdotto dall’art. 39, comma 9, D.L. 06 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni in Legge 15 luglio 2011 n. 111 e successivamente modificato).

Peraltro, mentre rispetto all’autotutela la rinuncia o la rideterminazione della pretesa tributaria potevano trovare un fondamento nel riconoscimento, da parte dell’Amministrazione, di un proprio errore, o comunque di una propria azione non conforme alle norme, tale giustificazione non poteva ravvisarsi né nel caso dell’accertamento con adesione, né in quello della conciliazione.

I problemi di compatibilità di tali istituti con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria divenivano quindi ancora più pregnanti rispetto a quelli creati dall’autotutela.

Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza sono pervenute comunque ad ammettere la legittimità costituzionale di tali due istituti, sul rilevo che l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, pur impedendo all’Amministrazione la facoltà di differenziare ad libitum le imposizioni, non costituisce un principio di portata assoluta, ma deve essere contemperata con altre esigenze tutelate dall’ordinamento, quali la certezza dei rapporti giuridici e l’efficienza e la sollecitudine della riscossione delle entrate pubbliche.

In particolare, rispetto ad un credito ancora contestato giudizialmente, e perciò non ancora accertato in modo definitivo, non è corretto parlare di “rinuncia al credito (che certamente sarebbe vietata dal principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria), ma semmai si deve più correttamente parlare di “rinuncia ad una pretesa”, che con tale principio non può entrare in conflitto.           

Non sarebbe quindi tecnicamente corretto affermare che la parte pubblica – nel dare vita ad un accertamento con adesione o ad una conciliazione tributaria – rinunci ad un “diritto tributario” (per sua natura indisponibile, e quindi sottratto alla transazione, che può avere ad oggetto solo diritti disponibili ex art. 1966 c.c.). Piuttosto, appare corretto parlare di una rinuncia (totale o parziale) ad una “pretesa tributaria” ancora controversa sub judice, e quindi non ancora dotata del crisma della definitività.

Il fatto che, in funzione di un diverso interesse costituzionalmente protetto, quale l’esigenza di certezza e celerità della riscossione, e nell’ambito di procedimenti specifici, volti a prevenire o definire controversie, il Legislatore consenta all’Amministrazione di disporre, entro determinati limiti, del credito tributario, non costituisce quindi negazione del generale principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

In tal senso la giurisprudenza di legittimità che, in una fattispecie relativa ad un’esdebitazione (art. 142 Legge fallimentare” ha espressamente statuito che la stessa presunta “irrinunciabilità” dei crediti tributari è, del resto, posta in crisi da disposizioni come art. 17-bis nel corpo della L. n. 546 del 1992 introdotto dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 39, comma 9, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui la Amministrazione nel formulare la sua eventuale proposta di mediazione deve aver “riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”; cioè, sembrerebbe alla eterna massima “pochi maledetti e subito”, che induce a rinunciare ad una pretesa giuridicamente fondata, ma di incerto incasso, accettando una somma minore ma di sicuro incasso” (Cass. civ., sez. VI-5, ord., 01.07.2015 n. 13542).

Rispetto all’istituto della conciliazione, quello del reclamo-mediazione (che interessa tutte le controversie tributarie di valore fino a cinquantamila euro, dopo la modifica apportata dall’art. 10, comma 1, D.L. 24 aprile 2017 n. 50, convertito con modificazioni in Legge 21 giugno 2017 n. 96, applicabile ai ricorsi tributari notificati a partire dal 1° gennaio 2018) pone problematiche di compatibilità analoghe, e forse ancora maggiori, rispetto al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Mentre, infatti, nella conciliazione l’accordo delle parti (raggiunto sia in udienza, sia fuori udienza) è comunque soggetto ad un vaglio giudiziale, seppure limitato alla sola legittimità e non esteso al merito-convenienza, nel reclamo-mediazione quest’ultimo è del tutto assente (poiché, in caso di esito positivo del reclamo o della proposta di mediazione, il ricorso non viene iscritto a ruolo e portato a conoscenza del Giudice, ma si esaurisce interamente in fase pre-contenziosa e stragiudiziale).

  • . 2 I criteri di cui all’art. 17-bis, comma 5, D.lgs. 546/1992 e la loro possibile estensione alle procedure deflattive diverse dal reclamo-mediazione.

Anche per tale motivo, è proprio nell’ambito della norma dedicata al procedimento di reclamo-mediazione (art. 17-bis D.lgs. 546/1992), ossia laddove manca il vaglio giurisdizionale sull’accordo raggiunto tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, che il Legislatore ha sentito l’esigenza di enucleare alcuni criteri-guida che devono essere tenuti presenti dall’Amministrazione finanziaria nella formulazione di una proposta di mediazione.

Stabilisce infatti l’art. 17-bis, comma 5, D.lgs. 546/1992 che “L’organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo o l’eventuale proposta di mediazione, formula d’ufficio una propria proposta avuto riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa. L’esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali e assistenziali la cui base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi”.

Tali tre criteri, peraltro, pur essendo espressamente codificati solo nella norma relativa al reclamo-mediazione, ed in particolare nella previsione relativa alla proposta di mediazione formulata dall’Ufficio (art. 17-bis, comma 5, D.lgs. 546/1992), possono ragionevolmente essere ritenuti validi per tutte le procedure lato sensu “conciliative” che coinvolgano l’Amministrazione finanziaria o l’Ente locale, inclusi quindi anche la conciliazione tributaria (artt. 48, 48-bis e 48-ter D.lgs. 546/1992) e l’accertamento con adesione (artt. 8-9 D.lgs. 218/1997).

Del resto, tali procedure appaiono accomunate anche sotto il profilo della responsabilità dei rappresentanti dell’Ente o dell’Agente della Riscossione che concludono l’accordo, limitata unicamente al dolo, e non estesa anche alla colpa grave, in deroga alla norma generale in materia di responsabilità contabile di cui all’art. 1, comma 1, Legge 14 gennaio 1994 n. 20.

Tale ultima norma dispone infatti che “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo. Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi”.

In deroga a tale norma generale, l’art. 29, comma 7, D.L. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni in Legge 30 luglio 2010 n. 122, stabilisce che “Con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate ai fini della definizione del contesto mediante gli istituti previsti dall’articolo 182-ter del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (concordato preventivo e accordi di ristrutturazione del debito), dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 (accertamento con adesione), dall’articolo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni (conciliazione tributaria), dall’articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e successive modificazioni (ruling internazionale, oggi abrogato), dagli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni (procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative), nonché al fine della definizione delle procedure amichevoli relative a contribuenti individuati previste dalle vigenti convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi e dalla convenzione 90/436/CEE, resa esecutiva con legge 22 marzo 1993, n. 99, la responsabilità di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e successive modificazioni, è limitata alle ipotesi di dolo.

Analogo regime è previsto anche per i funzionari dell’Ente o dell’Agente della Riscossione che concludano accordi di reclamo-mediazione, in forza della previsione di cui all’art. 39, comma 10, D.L. 06 luglio 2011 n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011 n. 111 (“Ai rappresentanti dell’ente e dell’agente della riscossione che concludono la mediazione o accolgono il reclamo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”).

Tale limitazione di responsabilità, che nella versione originaria della norma era riferita solo ai funzionari dell’ente, è stata espressamente estesa anche ai funzionari dell’Agente della riscossione da parte dell’art. 10, comma 3, D.L. 24 aprile 2017 n. 50, convertito con modificazioni in Legge 21 giugno 2017 n. 96.

Come chiarito dalla Circolare Agenzia delle Entrate 22 dicembre 2017 n. 30/E, la predetta aggiunta normativa “appare coerente con l’estensione dell’ambito di applicazione del reclamo/mediazione agli atti emessi dall’agente della riscossione, operata dall’art. 9, comma 1, lettera l) del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 e risponde alla necessità di evitare una ingiustificata disparità di trattamento, rispetto agli enti impositori, dell’agente della riscossione”.

L’attuale testo dell’art. 39, comma 10, D.L. 98/2011, ancora oggi, non menziona invece i funzionari dei soggetti iscritti all’albo di cui all’art. 53 D.lgs. 446/1997 che accolgano un reclamo o formulino una proposta di mediazione.

La norma appare quindi ad oggi ancora lacunosa; tuttavia, l’estensione anche a tali soggetti della limitazione di responsabilità alle sole fattispecie di dolo, qualora accolgano un reclamo o formulino una proposta di mediazione, appare una soluzione imposta da ragioni di uniformità di trattamento, tanto più considerando che gli atti suscettibili di reclamo-mediazione appaiono identici sia per l’Agente della Riscossione, sia per i Concessionari privati (ossia, secondo quanto chiarito da Circolare Agenzia delle Entrate n. 38/E del 29 dicembre 2015: cartelle di pagamento per vizi propri; fermi di beni mobili registrati ex art. 86 DPR 602/1973; ipoteche su immobili ex art. 77 del predetto Decreto).

In ogni caso, se le procedure del reclamo-mediazione, da un lato, e quelle della conciliazione e dell’accertamento con adesione, dall’altro, sono accomunate  dalla legge per ciò che concerne la responsabilità contabile del funzionario che le conclude, non appare irragionevole accomunarle anche per ciò che concerne i criteri, che devono guidare la scelta dell’Amministrazione finanziaria, dell’Ente locale o dell’Agente della Riscossione se arrivare o no alla soluzione lato sensu “conciliativa”.

Si tratta dei criteri di “incertezza delle questioni controverse”, “grado di sostenibilità della pretesa tributaria” e “economicità dell’azione amministrativa”.

  • . 3 L’incertezza delle questioni controverse e il richiamo all’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c.

Con la locuzione “incertezza delle questioni controverse” il Legislatore fa riferimento all’incertezza relativa non tanto ai fatti controversi, quanto piuttosto all’interpretazione della norma da applicare nel caso concreto.

Si tratta, quindi, di un criterio principalmente dettato per le controversie relative a questioni di diritto.

La stessa Amministrazione finanziaria, con la Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E, ha fornito una definizione del concetto di “certezza”, riprendendo la previsione dell’art. 360-bis c.p.c. in tema di inammissibilità del ricorso per Cassazione.

La predetta Circolare prende atto di come, nel sistema giuridico italiano, non trovi applicazione il “precedente giurisprudenziale“, ossia il principio (caratteristico degli ordinamenti di Common Law) in base al quale una sentenza può esplicare effetti anche su soggetti che non sono stati parti del giudizio che con essa si è concluso.

All’opposto, nell’ordinamento giuridico italiano vale il principio per cui “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” (art. 2909 c.c.), con esclusione di qualsiasi efficacia vincolante della sentenza per i terzi (secondo il noto brocardo latino “res inter alios acta tertiis neque prodest, neque nocet”).

Conseguentemente è possibile ritenere che, in linea di principio, ogni questione giuridica proposta nell’ambito di un determinato processo sia “incerta” fino al momento in cui non sia intervenuta una sentenza passata in giudicato che definitivamente “accerti” la questione giuridica controversa in quel singolo e specifico processo.

Tuttavia- secondo quanto rilevato dalla  Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E-, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 47, comma 1, lettera a), Legge 18 giugno 2009 n. 69, l’art. 360-bis, comma 1, n. 1), c.p.c. dispone ad oggi che “Il ricorso (per Cassazione) è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa“.

Con tale norma, il Legislatore ha previsto l’inammissibilità del ricorso per cassazione quando la questione giuridica con esso sollevata sia difforme dalla giurisprudenza della Suprema Corte e i motivi di impugnazione proposti dall’istante non prospettino sufficienti elementi per ritenere possibile un mutamento di posizione interpretativa da parte del Giudice di legittimità.

  • . 4 Problematiche interpretative sull’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c.: pronuncia di rigetto o di inammissibilità?  

Occorre a questo punto aprire una parentesi per rilevare come, nella giurisprudenza di legittimità, sia risultata a lungo dibattuta la questione se il ricorso avverso una sentenza conforme all’orientamento della Cassazione, che non offra elementi per mutare quest’ultimo, debba essere dichiarato inammissibile oppure respinto nel merito per manifesta infondatezza.

A favore del rigetto nel merito si è espresso un indirizzo più risalente (che ha preso l’avvio da Cass. civ., Sezioni Unite, ord., 06 settembre 2010 n. 19051 ed è stato poi seguito da Cass. civ., Sezioni Unite, 19 aprile 2011 n. 8923; Cass. civ., Sezioni Unite, 16 aprile 2012 n. 5941 e Cass. civ., sez. I, 18 marzo 2016 n. 5442).

Secondo tale orientamento, malgrado la norma si esprima in termini di “inammissibilità”, risulterebbe più corretta la soluzione del rigetto nel merito del ricorso per manifesta infondatezza.

La decisione nel merito risulterebbe più corretta perché in tal modo anche il ricorso per Cassazione, che risultasse privo di argomenti idonei a superare la ragione di diritto cui si è attenuto il giudice del merito, potrebbe trovare accoglimento se, al momento della decisione della Corte, la giurisprudenza di legittimità fosse nel frattempo mutata, e quindi la decisione impugnata non fosse più conforme a quest’ultima.

Le predette pronunce hanno inoltre specificato che la conformità del provvedimento impugnato allo stato della giurisprudenza della Corte sussiste tutte le volte in cui almeno una volta la Corte di Cassazione abbia deciso sulla questione in senso conforme (al provvedimento impugnato), senza aver dato luogo in seguito a contrasti.

In senso difforme rispetto alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2010 si sono invece pronunciate Cass. civ., sez. V, 18 novembre 2015 n. 23586 e Cass. civ., sez. I, 04 maggio 2016 n. 8804, secondo le quali il ricorso per Cassazione, che non offra elementi per modificare la giurisprudenza di legittimità, alla quale la sentenza impugnata è conforme, deve essere rigettato nel rito, e non nel merito, ossia dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c.

Il contrasto di tali pronunce rispetto alla statuizione delle Sezioni Unite ha dato luogo ad una nuova rimessione a queste ultime (con ordinanza di rimessione Cass. civ., sez. VI-2, 25 luglio 2016 n. 15513).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, mutando indirizzo rispetto al 2010, hanno infine optato per la pronuncia di inammissibilità (nel rito) del ricorso, proposto contro una sentenza conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte e privo di elementi per indurre ad un mutamento di quest’ultima (Cass. civ., Sezioni Unite, 21 marzo 2017 n. 7155).

Tale soluzione, oltre a risultare più aderente alla lettera dell’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c., si fonda sulla considerazione che l’inammissibilità del ricorso venga talora prevista dal Legislatore non solo in presenza di difetti relativi alla struttura formale del ricorso o alle modalità con le quali è espresso il suo contenuto, ma anche per facilitare una decisione in limine litis, in presenza di ragioni di merito agevolmente percepibili e, perciò, suscettibili di un iter motivazionale più snello.

Né vale come argomento contrario la circostanza che, in caso di mutamento della giurisprudenza di legittimità, a seguito del quale la sentenza impugnata non risulti più conforme a quest’ultima, divenga ammissibile il ricorso privo degli elementi per indurre il mutamento di indirizzo della Corte di Cassazione, e che quindi sarebbe stato originariamente inammissibile: l’ordinamento non preclude infatti la possibilità di ammissibilità sopravvenuta di un ricorso, che originariamente sarebbe stato inammissibile.

  • . 5 Il criterio della “certezza” della questione giuridica.

A prescindere dalle problematiche in tema di qualificazione della pronuncia ex art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c. in termini di rigetto nel merito o di inammissibilità nel rito, secondo la Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E, l’introduzione di tale norma, pur non assimilando l’ordinamento italiano ad un ordinamento di Common Law (nel quale vige la vincolatività del precedente giurisprudenziale), permette tuttavia di ritenere che anche in relazione a questioni di diritto sia individuabile una “certezza“, rappresentata dalla presenza di un orientamento consolidato della Corte di cassazione, tale da indurre a ritenere che un eventuale ricorso per cassazione potrebbe effettivamente essere dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte.

Nell’eventualità che la posizione assunta nell’atto tributario impugnato contrasti con tale orientamento giurisprudenziale, si rende quindi opportuno favorire un accordo di mediazione, sulla base dell’eventuale proposta formulata dal contribuente o di quella elaborata dall’Ufficio.

In assenza di prassi amministrativa e di pronunce della Suprema Corte, la proposta di mediazione sulla questione giuridica può essere motivata sulla base della presenza di un orientamento delle Commissioni tributarie, favorevole alle posizioni espresse dal contribuente, tenuto conto anche degli altri due criteri previsti dall’art. 17-bis, comma 5, D.lgs. 546/1992.

La Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E ribadisce quindi l’opportunità di addivenire ad un accordo di mediazione, qualora vi sia un orientamento giurisprudenziale favorevole al contribuente, precisando tuttavia, per preminenti esigenze di uniformità e di imparzialità, che la possibilità di mediare è esclusa, quando l’Amministrazione finanziaria nei propri documenti di prassi (in primis, Circolari) non abbia prestato adesione all’orientamento giurisprudenziale dominante (“È il caso di precisare che, in adesione a preminenti esigenze di uniformità e imparzialità del comportamento degli Uffici, è esclusa la possibilità di mediare in relazione a questioni risolte in via amministrativa con apposito documento di prassi, cui gli Uffici devono necessariamente attenersi anche nella gestione delle relative controversie, a nulla rilevando l’eventuale contrario orientamento della giurisprudenza cui l’Amministrazione non abbia ancora prestato adesione”).

Tale ultima precisazione appare peraltro di minore rilevanza per l’Ente locale, stante il carattere non vincolante per quest’ultimo delle Circolari dell’Agenzia delle Entrate (in tal senso, tra le altre, Cass. civ., Sezioni Unite, 02 novembre 2007 n. 23031).

  • . 6 Il grado di sostenibilità della pretesa tributaria.

Con il criterio del “grado di sostenibilità della pretesa tributaria” ci si riferisce invece alla fondatezza e certezza dei documenti e degli elementi fattuali sui quali si basa la rettifica dell’Amministrazione e la conseguente sostenibilità della difesa nella successiva fase giudiziale.

Si tratta di una valutazione priva dei caratteri di imparzialità e terzietà, perché proveniente dal medesimo ente (ancorché da un diverso ufficio o organo) che ha emesso l’atto contestato.

Come chiarito dalla già richiamata Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E, tale criterio appare funzionale alla necessità che, nella trattazione della mediazione, l’Ufficio esamini le questioni di fatto basandosi sostanzialmente sul grado di sostenibilità della prova in giudizio della pretesa tributaria e sulla fondatezza degli elementi addotti dall’istante.

In altri termini, si tratta di una valutazione sulla capacità dell’ente di provare documentalmente la propria pretesa, anche considerando l’orientamento giurisprudenziale formatosi sul tema controverso.

La scarsa sostenibilità della pretesa è ritenuta di per sé ragione sufficiente per motivare la mediazione su questioni di fatto.

Le valutazioni di opportunità vanno estese alla giurisprudenza di merito relativamente alle questioni di fatto sollevate nell’istanza di mediazione.

In sintesi, la proponibilità dell’accordo di mediazione è direttamente correlata, soprattutto per le questioni di fatto, al prevedibile esito sfavorevole del giudizio di merito.

Viene ulteriormente precisato che la giurisprudenza da prendere in considerazione è essenzialmente quella della Commissione tributaria provinciale e della Commissione tributaria regionale nelle cui circoscrizioni ha sede la Direzione, a condizione che sia condivisa o, se non condivisa, a condizione che non possa essere utilmente contrastata con ricorso per cassazione.

  • . 7 L’economicità dell’azione amministrativa.

Il criterio di “economicità dell’azione amministrativa” trova infine il proprio diretto fondamento nell’art. 1, comma 1, Legge 07 agosto 1990 n. 241, secondo cui “l’attività amministrativa … è retta dai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”.

Si tratta di un criterio ispirato ad una ratio di ottimizzazione dei procedimenti e di non aggravio del procedimento amministrativo con oneri inutili e dispendiosi, che impone un efficiente utilizzo dei mezzi a disposizione dell’Ente per il raggiungimento delle finalità proprie di quest’ultimo.

Come chiarito ancora una volta dalla Circolare Agenzia delle Entrate 19 marzo 2012 n. 9/E, il principio di economicità dell’azione amministrativa va quindi inteso non solo come necessità di ottimizzazione economica delle risorse, ma anche come ottimizzazione di procedimenti, ossia come impegno a non gravare il procedimento amministrativo di oneri inutili e dispendiosi, cercando  di realizzare una rapida ed efficiente conclusione dell’attività amministrativa, nel rispetto dei principio di legalità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

Si tratta di un criterio che si affianca ai precedenti, in quanto induce a procedere alla mediazione della pretesa tributaria, soprattutto a fronte di una scarsa sostenibilità della controversia.

In tale valutazione deve necessariamente essere considerato anche il rischio di soccombenza nelle spese di lite.

Il ruolo di tale criterio appare ad oggi accresciuto a seguito della riforma dell’art. 20 D.lgs. 13 aprile 1999 n. 112, in materia di procedura di discarico per inesigibilità e re-iscrizione dei ruoli (così come modificata dall’art. 1, comma 683, Legge 23 dicembre 2014 n. 190, a decorrere dal 1° gennaio 2015).

La predetta norma fa riferimento al criterio di “economicità” per ben due volte.

La prima nel comma 2, laddove si dispone che il controllo sulle comunicazioni di inesigibilità è effettuato dall’ente creditore, “tenuto conto del principio di economicità dell’azione amministrativa e della capacità operativa della struttura di controllo” e, di norma, in misura non superiore al 5 per cento delle quote comprese nelle comunicazioni di inesigibilità presentate in ciascun anno.

La seconda al comma 6 che, a determinate condizioni, autorizza l’Ente creditore a riaffidare in riscossione le somme già discaricate, comunicando all’Agente della riscossione i nuovi beni da sottoporre a esecuzione, ovvero le azioni cautelari o esecutive da intraprendere.

Condizioni essenziali per l’esercizio di tale facoltà sono, da un lato, la circostanza che l’Ente creditore, nell’esercizio della propria attività istituzionale, successivamente al discarico individui l’esistenza di significativi elementi reddituali o patrimoniali riferibili agli stessi debitori; dall’altro, la circostanza che, al momento del nuovo affidamento, non sia decorso il termine di prescrizione decennale del credito.  

Oltre a tali due condizioni imprescindibili, la norma richiede inoltre che il nuovo affidamento in riscossione, successivo al discarico, sia effettuato “sulla base di valutazioni di economicità e delle esigenze operative”, oltre che secondo particolari modalità di affidamento stabilite con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.

Particolare importanza assume la modifica apportata all’art. 20, comma 2, D.lgs. 112/1999.

Anteriormente alla modifica normativa di cui alla Legge 190/2014, il previgente art. 20, comma 1-bis, D.lgs. 13 aprile 1999 n. 112 (introdotto dall’art. 3, comma 36, lettera c), D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito con modificazioni in Legge 02 dicembre 2005 n. 248) disponeva infatti che “Il controllo di cui al comma 1 (i.e.: sulle comunicazioni di inesigibilità) è effettuato a campione, sulla base dei criteri stabiliti da ciascun ente creditore”.

Il predetto testo normativo rimetteva quindi a ciascun Ente creditore l’individuazione dei criteri sulla base dei quali effettuare i controlli a campione, senza neppure stabilire una quota percentuale degli stessi in rapporto alle partite in scadenza per ciascun anno solare.

In tale quadro normativo, l’Agenzia delle Entrate aveva emanato la Circolare n. 32/E del 01 aprile 2008 la quale, al punto 4, individuava una serie di criteri selettivi per l’individuazione delle comunicazioni di inesigibilità da sottoporre a controllo (i.e.: segnalazioni di azioni esecutive e cautelari effettuate dall’Ufficio; fasce di importo; tipologia di soggetto iscritto a ruolo: persona fisica o persona giuridica; numero di partite di ruolo da controllare).

Il medesimo punto della Circolare stabiliva inoltre che, in virtù di tali criteri, la selezione delle quote da sottoporre al controllo dovesse essere effettuata con le seguenti modalità:

  1. partite di ruolo oggetto di segnalazioni di azioni esecutive e cautelari effettuate dall’Ufficio ai sensi dell’art. 19, comma 4, del D.lgs. n. 112/1999: controllo del 100% delle partite in scadenza in ciascun anno solare, a prescindere dall’importo della partita di ruolo stessa;
  2. partite di ruolo di importo inferiore a € 5.000,00: controllo del 66% delle partite in scadenza in ciascun anno solare, con preferenza per le partite di importo maggiore. Tale percentuale, a sua volta, doveva essere riferita preferibilmente per 2/3 a persone fisiche e per il rimanente 1/3 a persone giuridiche;
  3. partite di ruolo di importo superiore a € 5.000,00: controllo del 100% delle partite in scadenza in ciascun anno solare;
  4. numero di partite di ruolo inferiore a 10 (attesa la particolarità dei termini relativi alle società operanti negli ambiti di Avellino e Viterbo): controllo del 100% delle partite in scadenza in ciascun anno solare.

Malgrado tale Circolare costituisse un mero atto interno dell’Agenzia delle Entrate, come tale non vincolante per gli Enti locali, molto spesso nella prassi questi ultimi si erano attenuti a tali percentuali, finendo molto spesso per impiegare rilevanti risorse materiali ed umane nel controllo di un numero rilevante di partite anche di importo modesto (66% delle partite in scadenza per ciascun anno solare di importo inferiore a € 5.000,00).

La situazione normativa risulta tuttavia ad oggi profondamente mutata rispetto a seguito della modifica normativa che ha interessato l’art. 20 D.lgs. 112/1999.

L’attuale comma 2 della predetta norma dispone ad oggi che “Il controllo di cui al comma 1 – i.e.: sulle comunicazioni di inesigibilità- è effettuato dall’ente creditore, tenuto conto del principio di economicità dell’azione amministrativa e della capacità operativa della struttura di controllo e, di norma, in misura non superiore al 5 per cento delle quote comprese nelle comunicazioni di inesigibilità presentate in ciascun anno”.

In sostanza, quindi, l’attuale testo dell’art. 20 D.lgs. 112/1999, a differenza del precedente, fissa legislativamente la percentuale del controllo da applicare almeno “di norma”.

La giurisprudenza contabile ha generalmente ritenuto che l’attuale art. 20, comma 2, D.lgs. 112/1999 preveda una facoltà, e non un obbligo, per l’Ente creditore di ridurre i controlli al 5% delle comunicazioni di inesigibilità pervenute annualmente, “nell’ottica di non gravare l’ente stesso di adempimenti complessi che la sua struttura organizzativa potrebbe non essere in grado di sostenere o, comunque, che potrebbero rilevarsi del tutto inutili a fronte di un contegno assolutamente corretto e puntuale del concessionario della riscossione” (Corte dei Conti Abruzzo, Sezione giurisdizionale, ord., 16 marzo 2018 n. 120).

Sebbene il Concessionario della Riscossione non vanti un vero e proprio “diritto soggettivo” alla limitazione dell’attività di controllo alla quota del 5% delle comunicazioni di inesigibilità presentate in ciascun anno, è però altrettanto vero che la percentuale indicata nella Circolare n. 32/E del 01 aprile 2008, che più spesso finiva per interessare gli Enti locali (66% delle partite di importo inferiore a € 5.000,00 in scadenza in ciascun anno solare), si porrebbe certamente in contrasto con le esigenze economicità dell’azione amministrativa, cui fa espressamente riferimento il testo attuale dell’art. 20, comma 2, D.lgs. 112/1999.

  • . 8 Considerazioni conclusive.

Per concludere, occorre ancora rilevare come l’art. 1, comma 688, Legge 190/2014 abbia stabilito che “alle comunicazioni di inesigibilità relative alle quote di cui al comma 684 del presente articolo – i.e.: quote affidate agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2017, anche da soggetti creditori che hanno cessato o cessano di avvalersi delle società del Gruppo Equitalia ovvero dell’Agenzia delle entrate-Riscossione-  si applicano gli articoli 19 e 20 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, come da ultimo rispettivamente modificato e sostituito dai commi 682 e 683 del presente articolo. Le quote inesigibili, di valore inferiore o pari a 300 euro, con esclusione di quelle afferenti alle risorse proprie tradizionali di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, e2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, non sono assoggettate al controllo di cui al citato articolo 19”.  

Anche tale disposizione appare chiaramente ispirata alla ratio di evitare la dispersione di risorse economiche per il controllo di partite, dichiarate inesigibili dal Concessionario, di importo modesto.

Tale norma è stata oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale da parte della già citata Corte dei Conti Abruzzo, Sezione giurisdizionale, ord., 16 marzo 2018 n. 83, n. 84 e n. 120 e la decisione della Consulta in merito non risulta ad oggi ancora emessa.

Allo stato, comunque, anche tale norma conferma la volontà normativa di escludere l’attività di controllo sulle quote inesigibili di valore più modesto, nell’ottica di una maggiore economicità dell’azione amministrativa, alla quale anche gli Enti impositori sono vincolati.

E’ quindi possibile concludere che il criterio dell’“economicità dell’azione amministrativa”, originariamente introdotto quale parametro residuale rispetto agli altri due, abbia assunto nel corso degli ultimi anni un’importanza sempre maggiore nella guida delle valutazioni discrezionali, che l’Ufficio deve compiere per decidere se formulare una proposta di mediazione o di conciliazione oppure se aderire alle proposte formulate dal contribuente.

Il comportamento dell’Ufficio, che rifiutasse una proposta di mediazione o di conciliazione, creando un inutile aggravio per il procedimento, integrerebbe senza dubbio una violazione di legge, sanzionabile ex art. 1, comma 1, Legge 241/1990, oltre che mediante l’addebito delle spese processuali ex art. 15, commi 2-septies e 2-octies, D.lgs. 546/1992.

 

Dott.ssa Cecilia Domenichini

(Unicusano-Roma)