L’art. 87, 1° comma, attribuisce al concessionario la facoltà di presentare il ricorso ex art. 6 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, per conto dell’Agenzia delle entrate.
Nell’abrogato sistema previgente, l’istituto del fallimento fiscale presentava la singolare caratteristica di costituire una sanzione per la morosità inerente debiti d’imposte dirette, la cui essenza, si risolveva nel disporre l’esperibilità della procedura fallimentare prescindendo dagli ordinari presupposti di diritto comune.
Nel momento in cui si realizzava la “morosità” che costituiva specifico presupposto della sanzione del fallimento fiscale, essendo irrilevante la presenza di uno stato d’insolvenza, “conditio sine qua non” ai fini della dichiarazione ordinaria di fallimento, l’esattore era tenuto darne tempestiva comunicazione, presentando formale denuncia all’ufficio delle imposte competente. Il sistema portato dal primo comma della norma in esame, esprime chiaro riferimento al procedimento concorsuale “ordinario” che prende impulso per iniziativa, quindi su ricorso, di uno o più creditori, nella specie del concessionario della riscossione quando il contribuente-moroso, oltre a rivestire la qualità di imprenditore, versi in stato d’insolvenza, presupposto oggettivo richiesto dall’art. 5, L.Fall.
Ciò significa che il concessionario potrà presentare domanda per la dichiarazione di fallimento, nel momento in cui, accertata la qualità imprenditoriale del contribuente moroso, verificherà che lo stesso versi in stato d’insolvenza.
Intanto, appare opportuno chiarire che né nella legge fallimentare, né nel codice civile, che pure lo richiama in alcune norme (artt. 384, 1186, 1833, 1954 c.c.), è rinvenibile il concetto d’insolvenza.
Il concetto d’insolvenza non può essere identificato con quello di “cessazione dei pagamenti”, elemento che costituisce uno dei fatti esteriori che possono concretare manifestazioni dirette, ma non inequivocabili dello stato d’insolvenza.
Chiaramente l’insolvenza può manifestarsi attraverso una reiterazione d’inadempienza, cui ha conseguito un’azione esecutiva, “articolata” da parte di uno o più creditori attraverso decreti ingiuntivi, pignoramenti, sequestri, iscrizioni ipotecarie etc., pur non incontestabilmente esaustive, mentre diventa necessario armarsi di cautela a fronte dell’inadempimento, specie se “occasionale”, che potrebbe trovare giustificazione al di fuori di uno stato di sofferenza patrimoniale (si pensi ad un credito contestato).
Dall’insolvenza deve essere distinta la temporanea difficoltà, anche se parte della dottrina ed alcune pronunce giurisprudenziali hanno ritenuto che tale distinzione non fosse configurabile, poiché con l’espressione “temporanea difficoltà”, si tende ad esprimere lo stadio progressivo di uno stesso fenomeno in sviluppo.
Contrariamente a tale impostazione, appare più adeguato ritenere che la distinzione sussista, in quanto la difficoltà temporanea si ha quando il debitore non sia in grado di estinguere le passività in un determinato lasso temporale, che invero, potrebbero determinare lo stato d’insolvenza nel momento in cui la “difficoltà temporanea” si dimostrasse irreversibile.
Tale è l’orientamento che negli ultimi anni si è consolidato presso la giurisprudenza di legittimità.
Il patrimonio del debitore incide, ovviamente, sulla individuazione dello stato d’insolvenza e quindi, pur in assenza di evidenziazione di uno squilibrio patrimoniale, dove vi sia una chiara eccedenza del passivo sull’attivo, anche una crisi di liquidità può generare uno stato d’insolvenza quando sia tale da determinare nel contesto delle attività svolte imprenditorialmente, l’impossibilità da parte dell’impresa, dovuta come detto ad incapienza patrimoniale di adempiere regolarmente le obbligazioni assunte.
Quello che emerge da questa breve analisi sul concetto di stato d’insolvenza rivela che la prova che ne dimostri l’esistenza ha carattere precipuamente indiziario, e quindi ogni elemento deve essere partitamene valutato caso per caso.