- Nozione e caratteri.
In generale, si ha invalidità di un negozio giuridico quando esso presenti una o più anomalie rispetto al modello legale, così da provocare una valutazione negativa da parte dell’ordinamento.
Il Codice civile non detta in proposito un unico e rigido criterio, ma preferisce ricorrere ad una graduazione delle figure di invalidità: di conseguenza, alla valutazione negativa dell’atto invalido l’ordinamento non ricollega sempre e comunque l’inefficacia del negozio, ma prevede soluzioni diverse a seconda degli interessi posti in evidenza dalle circostanze del caso concreto.
La disciplina sostanziale delle invalidità negoziali, pur se ispirata alla finalità di reagire al vizio che inficia l’atto, tende anche a salvaguardare esigenze ulteriori, per lo più riconducibili al principio di “conservazione” o “massima utilizzazione” dell’atto di autonomia.
Nella disciplina del Codice civile, l’invalidità si distingue nelle due figure della nullità e dell’annullabilità.
Secondo la dottrina tradizionale, ricorre la nullità quando uno degli elementi, che la legge considera essenziali per la validità del negozio, manchi del tutto, mentre l’annullabilità si realizza quando uno di tali elementi presenti un vizio, ossia una manchevolezza.
Altro indirizzo dottrinario reputa invece che il discrimine tra nullità ed annullabilità risieda nella tipologia di interesse tutelato: così, la nullità rappresenta una sanzione posta a garanzia di interessi generali dell’ordinamento, mentre l’annullabilità è funzionale a proteggere l’interesse particolare del contraente, che viene assicurato attribuendo alla parte stessa un potere di scelta in ordine alla sorte del negozio.
In ogni caso, la nullità è la forma di invalidità più grave e definitiva prevista dal Codice civile.
L’atto nullo è del tutto improduttivo di effetti fin dalla sua conclusione (a differenza dell’atto annullabile, che inizialmente produce i propri effetti, i quali vengono rimossi qualora la parte legittimata chieda ed ottenga l’annullamento dell’atto).
Nonostante l’atto nullo sia un atto certamente esistente e possa avere una sua rilevanza sul piano sociale (ad esempio, attraverso lo spontaneo adempimento delle parti), esso, sotto il profilo giuridico, è un atto del tutto irrilevante, che non integra i requisiti minimi affinché l’atto giuridico possa dirsi tale e produrre effetti giuridicamente rilevanti.
Accanto alle due figure codicistiche della nullità e dell’annullabilità, parte della dottrina ha elaborato l’ulteriore categoria dell’inesistenza del negozio giuridico, la quale, peraltro, non trova alcun riscontro nella disciplina normativa.
A tale categoria devono ricondursi tutti quei comportamenti umani che costituiscano dei meri “simulacri” di negozio, in quanto privi dei requisiti minimi che consentano di qualificare il fatto sub specie juris. E’ il caso, ad esempio, del contratto o del negozio stipulato per scherzo (joci causa), per finalità didattiche (docendi causa), per scopi rappresentativi (es.: teatrali, cinematografici, ecc.) o a seguito di violenza fisica: in tal caso, mancano i requisiti minimi per poter riconoscere una seppur minima rilevanza giuridica all’atto.
Il contratto o il negozio inesistenti, a differenza di quelli semplicemente nulli, non risultano pertanto suscettibili neppure di conversione in un altro contratto o negozio, di cui abbiano i requisiti di sostanza e di forma.
- Le cause di nullità del contratto.
Le cause di nullità del contratto sono disciplinate dall’art. 1418 c.c. ed attengono tutte a difetti strutturali di esso.
In base a tale norma, l’atto è nullo quando:
– è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente (art. 1418, comma 1, c.c.);
– manca di uno degli elementi essenziali di cui all’art. 1325 c.c., ossia l’accordo, la causa, l’oggetto, la forma scritta prevista dalla legge ad substantiam (art. 1418, comma 2, c.c.);
– la causa è illecita (art. 1418, comma 2, c.c. in relazione all’art. 1343 c.c.);
– è illecito il motivo comune ad entrambe le parti, per il quale le stesse si sono determinate a concludere il contratto (art. 1418, comma 2, c.c. in relazione all’art. 1345 c.c.);
– l’oggetto è impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile (art. 1418, comma 2, c.c. in relazione all’art. 1346 c.c.);
– negli altri casi stabiliti dalla legge (art. 1418, comma 3, c.c.).
La nullità può pertanto essere sia testuale, sia virtuale.
E’ testuale, quando esistono norme di legge, che espressamente sanciscono tale forma di invalidità.
E’ virtuale, quando, pur non essendo espressamente stabilita da una norma ad hoc, risulta dal sistema nel suo complesso.
L’art. 1418 c.c. è infatti una norma “aperta”, non essendo il suo dettato esaustivo (come reso chiaro dal riferimento, contenuto nell’ultimo comma di essa, agli “altri casi stabiliti dalla legge”).
In ogni caso, al di fuori di tale clausola “di chiusura”, le fattispecie testuali di nullità appaiono riconducibili a due ordini fondamentali di ipotesi, relative, rispettivamente, alla mancanza e all’impossibilità di un elemento essenziale oppure alla sua illiceità.
Rientrano nella prima delle suddette fattispecie:
- la mancanza di una manifestazione di volontà giuridicamente rilevante (fattispecie che parte della dottrina riconduce addirittura alla più intensa figura dell’inesistenza);
- la mancanza, l’impossibilità o l’indeterminabilità dell’oggetto;
- la mancanza di una causa, alla quale può essere equiparata una funzione non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico;
- la mancanza della forma, nelle fattispecie in cui essa è considerata dalla legge un elemento essenziale ad substantiam (art. 1325 n. 4 c.c.).
In tali fattispecie, la sanzione della nullità si ricollega alla mancanza di “senso pratico” dell’operazione negoziale.
Essa può peraltro verificarsi anche nel caso di un elemento che si configuri come “accidentale” rispetto allo schema legale astratto del negozio (i.e.: condizione, termine, onere o modus), ma sia tale da influire sul negozio concreto al pari di un elemento essenziale, come nel caso della condizione sospensiva impossibile (art. 1354, comma 2, c.c.).
Diversa è invece la giustificazione delle ipotesi di nullità che siano riconducibili alla categoria dell’illiceità negoziale, intesa come contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
In particolare, rientrano in tale seconda categoria:
- l’illiceità dell’oggetto;
- l’illiceità della causa;
- l’illiceità del motivo determinante comune ad entrambe le parti;
- l’illiceità di un elemento accidentale (in particolare, nell’ambito dei contratti, la condizione);
- la contrarietà del contenuto del negozio a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Il fenomeno dell’illiceità negoziale si riferisce dunque all’intero contenuto del regolamento negoziale, nel senso che esso si desume non tanto dai singoli elementi isolatamente considerati, quanto piuttosto dal regolamento generale e complessivo dell’atto.
- Gli effetti della nullità per le parti e la problematica dei “rapporti contrattuali di fatto”.
L’accertamento della nullità del negozio ha effetto retroattivo (ex tunc) nei confronti delle parti e dei terzi, secondo il brocardo latino per cui quod nullum est, nullum producit effectum.
Per ciò che riguarda gli effetti tra le parti, se il negozio è stato già eseguito al momento della declaratoria di nullità, le prestazioni costituiscono di regola un indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) e, come tali, devono essere restituite.
Eccezione a tale principio è costituita dal cd. “negozio immorale”.
L’art. 2035 c.c. non ammette, infatti, la restituzione di quanto prestato in esecuzione di un contratto che, anche da parte del solvens, costituiva offesa al buon costume.
In tal caso, si dice che “in pari causa turpitudinis, melior est condicio possidentis”.
La regola viene da un antico “rifiuto di ascoltare” le ragioni fondate sulla cd. “turpitudine”, anche se parte della dottrina critica tale norma come un retaggio del passato, non effettivamente funzionale all’interesse pubblico e alla stessa “moralità”.
L’art. 2035 c.c. non trova comunque applicazione in caso di contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico, ma solo con il buon costume.
Esempio: Tizio promette a Caio, impiegato pubblico, una somma di denaro affinché “agevoli” la sua pratica. Il contratto è nullo e la prestazione non è dovuta; tuttavia, se Tizio ha pagato, non può esercitare l’azione di ripetizione dell’indebito.
Mentre nella fattispecie di cui all’art. 2035 c.c. è preclusa unicamente la ripetizione di quanto prestato in esecuzione di un negozio contrario al buon costume, ferma restando la nullità e l’improduttività di effetti di quest’ultimo, esistono invece fattispecie nelle quali il Codice civile introduce rilevanti eccezioni alla regola generale secondo cui il contratto nullo è improduttivo di effetti tra le parti.
Ne è un esempio l’art. 2126 c.c. in tema di contratto di lavoro nullo, secondo cui la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dalla illiceità dell’oggetto o della causa.
Fondamento della norma è quello di tutelare il lavoratore, quale parte generalmente “debole” del rapporto, consentendogli di percepire la retribuzione per il periodo in cui egli ha effettivamente prestato la propria opera lavorativa.
Altro esempio è costituito dall’art. 2332, comma 5, c.c. in tema di contratto costitutivo di società per azioni, secondo cui la nullità della società non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese.
In tal caso, ratio della norma è quella di tutelare il legittimo affidamento dei terzi, che siano entrati in rapporto con la società, facendo legittimo affidamento sulla validità della sua costituzione.
Si parla, in tali fattispecie, di cd. “rapporti contrattuali di fatto”, nei quali l’ordinamento introduce un’eccezione alla regola generale dell’improduttività di effetti del contratto nullo tra le parti, per esigenze di tutela della cd. “parte debole” del rapporto contrattuale (nel caso di contratto di lavoro nullo) o dei terzi (nel caso di contratto costitutivo di società nullo).
Infine, un’ultima parziale eccezione all’improduttività di effetti tra le parti del contratto nullo è rappresentata dall’art. 2039 c.c., secondo cui il pagamento non dovuto eseguito a favore di un creditore incapace, ancorché in mala fede, deve essere restituito solo nei limiti del vantaggio che il creditore incapace abbia effettivamente tratto dall’adempimento.
Fondamento della norma risiede nella considerazione che l’incapace, essendo per definizione non in grado di curare i propri interessi, si troverebbe in caso contrario esposto a subire un ingiusto pregiudizio, imputabile al comportamento di chi abbia eseguito un pagamento non dovuto.
- Gli effetti della nullità per i terzi.
La dichiarazione di nullità di un contratto ha di regola effetti retroattivi anche nei confronti dei terzi.
Ciò comporta che, se un soggetto ha acquistato un diritto da colui al quale il diritto stesso è stato trasferito in base ad un negozio nullo, la sentenza che dichiara la nullità del primo negozio di trasferimento travolge di regola anche il diritto del terzo (resoluto jure dantis, resolvitur et jus accipientis).
Es.: Tizio vende un bene a Caio, il quale a propria volta lo vende a Sempronio.
Il contratto tra Tizio e Caio è dichiarato nullo.
Tale declaratoria di nullità, di regola, produce effetti anche nei confronti di Sempronio: quest’ultimo, malgrado la validità del proprio contratto di acquisto da Caio, vedrà comunque “travolto” il proprio acquisto, come effetto riflesso della nullità dell’acquisto del suo dante causa Caio.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 2652 n. 6 c.c., se la domanda giudiziale di nullità di un atto di trasferimento di bene immobile è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato (per farne dichiarare la nullità), la sentenza che accoglie la domanda di nullità non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda.
Es.: Tizio vende un bene immobile a Caio, che trascrive il proprio acquisto nel 2010; Caio, a propria volta, vende il medesimo bene a Mevio, che trascrive il proprio acquisto nel 2012.
Tizio trascrive la domanda volta a far dichiarare la nullità del contratto con Caio nel 2016.
In tal caso, la sentenza di accoglimento di tale domanda non potrà essere opposta a Mevio, a condizione che egli abbia acquistato in buona fede, dal momento che egli ha trascritto il proprio atto di acquisto (nel 2012) anteriormente alla trascrizione della domanda di accertamento della nullità (avvenuta nel 2016) e che quest’ultima è stata trascritta oltre cinque anni dopo la trascrizione dell’atto di acquisto impugnato (avvenuta nel 2010). In tal caso, dunque, il terzo sub-acquirente Mevio fa salvo il proprio acquisto (a prescindere dalla circostanza che esso sia avvenuto a titolo oneroso oppure gratuito), in deroga al generale principio di retroattività degli effetti della declaratoria di nullità anche per i terzi.
Inoltre, anche in materia di trasferimenti di beni mobili registrati, in base all’art. 2690 n. 3 c.c., la domanda di nullità di atti soggetti a trascrizione deve essere trascritta; la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda medesima, se questa è stata resa pubblica dopo tre anni dalla data della trascrizione dell’atto che si impugna.
Es.: Tizio vende un’autovettura a Caio, che trascrive il proprio acquisto nel 2010; Caio, a propria volta, vende il medesimo bene a Mevio, che trascrive il proprio acquisto nel 2012.
Tizio trascrive la domanda volta a far dichiarare la nullità del contratto con Caio nel 2014.
In tal caso, la sentenza di accoglimento di tale domanda non potrà essere opposta a Mevio, a condizione che egli abbia acquistato (sia a titolo oneroso, sia a titolo gratuito) in buona fede, dal momento che egli ha trascritto il proprio atto di acquisto (nel 2012) anteriormente alla trascrizione della domanda di accertamento della nullità (avvenuta nel 2014) e che quest’ultima è stata trascritta oltre tre anni dopo la trascrizione dell’atto di acquisto impugnato (avvenuta nel 2010). Anche in tal caso, dunque, il terzo sub-acquirente Mevio fa salvo il proprio acquisto, in deroga al generale principio di retroattività degli effetti della declaratoria di nullità anche per i terzi.