1. Definizione e caratteri.

Il contratto annullabile è un contratto che presenta un vizio genetico, ossia esistente sin dal momento della sua conclusione, ma non strutturale, bensì solitamente legato a qualche anomalia nel libero procedimento di formazione del consenso negoziale delle parti.

L’annullabilità è una sanzione invalidante del contratto, posta dall’ordinamento a tutela della parte il cui consenso non si è correttamente e liberamente formato (l’incapace, il soggetto il cui consenso è stato viziato, il rappresentato in caso di abuso del potere rappresentativo).

Essa, quindi, a differenza della nullità, non è posta a presidio di interessi collettivi e superindividuali, bensì di interessi individuali di uno dei contraenti.

Ciò spiega il motivo per cui le regole, che governano l’annullabilità, rappresentano sostanzialmente un’antitesi a quelle illustrate in tema di nullità (sanzione comminata dall’ordinamento a tutela di interessi super-individuali).

 

  1. Le cause di annullabilità del contratto.

Sono cause di annullabilità del contratto:

  • l’incapacità della parte, legale o naturale. La due fattispecie non risultano peraltro del tutto identiche.

      Mentre, infatti, l’incapacità legale di agire può essere sempre e comunque causa di annullamento del contratto (art. 1425, comma 1, c.c.), l’incapacità naturale di intendere e volere è tale solo se ricorrono i requisiti del grave pregiudizio che dall’atto deriva al soggetto incapace e della mala fede dell’altro contraente (art. 1425, comma 2, c.c., che richiama l’art. 428 c.c.).

       La ragione di tale diversità di disciplina risiede nella circostanza che l’incapacità legale di un soggetto è pubblicizzata nei confronti dei terzi mediante apposite forme di pubblicità (quali l’annotazione a margine dell’atto di nascita della sentenza di interdizione o di inabilitazione o del decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno), mentre l’incapacità naturale, derivando da cause meramente occasionali o transitorie, non può essere tale.

       Pertanto, mentre non vi è ragione di tutelare i terzi che abbiano concluso il contratto con un soggetto legalmente incapace (i quali devono imputare unicamente a se stessi di non avere preso cognizione dell’incapacità legale della loro controparte, adeguatamente pubblicizzata nelle forme di legge), vi è al contrario un’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi che abbiano contrattato con un soggetto naturalmente incapace di intendere e volere.

       Per tale ragione, tutti gli atti giuridici posti in essere  da quest’ultimo possono essere annullati solo se da essi derivi un grave pregiudizio per il loro autore. Per l’annullamento dei contratti conclusi da tale categoria di soggetti, è inoltre richiesto l’ulteriore requisito della mala fede dell’altro contraente, intesa in senso soggettivo come consapevolezza dell’altrui incapacità naturale;

  • i vizi del consenso (errore, violenza morale e dolo);
  • le altre ipotesi previste dalla legge, come quella del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato (art. 1394 c.c.) o del contratto con se stesso (art. 1395 c.c.).

L’annullabilità, pertanto, a differenza della nullità, è solo testuale, ossia sussiste nei soli casi espressamente previsti dalla legge.

Ciò significa che,  in presenza di un’invalidità non precisata, l’interprete dovrà orientarsi per la nullità.

 

  1. I vizi del consenso: inquadramento generale.

I vizi del consenso rappresentano delle turbative nel procedimento di formazione della volontà contrattuale delle parti.

Essi incidono, in modo diverso, sulla corretta e libera formazione del consenso contrattuale, di cui rappresentano un vizio genetico, ossia esistente fin dal momento della conclusione del contratto stesso.

I vizi del consenso sono causa di annullabilità del contratto, qualora presentino i requisiti richiesti dalla legge.

Essi incidono, quindi, sull’efficacia del contratto e non si limitano a rilevare sul solo piano risarcitorio, come invece avviene nel caso della violazione del dovere di buona fede precontrattuale (art. 1337 c.c.).

Pertanto, se la turbativa nella fase di formazione del contratto ha i caratteri di un vizio del consenso disciplinato dal Codice civile, essa costituisce non solo un comportamento contrario a buona fede, suscettibile di sanzione risarcitoria ex art. 1337 c.c., ma anche una causa di annullabilità e, quindi, di invalidità del contratto.

I vizi del consenso sono l’errore, la violenza ed il dolo.

Ai sensi dell’art. 1427 c.c., il contraente il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo può chiedere l’annullamento del contratto.

Tale facoltà prescinde dalla circostanza che il contratto concluso sia effettivamente dannoso per la parte, il cui consenso risulta viziato.

  1. L’errore.

Il primo vizio del consenso disciplinato dal legislatore è l’errore (artt. 1428-1433 c.c.).

Nel nostro ordinamento l’errore può essere di due tipi: l’errore vizio (anche detto errore motivo) e l’errore ostativo.

L’errore vizio corrisponde ad una falsa rappresentazione della realtà, per cui il soggetto ha contrattato sulla base di una volontà non corrispondente alle sue effettive intenzioni. L’esempio classico è quello del soggetto che acquista un quadro, credendolo di un famoso pittore, mentre l’opera è di un omonimo molto meno famoso e “quotato”.

L’errore ostativo è invece quello che cade sulla dichiarazione o sulla sua trasmissione ad opera di colui che l’ha curata (art. 1433 c.c.).

L’esempio classico è quello del contraente che, invece di scrivere il prezzo pattuito di 1.000,00 euro, scriva 100,00 euro.

Sotto il profilo della sanzione, il codice civile non ha differenziato le due ipotesi ed ha previsto in entrambi i casi l’annullabilità del contratto.

Per poter dare luogo ad una causa di annullabilità del contratto, l’errore deve presentare il duplice requisito dell’essenzialità e della riconoscibilità da parte dell’altro contraente (art. 1428 c.c.).

L’errore essenziale è quello che ha inciso in maniera determinante sulla formazione della volontà contrattuale della parte caduta in errore (diversamente, si parla di errore “non determinante” o “incidente”, il quale non è causa di annullabilità del contratto).

La valutazione dell’essenzialità dell’errore non è rimessa alla libera valutazione del giudice, ma è tipizzata dal legislatore.

Ai sensi dell’art. 1429 c.c., l’errore è essenziale:

1) quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto, ossia riguarda il tipo di contratto che viene stipulato o le prestazioni che ne sono oggetto;

2) quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso (es.: Tizio acquista un terreno agricolo, credendolo per errore edificabile; Tizio acquista un’auto usata, credendola per errore nuova). Tendenzialmente, è invece irrilevante sotto tale profilo l’errore che ricada sul mero valore commerciale del bene, posto che l’ordinamento, al di fuori di ipotesi particolari (quali la rescissione), non si occupa dello squilibrio meramente economico tra le prestazione delle parti;

3) quando cade sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente, sempre che l’una o le altre siano state determinanti del consenso: ciò avviene, in particolare, nei contratti fondati sul cosiddetto “intuitus personae”, ossia nei quali assumano rilevanza le qualità personali dei contraenti (es.: Tizio conclude un contratto d’opera intellettuale con un professionista, ritenendolo un affermato  avvocato, mentre è in realtà è un neo- laureato);

4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la ragione unica o principale del contratto: in tal caso, a differenza di quanto accade per le ipotesi di errore di fatto, vi è piena coincidenza tra l’efficacia determinante e l’essenzialità dell’errore.

In ogni caso, non rileva mai l’errore sulla qualificazione giuridica (o denominazione) del contratto, salvo che si tratti di errore sulla natura del contratto. Ciò significa che non si può annullare un contratto perché è stato erroneamente qualificato come riconducibile ad un certo tipo contrattuale (es.: comodato), mentre in realtà corrisponde ad un altro tipo contrattuale (es.: locazione).

Neppure rileva l’errore di diritto che cada sugli effetti del contratto, perché in tal modo si violerebbe il principio per cui nessun rilievo può essere attribuito all’ignoranza della legge da parte dei privati.

Al di fuori delle ipotesi enumerate dall’art. 1429 c.c., l’errore non è considerato essenziale  e non dà quindi luogo all’annullabilità del contratto.

Affinché il contratto possa essere annullato per errore, quest’ultimo deve altresì essere riconoscibile.

Il fondamento della necessità di tale ulteriore requisito risiede nell’esigenza di tutelare l’affidamento riposto nella validità del contratto dalla parte diversa da quella che è caduta in errore.

Ai sensi dell’art. 1431 c.c., l’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo.

Alla conoscibilità è ovviamente equiparata l’effettiva conoscenza dell’errore in capo alla controparte: pertanto, qualora si provi che quest’ultima ha avuto effettiva conoscenza dell’errore altrui, il requisito di cui all’art. 1431 c.c. deve ritenersi in ogni caso integrato, a prescindere da ogni indagine sull’astratta conoscibilità da parte del cd. “uomo-medio”, con il criterio dell’“ordinaria diligenza”.

La riconoscibilità dell’errore non è richiesta in caso di errore comune ad entrambi i contraenti (cd. “errore bilaterale”), non essendoci in tale fattispecie un affidamento nella validità del contratto meritevole di tutela: in tal caso, poiché ciascuno dei contraenti ha dato causa all’invalidità del negozio, quest’ultimo è senz’altro annullabile (Cass. civ., sez. VI, ord., 15.12.2011 n. 26974).

Di diverso avviso è una parte della dottrina, secondo la quale il requisito della riconoscibilità dovrebbe sempre essere presente, anche nel caso di “errore bilaterale”, qualora esso sia stato determinante per una sola parte.

L’onere della prova dell’errore grava interamente sulla parte che è incorsa in esso e che intende chiedere l’annullamento del contratto, trattandosi di un fatto costitutivo dell’azione di annullamento (art. 2697 c.c.).

Di regola, non dà luogo ad annullamento del contratto, ma unicamente a rettifica, il cd. “errore di calcolo, ossia l’errore compiuto nelle operazioni aritmetiche che porti ad indicare un risultato finale sbagliato.

Tale regola prevede peraltro un’eccezione nel caso in cui l’errore di calcolo, concretandosi in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso: in tal caso, esso torna a dare luogo all’annullabilità del contratto (art. 1430 c.c.).

Anche l’errore di calcolo deve essere riconoscibile, ossia deve essere chiaramente indicata l’operazione matematica, svolta in modo errato, che ha portato al risultato erroneo.

Anche la rettifica costituisce un rimedio di cui può avvalersi solo la parte incorsa in errore, e non la controparte.

Quest’ultima può infatti attivare unicamente il meccanismo previsto dall’art. 1432 c.c., secondo cui la parte caduta in errore non può chiedere l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra parte offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto ed alle modalità del contratto che quella intendeva concludere.

  1. La violenza.

Il secondo vizio del consenso, potenzialmente produttivo dell’annullabilità del contratto, è la violenza (artt. 1434-1438 c.c.), intesa come violenza morale e integrata da minacce tese ad indurre una parte alla conclusione del contratto.

Si tratta, quindi, di una coazione psicologica, finalizzata a provocare paura affinché una delle parti si determini alla conclusione del contratto.

La paura deve derivare da un comportamento umano, e non da una situazione oggettiva esterna (ad esempio, la presenza di un regime politico autoritario).

Tale comportamento umano assume peraltro rilievo non solo se proveniente dalla controparte contrattuale, ma anche se proveniente da un terzo, ossia da un soggetto che resti estraneo alla conclusione del contratto.

Dalla violenza morale, disciplinata dagli artt. 1434-1438 c.c., deve essere tenuta distinta la violenza fisica: quest’ultima, pur non essendo espressamente disciplinata da alcuna norma del Codice civile, ricorre nel caso (peraltro di assai rara verificazione pratica) in cui taluno costringa fisicamente un soggetto a sottoscrivere il contratto, ad esempio guidandogli la mano con la forza.

La violenza fisica non è causa di annullamento del contratto, ma di vera e propria inesistenza del consenso e, quindi, di nullità del contratto (o, secondo parte della dottrina, addirittura di inesistenza dello stesso, con conseguente inapplicabilità anche dell’istituto della conversione del contratto nullo in altra tipologia contrattuale, di cui abbia i requisiti di sostanza e di forma).

Nel caso della violenza fisica, il consenso è del tutto inesistente.

Nel caso della violenza morale, il consenso esiste (coactus, tamen voluit), ma è viziato ab origine, nel senso che il contraente si trova di fronte all’alternativa tra stipulare un contratto o subire un danno ingiusto. Se, per sottrarsi al pericolo del danno, la parte decide di stipulare il contratto, quest’ultimo è annullabile, in quanto la volontà non si è formata correttamente, ma è stata alterata dalla minaccia subìta.

La violenza, per poter integrare una causa di annullabilità del contratto, deve essere di tale natura da fare impressione su una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole (art. 1435 c.c.).

La violenza deve quindi consistere nella minaccia di un male ingiusto e notevole, deve riguardare la persona o i beni del contraente (o, nei casi e con i limiti di cui al successivo art. 1436 c.c., di un terzo) e deve essere tale da spaventare una persona sensata.

Tale ultimo requisito impone una valutazione condotta alla stregua dell’“uomo medio” (con esclusione, ad esempio, delle persone eccessivamente suggestionabili), anche se l’art. 1435 c.c. consente di tenere conto, nell’ambito di essa, di parametri soggettivi, quali l’età, il sesso e la condizione delle persone.

La violenza è causa di annullamento del contratto anche se esercitata da un terzo (art. 1434 c.c.): a differenza di quanto avviene per l’errore e il dolo, non è necessario, ai fini della annullabilità del contratto, che la controparte fosse consapevole della violenza esercitata dal terzo.

L’art. 1436 disciplina la violenza diretta contro terzi e stabilisce che la violenza è causa di annullamento del contratto, anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui.

Se, invece, il male minacciato riguarda altri soggetti, allora l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione del giudice.

Non è invece causa di annullamento del contratto il solo timore reverenziale (art. 1437 c.c.). Si tratta del timore che una persona incute su di un’altra a causa della sua età, della sua fama e autorevolezza o dei loro particolari rapporti (es. datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato).

In sostanza, il timore reverenziale ricorre quando la parte si determina a concludere il contratto per compiacere un soggetto, nei cui confronti nutre una certa soggezione: tale situazione è in ogni caso inidonea a comportare l’annullamento del contratto.

Il Legislatore ha poi disciplinato espressamente il caso della minaccia di far valere un diritto, stabilendo, all’art. 1438 c.c., che essa può essere causa di annullamento del contratto solo quando sia diretta a conseguire vantaggi ingiusti.

La minaccia di far valere un proprio diritto non è di regola ingiusta (es.: si pensi al caso di un creditore che, di fronte all’inadempimento della controparte, al fine di ottenere una garanzia che rafforzi il suo credito, minacci di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto).

Essa può tuttavia concretare l’elemento dell’ingiustizia, e conseguentemente essere causa di annullamento del contratto, quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti (art. 1438 c.c.).

Secondo la giurisprudenza, tale fattispecie si realizza quando colui che esprime la minaccia di far valere un proprio diritto lo fa per un fine iniquo e diverso da quello che sarebbe conseguibile mediante l’esercizio del diritto stesso.

Si pensi, ad esempio, ad un soggetto che voglia acquistare un determinato bene, e si sia da sempre visto opporre un rifiuto dal proprietario di esso. Si supponga che l’aspirante acquirente, presumendo di essere a conoscenza di un illecito penale commesso dal proprietario del bene, minacci di denunciarlo all’autorità giudiziaria al solo fine di indurlo alla vendita del bene: in tal caso, la minaccia di far valere un diritto (i.e.: denuncia all’autorità giudiziaria di un illecito penale) è diretta a conseguire un fine del tutto diverso da quello per cui il diritto stesso è accordato, e concreta pertanto la minaccia di un male ingiusto. Conseguentemente, il contratto che il proprietario del bene abbia stipulato suo malgrado, al solo fine di evitare la denuncia penale, è annullabile.

Anche l’onere della prova della violenza morale grava interamente sulla parte che assume di avere subìto quest’ultima e che intende chiedere l’annullamento del contratto, trattandosi di un fatto costitutivo dell’azione di annullamento (art. 2697 c.c.).

  1. Il dolo.

Ricorre infine il vizio del dolo contrattuale, nel caso in cui l’errore della parte sia il frutto di artifici o raggiri operati dalla controparte o da un terzo.

Anche il dolo è un vizio del consenso e, come tale, è causa di annullabilità del contratto.

Anche in questo caso, l’onere della prova  grava interamente sulla parte che ha subìto il dolo altrui e che intende chiedere l’annullamento del contratto, trattandosi di un fatto costitutivo dell’azione di annullamento (art. 2697 c.c.).

Secondo quanto dettato dall’art. 1439 c.c., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti (il c.d. deceptor) sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte (il c.d. deceptus) non avrebbe contrattato: si parla, in tal caso, di “dolo determinante”.

Il dolo è causa di annullamento del contratto anche qualora provenga da un terzo e non dalla controparte contrattuale, a condizione, però, che quest’ultima fosse a conoscenza dei raggiri perpetrati dal terzo (a differenza di quanto avviene nel caso di violenza morale perpetrata dal terzo, che è sempre causa di annullabilità del contratto, a prescindere dalla circostanza che la controparte contrattuale ne fosse o no a conoscenza).

Affinché possa parlarsi di “dolo determinante”, tra gli artifici o i raggiri, perpetrati dalla controparte o da un terzo, e la conclusione del contratto deve sussistere un diretto nesso di causalità, tale la parte non avrebbe contrattato, ove non fosse stata dolosamente ingannata.

Diversamente dall’errore, quindi, il requisito che rende rilevante il dolo non è l’essenzialità dell’errore che provoca, ma la sua efficacia determinante.

Non è invece necessario che la parte ingannata abbia subìto un danno o abbia concluso un contratto svantaggioso, perché l’alterazione della volontà è di per sé sufficiente a rendere invalido il contratto.

I raggiri e gli artifici utilizzati dalla controparte o dal terzo devono essere tali da indurre a contrattare una persona di normale diligenza, non potendo l’ordinamento tutelare la mera credulità e l’eccessiva ed ingiustificata ingenuità: tale valutazione è rimessa al giudice di merito, implicando un apprezzamento di fatto sui raggiri utilizzati, sulla complessiva situazione e sulla scusabilità dell’errore prodotto.

Qualora i raggiri non siano stati tali da determinare il consenso, ma abbiano inciso solo sulle condizioni della contrattazione (nel senso che la parte raggirata avrebbe comunque concluso il contratto, ma lo avrebbe fatto a condizioni diverse), il contratto non è annullabile, ma la parte che ha subito il raggiro può chiedere il risarcimento del danno alla controparte che sia stata in mala fede, ossia che sia stata a conoscenza degli artifici o raggiri utilizzati (art. 1440 c.c.): si parla, in tal caso, di dolo incidente.

La responsabilità che sorge in tale ipotesi è di natura precontrattuale, e ciò ha fatto sì che parte della dottrina abbia sottolineato l’inutilità della norma di cui all’art. 1440 c.c., derivando già la responsabilità precontrattuale dal generale obbligo di comportamento secondo buona fede di cui all’art. 1337 c.c.

Dubbia è la rilevanza del cd. “dolo omissivo”, che (a differenza di quello “commissivo”, espressamente considerato dalle norme) non consiste in un comportamento attivo di artifizio o raggiro ad opera della controparte o del terzo, bensì nell’induzione in errore attraverso l’affermazione di una circostanza non vera (menzogna) o nell’omessa comunicazione di una circostanza vera (reticenza).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, il dolo omissivo dà luogo a conseguenze analoghe rispetto a quelle del dolo commissivo solo in presenza di un obbligo, espressamente previsto, di dichiarare il vero stato delle cose.

Non è infine soggetto alla disciplina di cui agli artt. 1439-1440 il cd. dolus bonus, consistente nella normale esaltazione pubblicitaria che, in genere, nel campo del commercio, si fa della propria merce o delle proprie attività.

Fondamento di tale esclusione risiede nella considerazione che qualsiasi soggetto di media avvedutezza e cultura sia in grado di valutare opportunamente tale pubblicità e tenerla nel giusto conto: conseguentemente, il cd. dolus bonus non costituisce vero e proprio dolo, mancando dell’idoneità ad ingannare.

Nella prassi, non sempre è agevole distinguere il dolus bonus dal vero e proprio dolus malus; la valutazione è rimessa al giudice di merito e lo stesso Legislatore è ormai da tempo intervenuto per disciplinare con norme apposite il fenomeno della pubblicità ingannevole, soprattutto al fine di tutelare il consumatore.