La rescissione (rectius: rescindibilità) è una forma di invalidità del contratto posta principalmente a tutela di chi contrae a condizioni inique per il suo stato di bisogno o per uno stato di pericolo.

Il Codice civile prevede due figure di rescissione:

  • la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo (art. 1447 c.c.);
  • la rescissione del contratto concluso in stato di bisogno, detta anche rescissione per lesione (art. 1448 c.c.).

Entrambe sono dirette alla rimozione giudiziale di un contratto, che è solo “provvisoriamente efficace, a causa della sua irregolarità che risulta dall’iniquità derivante dall’approfittamento di una situazione di anomala alterazione della libertà negoziale” (BIANCA).

Entrambe tali figure, inoltre, riguardano solo i contratti a prestazioni corrispettive, che risultino affetti da un determinato vizio genetico.

La rescissione del contratto concluso in stato di pericolo ricorre qualora “una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” (art. 1447 c.c.).

L’ipotesi tipica è quella del contratto concluso con l’autore di un intervento di salvataggio.

Altra fattispecie, tratta dall’esperienza storica del periodo di guerra, è quella delle truppe di occupazione che, minacciando una deportazione di massa, impongano ad una categoria di cittadini di raccogliere un’ingente somma di denaro, costringendoli di riflesso ad una “svendita” in massa di tutti i propri beni per procurarsi la somma necessaria. In tal caso, le condizioni inique sono state subìte per evitare il pericolo attuale di un danno grave alla persona: pertanto, se lo stato di pericolo è noto alla controparte, che ha acquistato i beni ad un prezzo irrisorio, il contratto è rescindibile.

Affinché trovi applicazione la fattispecie di cui all’art. 1447 c.c., sono dunque necessari tre presupposti, i primi due di carattere oggettivo ed il terzo di carattere soggettivo.

In primo luogo, deve ricorrere lo stato di pericolo in cui si trovava uno dei contraenti al momento della conclusione del contratto.

Il contratto non è rescindibile, se il pericolo di un danno attuale e grave non riguarda le persone, ma le cose.

E’ invece rescindibile, se riguarda persone diverse dal contraente, ed anche se il soggetto si è posto volontariamente o per colpa nella situazione pericolosa.

Il requisito della gravità del pericolo deve essere inteso in senso relativo, perché deve essere valutato in relazione alla persona che lo subisce.

Secondo parte della dottrina, si tratta di un concetto analogo a quello previsto, in materia di responsabilità extra-contrattuale, dall’art. 2045 c.c. (“stato di necessità”): tali fattispecie hanno infatti in comune la strumentalità dell’atto, con cui ci si sottrae al pericolo.

Secondo altro orientamento dottrinario, ai fini della rescissione non è invece necessario che il pericolo sia reale, essendo sufficiente anche il cd. “pericolo putativo” a menomare la libertà contrattuale del soggetto.

Altro indirizzo ancora rileva infine che lo stato di pericolo ex art. 1447 c.c. è integrato anche qualora il soggetto si sia posto volontariamente e per colpa nella situazione pericolosa, mentre lo stato di necessità ex art. 2045 c.c. presuppone necessariamente l’assenza di colpa nell’agente (il quale, laddove avesse volontariamente o colposamente causato lo “stato di necessità”, sarebbe tenuto a rispondere integralmente del danno provocato, secondo le norme della responsabilità aquiliana).

Il secondo presupposto richiesto per l’applicazione della fattispecie è l’iniquità delle condizioni a cui il contraente, che si trova in pericolo, ha dovuto soggiacere per salvarsi dallo stato di pericolo medesimo.

L’accertamento di tale presupposto è interamente rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, poiché la norma non prevede una “misura minima” di sproporzione, al di sopra della quale soltanto sia possibile attivare il rimedio (a differenza di quanto avviene nella rescissione per lesione).

Il terzo presupposto richiesto è infine la conoscenza dello stato di pericolo da parte di colui che ne ha tratto vantaggio.

Qualora venga pronunciata la rescissione, a favore di tale parte può essere assegnato, da parte del giudice, un equo compenso per l’opera prestata (art. 1447, comma 2, c.c.).

La rescissione per lesione può essere pronunciata “se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio” (art. 1448, comma 1, c.c.).

Anche in questo caso sono dunque necessari tre presupposti, i primi due di carattere oggettivo ed il terzo di carattere soggettivo.

In primo luogo, è richiesta la lesione ultra dimidium, ossia una sproporzione tra le due prestazioni superiore alla metà.

L’art. 1448, comma 2, c.c. stabilisce infatti che “l’azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto”.

In altri termini, il valore della prestazione, cui è tenuta la parte danneggiata, deve superare di oltre il doppio il valore della controprestazione.

La lesione deve essere accertata con  riferimento al momento della conclusione del contratto; tuttavia, il contratto non è più rescindibile se, a causa di circostanze sopravvenute, la sproporzione è venuta a mancare nel momento in cui è proposta la domanda di rescissione (art. 1448, comma 3, c.c.).

Secondariamente, deve sussistere lo stato di bisogno della parte danneggiata, che deve essere inteso non già come assoluta indigenza o incapacità patrimoniale, ma piuttosto come situazione di difficoltà economica, anche transitoria, che incida sulla libera determinazione del contraente.

In ogni caso, gli interessi minacciati devono avere carattere patrimoniale (poiché, se avessero carattere personale, si rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 1447 c.c.).

Infine, è richiesto l’approfittamento dello stato di bisogno ad opera della controparte, che non presuppone necessariamente un comportamento attivo o un’iniziativa fraudolenta della parte, ma che può essere integrato anche da un comportamento meramente passivo e risolversi quindi in una condizione psicologica di mera conoscenza (i.e.: mala fede in senso soggettivo) delle circostanze cui si ricollega la rescindibilità del contratto.

Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori (art. 1448, comma 4, c.c.), perché ad essi è connaturata la possibilità, legata alla sorte, che nasca un vantaggio sproporzionato di una parte nei confronti dell’altra.

Sono fatte salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione (art. 1448, comma 5, c.c.), le quali richiedono una lesione ultra quartum (anziché ultra dimidium) e prescindono dai presupposti dello stato di bisogno di uno dei coeredi e dell’approfittamento di esso da parte degli altri, oltre a prevedere un diverso termine prescrizionale per la relativa azione, biennale anziché annuale (art. 763 c.c.).

Legittimato attivo ad esercitare l’azione di rescissione è la parte danneggiata, nonché il suo erede (ma non il suo avente causa a titolo particolare).

La sentenza di accoglimento della domanda ha natura costitutiva, perché priva il contratto della sua efficacia, e dunque modifica la realtà giuridica.

L’azione di rescissione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto; tuttavia, se il fatto costituisce reato, il termine di prescrizione coincide con quello del reato, se esso prevede una prescrizione più lunga di quella civilistica (art. 1449, comma 1, c.c.). Se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, l’azione si prescrive nel termine di un anno, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (art. 2947, ultimo comma, c.c.)

A differenza di quanto avviene per la nullità e l’annullabilità, la rescindibilità del contratto non può essere opposta in via di eccezione quando l’azione è prescritta (art. 1449, comma 2, c.c.). Ciò comporta che, una volta decorso il termine di prescrizione, il contratto è ad ogni effetto valido ed efficace.

Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può sempre evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità (art. 1450 c.c.): tale comportamento, rimuovendo la grave sproporzione tra le prestazioni, legittima il mantenimento dell’efficacia del contratto, in ossequio al generale principio di conservazione dei negozi giuridici.

Qualora tale possibilità non venga utilizzata, il contratto rescindibile non può essere convalidato (art. 1451 c.c.): ciò significa che, anche quando la parte danneggiata dichiari espressamente di rinunciare all’azione di rescissione o esegua spontaneamente la prestazione, potrà sempre ottenere la restituzione della prestazione eseguita, secondo le regole dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), fino a quando l’azione non sia prescritta.

Il Legislatore ha infatti temuto che, mediante l’istituto della convalida, potesse essere frustrato lo scopo di tutela della parte danneggiata. Vietando l’applicazione della convalida, si è quindi voluto evitare che il soggetto danneggiato fosse indotto a privarsi della facoltà di liberarsi da un vincolo assunto a condizioni inique (es.: a causa del perdurare di una condizione di indigenza, di cui la controparte continui ad approfittare).

La pronuncia di rescissione comporta, come conseguenze inter partes, la liberazione dall’obbligo di adempiere alle prestazioni dedotte e la restituzione delle prestazioni già eseguite, secondo le norme sull’indebito oggettivo (artt. 2033 e ss. c.c.).

Essa, pertanto, ha effetti retroattivi inter partes.

La rescissione del contratto non pregiudica invece i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di rescissione (art. 1452 c.c.): pertanto, gli effetti della pronuncia di rescissione non sono retroattivi per i terzi.