• . 1 Nozione generale di inadempimento.

L’inadempimento consiste nella mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta: nel primo caso, l’inadempimento è totale, nel secondo parziale.

L’inadempimento può inoltre essere:

– definitivo o temporaneo, a seconda che la prestazione non possa più essere adempiuta o sia solo temporaneamente ineseguita (cd. “ritardo nell’adempimento”);

– imputabile o non imputabile, a seconda che esso dipenda da dolo o colpa del debitore (e comporti pertanto, a carico dello stesso, l’obbligo al risarcimento del danno), oppure, invece, consista in un comportamento obiettivamente antigiuridico, ma non dipendente da dolo o colpa del debitore (in tal caso, ferma restando l’applicazione di rimedi a tutela del creditore, quali la risoluzione del contratto, il debitore non sarà tenuto al risarcimento del danno).

Al fine di assicurare una maggiore sicurezza dei traffici economici, l’art. 1218 c.c. accoglie una nozione rigidamente oggettiva dell’inadempimento: quest’ultimo sussiste per il solo fatto che la prestazione sia rimasta ineseguita e il comportamento del debitore non assume rilevanza, se egli non dimostra l’oggettiva impossibilità della prestazione.

Tale rigidità risulta peraltro in parte temperata dall’art. 1176 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno se è stato diligente, ma, nonostante ciò, è risultato comunque impossibile adempiere.

 

  • . 2 L’imputabilità.

Principio fondamentale in materia di responsabilità è l’imputabilità del soggetto inadempiente, ossia la capacità naturale di intendere e di volere del soggetto nel momento in cui ha posto in essere il fatto dannoso (art. 2046 c.c.).

La capacità naturale di intendere e di volere indica quel minimo di attitudine psichica ad agire e a valutare le conseguenze della propria condotta, necessario affinché possa ritenersi che il fatto dannoso è conseguenza di una libera scelta dell’autore.

Tale capacità deve essere valutata in concreto dal giudice, caso per caso, anche con riferimento al soggetto legalmente incapace di agire (es.: interdetto). Occorre infatti accertare se il fatto è stato causato in un momento di lucidità mentale, momento in cui anche l’incapace legale può rendersi conto delle conseguenze della propria azione e può quindi essere tenuto al risarcimento del danno.

La capacità naturale di intendere e di volere è presunta fino a prova contraria (presunzione relativa o juris tantum), per cui la prova della non imputabilità deve essere fornita dal soggetto convenuto nel giudizio diretto ad ottenere il risarcimento del danno.

La responsabilità del soggetto non può infine essere esclusa, se l’incapacità deriva da colpa del soggetto agente (cd. “actiones liberae in causa”).

Stabilisce infatti l’art. 87 c.p. che, per l’imputazione dell’atto illecito, non è necessario che lo stato di capacità sussista al momento della commissione di quest’ultimo, quando la condizione di incapacità di intendere e di volere sia stata volontariamente causata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa.

Pertanto, in tal caso, dall’azione non libera che ha direttamente provocato l’evento dannoso si deve risalire all’azione libera che l’ha preceduta, e che costituisce la vera, anche se indiretta, causa dell’evento.

 

  • . 3 L’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore.

L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore determina l’estinzione dell’obbligazione (art. 1256 c.c.).

Tale effetto, tuttavia, non si verifica nel caso in cui l’impossibilità, determinata da causa non imputabile al debitore, sopravvenga quando quest’ultimo era già stato costituito in mora da parte del creditore, a meno che il debitore non provi che l’oggetto della prestazione sarebbe egualmente perito anche presso il creditore (art. 1221 c.c.).

L’art. 1218 c.c. esclude la responsabilità del debitore in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

La dottrina, a tal proposito, si è chiesta se possa configurarsi una causa di esclusione della responsabilità del debitore fondata sulla cd. “inesigibilità” della prestazione, ossia se la responsabilità del debitore possa essere esclusa, o quanto meno limitata, anche quando egli non abbia adempiuto, perché l’esecuzione della prestazione avrebbe comportato, da parte sua, un impiego di mezzi ed energie esageratamente sproporzionato rispetto alla natura della prestazione stessa.

La risposta a tale interrogativo deve ritenersi affermativa, perché, in base al principio di correttezza e buona fede oggettiva, che rappresenta una fonte degli obblighi reciproci a carico del creditore e del debitore (art. 1175 c.c., con riguardo alle obbligazioni in generale, e art. 1375 c.c., con particolare riferimento all’esecuzione delle obbligazioni derivanti da contratto), è possibile equiparare all’impossibilità della prestazione (art. 1218 c.c.) anche la cd. “inesigibilità” della stessa.

Il creditore non può infatti, alla luce dei principi di correttezza e buona fede oggettiva, esigere una prestazione che richieda al debitore uno sforzo eccessivo e sproporzionato rispetto alla natura della prestazione stessa e che implichi l’utilizzo di mezzi eccezionali, non connaturati alla tipologia di prestazione richiesta.

Ad esempio, risulterebbe contrario a correttezza e buona fede oggettiva, da parte del datore di lavoro, esigere la prestazione lavorativa da parte del prestatore di lavoro, quando l’effettuazione delle mansioni esporrebbe quest’ultimo a rischi per la salute, in relazione alle modalità di svolgimento o alle condizioni insalubri del luogo di lavoro.