La dottrina tradizionale definisce la discrezionalità come la facoltà di scelta tra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico fissato dal Legislatore (limite supremo della discrezionalità amministrativa) e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato (cd. principio di congruità tra i poteri ricevuti e gli obiettivi dell’azione amministrativa).

Tale definizione appare peraltro incompleta, in quanto non evidenzia un fondamentale elemento della discrezionalità amministrativa, rappresentato dal criterio che guida la Pubblica Amministrazione nella scelta.

Sotto tale profilo, appare dunque fondamentale la nozione proposta da altra parte della dottrina, che configura la discrezionalità amministrativa come una ponderazione comparativa tra più interessi secondari in ordine ad un interesse primario, enucleando e distinguendo il momento del giudizio- che si sostanzia nell’analisi e nell’individuazione dei fatti e degli interessi sulla base di un’istruttoria – ed il momento della volontà – che si realizza, invece, nella scelta degli interessi primari.

Il problema principale, che si pone alla base della teoria della discrezionalità, è quello di evitare l’arbitrio nelle scelte dell’autorità.

Per tale motivo, la dottrina e la giurisprudenza del Consiglio di Stato hanno provveduto ad enucleare i limiti propri dell’attività discrezionale, rappresentati:

  • dall’interesse pubblico, da intendersi come interesse della collettività, non coincidente con quello della Pubblica Amministrazione, né tanto meno con la mera somma degli interessi individuali. Esso deve essere concreto, attuale e collettivo:
  • dalla causa del potere, la quale costituisce un vincolo fondamentale dell’attività discrezionale e deve sempre perseguire un fine rispondente alla causa del potere esercitato e si identifica con il fine specifico per cui il potere è stato conferito;
  • dai principi di logica, imparzialità e ragionevolezza, che devono sempre regolare l’attività amministrativa;
  • dal principio dell’esatta e completa informazione, che si concreta nella necessità di un’adeguata istruttoria compiuta attraverso uffici competenti ed agenti addetti, da cui consegua un risultato esente da errori.

La violazione dei limiti posti alla discrezionalità amministrativa comporta l’illegittimità dell’atto amministrativo sotto il profilo dell’eccesso di potere.

La facoltà di scelta della Pubblica Amministrazione può afferire sia all’an dell’emanazione di un provvedimento, sia al quando (ossia all’individuazione del momento più opportuno per la sua emanazione), sia al quomodo (ossia alla scelta della forma più opportuna e degli eventuali elementi accidentali del provvedimento), sia infine al quid (ossia alla scelta del contenuto concreto del provvedimento).

Per quanto riguarda, infine, il fondamento normativo della discrezionalità amministrativa, la dottrina maggioritaria lo individua nelle cd. “norme permissive”, che non solo rendono lecite determinate azioni, ma soprattutto attribuiscono ai soggetti capacità, potestà, diritti.

Altra parte della dottrina ritiene invece che, nel nostro ordinamento, non si rinvengano norme volte a giustificare la discrezionalità amministrativa.

In conclusione, può quindi affermarsi che la discrezionalità amministrativa si configura come facoltà inerente allo stesso potere (rectius: potestà) di cui è titolare la Pubblica Amministrazione, laddove per potestà deve intendersi il potere di supremazia finalizzato al perseguimento di pubblici fini predeterminati.

Tradizionalmente, in contrapposizione alla discrezionalità si colloca il concerto di “merito amministrativo”.

Secondo tale impostazione, il merito esprime la conformità della scelta discrezionale alle regole non giuridiche della buona amministrazione, volte ad assicurare l’efficienza e l’economicità dell’azione della pubblica amministrazione  e la rispondenza dell’atto amministrativo ai criteri di convenienza, opportunità ed equità. Tale aspetto attiene dunque al profilo dei risultati dell’azione amministrativa e rientra in una sfera riservata alla Pubblica Amministrazione.

Viceversa, la nozione di legittimità si riporta a tutto quanto concernente la rispondenza dell’atto stesso a norme giuridiche che governano l’esercizio del relativo potere di adozione, senza considerare il profilo dei risultati conseguiti o conseguibili.

La valutazione dei criteri di convenienza, opportunità ed equità non è di regola sindacabile dal giudice amministrativo, tranne nelle materie tassativamente individuate in cui quest’ultimo è dotato di giurisdizione di merito.

Deve peraltro evidenziarsi come i confini del merito amministrativo siano stati sensibilmente erosi dalla Legge 07 agosto 1990 n. 241, la quale, all’art. 1, ha tipizzato i doveri amministrativi di economicità ed efficacia, trasferendoli così dall’ambito delle regole matagiuridiche (e, quindi, del merito) a quello delle norme espresse di legge, la cui violazione comporta l’illegittimità dell’atto amministrativo, per vizio di violazione di legge o (secondo Corte dei Conti, sez. controllo, sentenza n. 21/1992) di eccesso di potere.