Cass. civ., Sez. III, ord., 22 maggio 2025, n. 13760


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere Rel.

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2071/2024 R.G. proposto da:

S.A. Spa IN LIQUIDAZIONE, nella persona del liquidatore in atti indicato, rappresentata e difesa dagli avvocati L. D. e M. R. C., presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dei quali è domiciliata per legge;                                                                       – ricorrente –

contro

A.A.                                                                                                                                                                                   – intimata –

avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di CATANIA n. 3617/2023 depositata il 11/09/2023;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/05/2025 dal Consigliere PASQUALE GIANNITI.

Svolgimento del processo

  1. A.A. impugnava ex art. 615 cpc davanti al Giudice di Pace di Paternò l’Intimazione ad adempiere n. (…), alla stessa diretta dalla Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale “Catania 3”, in relazione al pagamento ex art. 238 D.Lgs. n. 152/2006 della T.I.A. (tariffa igiene ambientale), dell’anno 2012 e dell’importo di Euro 143,54, per l’immobile (garage) sito in Paternò, via (…). In particolare, parte opponente deduceva “omessa notifica dell’avviso prodromico” (motivo n. 1) la predetta intimazione, indi portante un credito da ritenersi prescritto (motivo n. 2), e comunque illegittimo per “omessa motivazione” (motivo n. 3), che avrebbe reso impossibile ad essa contribuente la comprensione delle ragioni del domandare, per “totale assenza del contraddittorio” (motivo n. 4), non essendo stata la stessa chiamata a partecipare al procedimento precedente l’imposizione tributaria in parola, “per l’errata indicazione dell’Autorità presso cui impugnare l’atto” (motivo n. 5) e “mancata indicazione delle modalità di calcolo degli interessi applicati”. Chiedeva pertanto annullare e/o con qualsiasi forma revocare o dichiarare inefficace la Ingiunzione Impugnata.
  2. C. 3 S.A. Spa, in liquidazione, si costituiva, contestando la pretesa attorea.

Il giudice di primo grado, con sentenza n. 123/2022, in accoglimento dell’opposizione, annullava la suddetta intimazione ad adempiere in difetto di prova della tempestiva e regolare notifica di atti interruttivi del termine quinquennale di prescrizione e dichiarava l’estinzione del credito per intervenuta prescrizione, condannando la convenuta al pagamento delle spese di lite.

Avverso detta sentenza la soccombente proponeva appello, chiedendone la riforma con il favore delle spese di entrambi i gradi.

Si costituiva l’appellata, eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità dell’appello per difetto dei requisiti ex artt. 342 e 348 c.p.c.; e chiedendo, nel merito, il rigetto del gravame, con vittoria delle spese di lite da distrarsi ex art. 93 c.p.c.

Il Tribunale di Catania, quale giudice di appello, con sentenza n. 3617/2023 dichiarava l’inammissibilità dell’appello e condannava parte appellante al pagamento delle spese processuali che distraeva in favore del difensore antistatario.

  1. Avverso la sentenza del giudice di appello ha proposto ricorso la S.A. Spa in liquidazione.

L’intimata A.A. non ha svolto difese.

Per l’odierna adunanza il Procuratore Generale non ha rassegnato conclusioni scritte.

Il difensore di parte ricorrente ha depositato memoria.

La Corte si è riservata il deposito della motivazione entro il termine di sessanta giorni dalla decisione.

Motivi della decisione

  1. La società S.A. Spa in liquidazione articola in ricorso quattro motivi.

1.1. Con il primo motivo, la società ricorrente denuncia: “violazione dell’art. 113 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.: nullità della Sentenza e del procedimento”.

Sottolinea che: a) si controverte della debenza della tariffa d’igiene ambientale; b) il rapporto giuridico sottostante è relativo a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c.; c) invero, pur mancando un vero e proprio contratto, il regolamento per l’espletamento del servizio di igiene urbana costituisce proposta delle prestazioni di raccolta e conferimento del rifiuto, sinallagmaticamente correlate all’obbligazione pecuniaria a carico dei contribuenti/utenti, in capo ai quali si verifichi il presupposto del prelievo coattivo in esame; d) in ogni caso l’obbligazione di pagamento in esame è riconducibile ad un c.d. contatto sociale qualificato.

Osserva che, pur nell’assenza di un formale contratto inter partes, essa Autorità d’Ambito è obbligata ad espletare, mantenendone un elevato livello qualitativo, il servizio di raccolta e conferimento del rifiuto e a detta attività è correlato un prelievo di natura corrispettiva a carico dei singoli privati, parametrato al costo complessivo del servizio e di poi spalmato sull’utenza in applicazione del D.P.R. n. 158/1999.

Deduce che, dovendosi qualificare come contrattuale il rapporto tra le parti oggi ed avendo la T.I.A. natura corrispettiva, è indubbia l’applicabilità dell’art. 1342 c.c. nel caso di specie, con la conseguenza che la sentenza impugnata ha erroneamente denegato l’esperibilità del rimedio dell’appello, malgrado l’evidente ricorrenza di deroga espressa alla regula iuris ex art. 113 cpv. c.p.c.

1.2. Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia: “violazione dell’art. 339 c. 3 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.: nullità della Sentenza e del procedimento” nella parte in cui il giudice di appello ha affermato: “Nel caso in esame, a ben vedere, nessuna doglianza concernente la violazione di norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie o dei principi regolatori della materia (nelle nozioni sopra richiamate) viene prospettata con il gravame in quanto la S.A. Spa – come emerge dalle conclusioni dell’atto di appello – assume l’erroneità, nel merito, della decisione di accoglimento dell’opposizione, con specifico riferimento alle valutazioni delle risultanze probatorie ed alla ricostruzione dei fatti controversi, in particolare con riguardo alla notificazione degli atti presupposti e quindi all’accertamento dell’intervenuta prescrizione del credito, e, in riforma della stessa, chiede dichiararsi la legittimità dell’intimazione di pagamento opposta, riconoscendo dovute le somme intimate”.

Ripercorre il contenuto dell’opposizione, della propria comparsa di costituzione, della sentenza di primo grado e dell’atto di appello.

Si duole che il giudice di appello non si è confrontato con il proposto gravame, che conteneva “censura di violazione di norme sul procedimento e di principi regolatori la materia qua agitur”.

1.3. Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia: “violazione dell’art. 114 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.: nullità della Sentenza e del procedimento” nella parte in cui il giudice di appello non ha ritenuto appellabile la sentenza di primo grado, nonostante che la res litigiosa (la debenza della TIA, per l’appunto) abbia ad oggetto diritti indisponibili e pertanto avrebbe dovuto essere decisa secondo diritto, sulla base delle seguenti argomentazioni: “Va infine disattesa anche la deduzione della S.A. Spa -svolta a seguito della rilevazione officiosa sull’eventuale inappellabilità della sentenza gravata – secondo cui l’appello sarebbe ammissibile in quanto il rapporto giuridico sottostante atterrebbe a diritti indisponibili. Si osserva, infatti, che la tariffa d’igiene ambientale riveste natura patrimoniale e costituisce un diritto disponibile (potendo essere oggetto di conciliazione in sede di reclamo all’ente impositore)”.

Invocando principi affermati ad es. da Cass. n. 18184/2014 e ribadendo concetti espressi in sede di comparsa conclusionale in appello, deduce che: a) anche nel caso di specie si è presenza di un diritto indisponibile del Comune di Paternò (e per esso di S.A.) all’irrinunciabile conseguimento del tributo/corrispettivo per il servizio TIA prestato; b) l’indisponibilità del diritto deriva dalle finalità di pubblico interesse perseguite dall’Amministrazione; ed, anzi, nel caso di tariffa rifiuti, il già richiamato carattere della indisponibilità del prelievo è ancor più spiccato rispetto a quanto accade per il corrispettivo della erogazione dell’acqua, stante che per la prima la Corte Costituzionale, con sentenza n. 238/2009, ha ritenuto sussistere la natura tout court di tributo, notoriamente e tradizionalmente insuscettivo di atti di disposizione da parte dell’Ente impositore.

1.4. Con il quarto motivo denuncia: “nullità della sentenza gravata per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4 c.p.c. (nel suo combinato disposto con l’art. 1 cpv. D.Lgs. n. 546/1992) in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.: nullità della Sentenza e del procedimento” nella parte in cui il giudice di appello ha affermato: “Nel caso in esame, a ben vedere, nessuna doglianza concernente la violazione di norme sul procedimento… viene prospettata con il gravame”.

Si duole che il giudice di appello, tanto affermando, non ha spiegato le ragioni per cui non ha ritenuto fondato il primo motivo del suo atto di appello, con il quale aveva rilevato che l’intimazione ad adempiere impugnata si fondava (non su una fattura, ma) su di un motivato atto di accertamento, che era stato ritualmente notificato in data 10.10.2017.

Si duole altresì del fatto che il giudice di appello ha immotivatamente ritenuto non denunciabile la violazione della disciplina processuale sulla regolamentazione delle spese di lite che erano state liquidate in primo grado oltre il valore della causa.

Si duole infine che il giudice di appello, con motivazione stereotipata ed apparente, non ha considerato la natura corrispettiva del prelievo in parola, che costituisce il sinallagma di prestazioni rese (in ragione di un contatto sociale qualificato tra l’esponente e l’utenza, ovvero di contratto di massa tra le medesime parti) da essa Autorità d’Ambito, in relazione a norme regolamentari, che disciplinano l’erogazione del servizio pubblico essenziale di igiene urbana identicamente per tutti i cittadini in modo sicuramente sussumibile nella previsione ex art. 1342 c.c.

1.5. In definitiva la società ricorrente, con i motivi sopra illustrati, si duole che il giudice di appello abbia ritenuto inammissibile il suo appello scorta del mero rilievo che il valore della controversia è inferiore alla soglia ex art. 113 cpv. c.p.c., senza considerare che: a) la res controversa, riguardando l’obbligo del contribuente/utente al versamento del corrispettivo per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, inerisce diritti indisponibili (sottratti, in quanto tali, al giudizio secondo equità); b) la res in iudicium deducta scaturisce da un “contatto sociale qualificato” tra soggetto erogatore del servizio pubblico essenziale della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti e utente di detto servizio pubblico ed è indi sottoposta ad una regolamentazione uniforme in regime di sostanziale monopolio con conseguente pertinente sovrapponibilità della fattispecie in disputa a quelle regolate ex art. 1342 c.c.; c) la denunciata violazione dei criteri di valutazione di prove legali compiuta dal giudice di pace ed il vizio di violazione degli artt. 91 e 82 c.p.c. nel quale lo stesso è incorso, liquidando le spese di lite in misura superiore rispetto al valore della causa, legittimavano la proposizione dell’appello.

E, per l’ipotesi di accoglimento anche di uno solo dei motivi di ricorso proposti, ripropone le già formulate doglianze avverso l’atto di citazione in opposizione.

  1. Il terzo motivo – che, per motivi di priorità logica, viene trattato per primo – è fondato.

2.1. La sua disamina impone delle considerazioni di sistema sulla tariffa o tributo comunale, destinato alla copertura dei costi relativi alla gestione dei rifiuti urbani in Italia.

Al riguardo, si sono succedute nel tempo diverse versioni: dapprima, il D.Lgs. n. 507/1993 ha istituito la Tassa per lo Smaltimento dei Rifiuti Solidi Urbani (c.d. TARSU); poi, il D.Lgs. n. 22/1997 (il c.d. “Decreto Ronchi”) ha istituito la Tariffa di Igiene Ambientale (c.d. TIA1); quindi, il D.Lgs. n. 152/2006 (il “Codice dell’Ambiente”), ha istituito la Tariffa Integrata Ambientale (c.d. TIA 2); ed ancora, il D.L. n. 201/2011 (convertito nella legge n. 214/2011), ha istituito il Tributo Comunale sui Rifiuti e sui Servizi (c.d. TARES); ed infine, la legge n. 147/2013 (c.d. legge di stabilità per il 2014) ha istituito la Tassa sui Rifiuti (c.d. TARI), che è attualmente in vigore. In sintesi, TARSU, TIA1, TIA2, TARES e TARI rappresentano diverse fasi evolutive della normativa italiana riguardante la tariffazione/tassazione dei rifiuti urbani, con cambiamenti significativi nella loro natura giuridica (da tributo a corrispettivo) e nella disciplina applicabile (in particolare per quanto riguarda l’IVA e la giurisdizione competente in caso di controversie).

In particolare, la tariffa d’igiene ambientale (c.d. TIA 1), disciplinata dall’art. 49, comma 14, del D.Lgs. n. 22/1997, nonché dall’art. 7, comma 2, del D.P.R.. n. 158/1999, si distingue dalla tariffa integrata ambientale (c.d. TIA2), disciplinata dall’art. 238 del D.Lgs. n. 152 del 2006.

Per quanto riguarda la c.d. TIA1, ormai da oltre quindici anni la Corte Costituzionale, con sent. n.238/2009, ha riconosciuto che, dietro al nome di “Tariffa”, si celava un tributo. L’articolo 49, comma 3 prevedeva infatti che il presupposto del Tributo fosse costituito dalla semplice occupazione o detenzione di aree scoperte o locali a qualunque uso adibiti. Con ciò si palesava la natura di tributo. Con la conseguenza che era illegittima l’applicazione dell’Iva, non potendosi applicare un’imposta su una tassa.

Quanto invece alla TIA 2, le Sezioni Unite, con sentenze nn. 8631 e 8632 del 2020, hanno statuito che la tariffa, di cui all’art. 238 del D.Lgs. n. 152 del 2006, come interpretata dall’art. 14, comma 33, del decreto-legge n. 78 del 2010, quale convertito nella legge n. 122/2010, ha natura contrattuale, ed è pertanto soggetta ad IVA ai sensi degli artt. 1, 3, 4, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 633 del 1972.

Sul solco tracciato dalle Sezioni Unite si è posta la successiva giurisprudenza di legittimità. Ad es. Cass. n. 15288/2021, nel ribadire la natura contrattualistica della TIA 2, ha precisato che i servizi erogati e il corrispettivo, pagato per essi, costituiscono due quote di un rapporto composto da una prestazione e una controprestazione, che legittima il pagamento dell’Iva. In tale contesto, è stato sottolineato che il legislatore ha legittimamente interpretato la disciplina della cd TIA 2, dettata dall’art. 238 del D.Lgs. n. 152 del 2006, per impedire che tra le possibili varianti di senso si potesse propendere per la natura tributaria della tariffa, come, invece, era avvenuto, in epoca appena precedente, per la c.d. TIA 1.

Orbene, il pagamento della TARSU, della TIA1, della TIA2, della TARES e della TARI – a prescindere dalla loro natura giuridica – è obbligatorio per legge, atteso che il citato art. 3 del D.P.R. n. 633/1972, come interpretato da consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 12744 e n. 16332/2018; nonché n. 4876, n. 14753, n. 15529 e n. 20972/2019), prevede che “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere” costituiscono prestazioni di servizi, “quale ne sia la fonte”.

Si tratta, in altri termini, di prestazioni patrimoniale imposte, che altro non sono che “imposizioni in senso sostanziale” (o “imposizioni di fatto”), in cui, nonostante l’eventuale fonte contrattuale, il corrispettivo è fissato unilateralmente ed in via autoritativa e al privato è rimessa soltanto la libertà (astratta) di richiedere la prestazione o il bene essenziale oppure rinunziarvi.

Occorre qui precisare che la nozione di “prestazione patrimoniale imposta” è più ampia di quella di “tributo”, in quanto abbraccia non soltanto le prestazioni imposte con atto autoritativo (c.d. imposizioni in senso formale), ma anche obbligazioni, assunte contrattualmente, nelle quali – vuoi per la presenza di monopoli fiscali (con conseguente fissazione di corrispettivi estranei alla logica di mercato nonostante la natura negoziale del rapporto), vuoi perché la determinazione del quantum debeatur (dunque, la parte della disciplina che provoca la decurtazione patrimoniale) è comunque frutto di determinazioni autoritative – il privato, in considerazione della particolare natura del bene o del servizio di cui ha bisogno (nella specie, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti), partecipa in modo solo apparentemente libero o volontario alla formazione dell’obbligazione, trovandosi in realtà in una particolare situazione di condizionamento o di sostanziale coazione.

2.2. Tanto premesso, tra la società che gestisce il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed il singolo utente, che di tale servizio usufruisce, non intercorre in senso stretto un rapporto la cui fonte è ravvisabile nella volontà contrattuale pienamente libera delle parti, che invece viene intrattenuto tra l’ente locale e l’impresa alla quale viene affidata la gestione del servizio, tanto che la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.

Invero, i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti sono obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessa unilateralmente fissata, con la previsione di un importo autoritativamente determinato allo scopo di ripartire le pubbliche spese necessarie a garantirli.

Il rapporto che si instaura – essendo relativo alla fornitura di un pubblico servizio – scaturisce, dunque, da un atto predisposto e disciplinato in maniera unilaterale da parte dell’ente senza possibilità alcuna di apportare modifiche da parte dell’utente, in capo al quale, quando si verifica il presupposto del prelievo coattivo, sorge l’obbligo della prestazione patrimoniale che è sinallagmaticamente correlata a quella dell’erogazione del servizio.

Per quanto qui rileva, dunque, la TIA2 integra prestazione patrimoniale di natura privatistica, ma costituisce un importo comunque dovuto e, dunque, “imposto”, semplicemente in ragione del possesso e della detenzione di locali o aree atti alla produzione di “rifiuti urbani”, normativamente e ragionevolmente parametrata ad una soltanto presuntiva e potenziale produzione di rifiuti, essendo

commisurata “alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte” (art. 238, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006). Tale importo, costituito da una quota fissa, relativa alla sussistenza del servizio, e da una quota variabile, relativa alla produzione di rifiuti presuntiva di ciascuna singola utenza, è, dunque, obbligatorio, come pure evidenziato dalla citata pronuncia a Sezioni Unite di questa Corte (Cass., n. 8631 del 2020), in quanto volto a garantire la completa copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani.

Ne consegue che il rapporto sinallagmatico, sottostante al pagamento della TIA2, attiene a diritti indisponibili, in considerazione dell’indisponibilità del diritto del Comune al conseguimento (irrinunciabile, una volta emanato il regolamento che lo preveda) del corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti; indisponibilità che discende direttamente dalle finalità di pubblico interesse perseguite dall’Amministrazione; e che non è per nulla elisa dalla possibilità di una riduzione o revisione in sede di conciliazione, tanto riguardando la facoltà dell’ente percettore, conferitagli appunto in ragione del pubblico interesse alla sua percezione nella misura corretta, di autodeterminarsi in ordine all’entità della prestazione di esigere.

Proprio l’indisponibilità del diritto impone di escludere che il Giudice di pace si sia pronunciato secondo equità.

In base ad un orientamento che può dirsi consolidato, infatti, la regola del giudizio equitativo non è, invero, compatibile con il carattere indisponibile delle situazioni dedotte in causa, dovendo la disposizione dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ. essere letta in correlazione con quella del successivo art. 114 cod. proc. civ., secondo la quale in tanto il merito della causa è deciso secondo equità in quanto esso riguardi diritti disponibili delle parti che ne facciano concorde richiesta (cfr. Cass. n. 6990/2007; n. 8375/2002). Si è, al riguardo, precisato che “la circostanza che la prima norma concerne tutte le cause di competenza del giudice di pace il cui valore non eccede i due milioni di Lire e la seconda solo quelle di valore superiore per le quali il giudizio equitativo sia stato domandato, non giustifica una conclusione restrittiva, giacché se la ratio della prevista richiesta delle parti per le cause di valore superiore sta nella finalità di evitare che le regole di diritto possano essere disapplicate in controversie con più rilevanti implicazioni economiche, ed è dunque esclusiva di tali cause, la ratio del limite costituito dalla non indisponibilità del diritto non è in alcun modo collegata alle conseguenze economiche della decisione, ma alle ragioni della indisponibilità, quali che esse siano. È, dunque, indipendente dal valore della causa ed assume identica valenza in entrambe le ipotesi” (così, Cass., n. 2002/8375, cit.).

La Corte reputa prioritaria, in difetto di evidenti ragioni che militino per una sua rimeditazione o perfino per un suo superamento, l’opportunità di non mutare un orientamento in materia processuale (ove di grande pregnanza è l’esigenza di affidamento nella stabilità delle interpretazioni) che può dirsi consolidato, poiché non contraddetto da tempo, ma soprattutto che garantisce una più piena estrinsecazione del diritto di difesa (consentendo un’impugnazione di merito assai ampia) quando sono coinvolti diritti indisponibili.

Va, dunque, data continuità al principio di diritto, già affermato da Cass. n. 18184/2014 e, ancor prima, da Cass. n. 19531/2004 e, di recente, ribadito da Cass. n. 5782 del 2025, secondo il quale non può essere decisa dal Giudice di pace secondo equità una causa che, pur rientrando nei limiti della sua competenza per valore, abbia ad oggetto il diritto di una delle parti di percepire dall’altra l’importo corrispondente ad una prestazione per legge dovuta, quello dovendo qualificarsi indisponibile.

Ha, dunque, errato il Tribunale di Catania a ritenere inammissibile l’appello proposto dalla odierna ricorrente: difatti, la sentenza del Giudice di pace che decide con riguardo ad intimazione di pagamento relativa al pagamento della TIA2, riguardando un diritto indisponibile del Comune, deve intendersi pronunciata secondo diritto, indipendentemente dal valore della controversia ed è, pertanto, appellabile senza che operino i limiti di cui all’art. 339, ultimo comma, cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis successivo alla modifica introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

Va, in conclusione, affermato il seguente principio di diritto:

“in tema di tariffa integrata ambientale disciplinata dall’art. 238 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (cosiddetta TIA 2), l’intimazione di pagamento, avente ad oggetto il diritto di una delle parti di percepire dall’altra l’importo corrispondente ad una prestazione dovuta per legge, ha ad oggetto una prestazione patrimoniale imposta e riguarda, pertanto, un diritto indisponibile. Pertanto, la sentenza del Giudice di pace, che decide su detta intimazione, deve intendersi pronunciata secondo diritto, indipendentemente dal valore della controversia; ed è appellabile senza che operino i limiti di cui all’art. 339, ultimo comma, cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, successivo alla modifica introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40”.

  1. L’accoglimento del terzo motivo consente di dichiarare assorbiti il primo ed il secondo motivo.
  2. Il quarto motivo di ricorso è infondato.

Al riguardo, occorre ribadire che, come ormai da un decennio precisato dalle Sezioni Unite (SU n. 16599 e n. 22232/2016), il vizio di motivazione meramente apparente ricorre allorquando il giudice della sentenza impugnata, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto, omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare ed illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

La motivazione è solo apparente (e, pertanto, la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo) quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento.

Nulla di tutto questo nel caso di specie, nel quale il Tribunale, seppure con motivazione sintetica, ha adeguatamente esplicitato il percorso argomentativo che lo ha condotto alla declaratoria d’inammissibilità dell’appello, rendendo in tal modo possibile il controllo sul ragionamento posto alla base del decisum. Per tale ragione, la motivazione della sentenza impugnata, ponendosi sicuramente al di sopra del cd. “minimo costituzionale”. non rientra affatto in una di quelle sole gravi anomalie argomentative individuate dalle Sezioni Unite (cfr. SU n. 8053 e n. 8054/2014).

  1. In definitiva, la sentenza impugnata, in accoglimento del terzo motivo, assorbiti il primo ed il secondo e rigettato il quarto, va cassata con rinvio al competente Tribunale, quale giudice d’appello, in persona di diverso magistrato, che dovrà procedere all’esame nel merito della controversia, provvedendo pure sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo, dichiara assorbiti il primo ed il secondo e rigetta il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Catania, in persona di diverso magistrato, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 14 maggio 2025.

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2025.


COMMENTO REDAZIONALE- La tariffa integrata ambientale (cosiddetta “TIA2”), disciplinata dall’art. 238 del D.lgs. 03 aprile 2006 n. 152 (cd. “Codice dell’Ambiente”), pur non costituendo (a differenza della tariffa di igiene ambientale, cd. “TIA1”) un tributo e pur essendo quindi soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario, assume comunque natura di “prestazione patrimoniale imposta”.

Tale concetto risulta più ampio rispetto a quello di “tributo”, in quanto comprende anche tutte quelle obbligazioni, che vengono assunte contrattualmente, ma nelle quali il privato, in considerazione della particolare natura del bene o del servizio di cui ha bisogno (nella specie, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti), partecipa in modo solo apparentemente libero o volontario alla formazione dell’obbligazione, trovandosi in realtà in una particolare situazione di condizionamento o di sostanziale coazione, vuoi per la presenza di monopoli fiscali (con conseguente fissazione di corrispettivi estranei alla logica di mercato, nonostante la natura negoziale del rapporto), vuoi perché la determinazione del quantum debeatur è frutto di determinazioni autoritative.

Stante la natura di “prestazione patrimoniale imposta” della TIA2, la controversia relativa all’impugnazione dell’atto di accertamento o di riscossione della stessa attiene a diritti indisponibili e deve pertanto essere decisa dal Giudice di Pace secondo diritto, e non già secondo equità, a prescindere dal suo valore.

La pronuncia secondo equità presuppone infatti sempre e comunque la natura disponibile del diritto in contestazione che, nel caso di controversia concernente la TIA2, non ricorre in alcun caso.

Di conseguenza, alla sentenza del Giudice di Pace in materia di TIA2 non sono applicabili le limitazioni in materia di appello previste per la sentenza emessa dal Giudice di pace secondo equità dall’art. 339, ultimo comma, c.p.c. (nel testo vigente, applicabile ratione temporis, successivo alla modifica introdotta dal D.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40).

Viene quindi riformata la sentenza di secondo grado, che aveva dichiarato inammissibile l’appello del Comune, in quanto proposto in violazione dei predetti limiti.

Poiché la TIA2 costituisce un diritto indisponibile del Comune, il Giudice di Pace doveva decidere la relativa controversia non già secondo equità, ma secondo diritto, e la relativa sentenza risultava appellabile nei modi ordinari.