Consiglio di Stato, Sez. II, Sent., 10 maggio 2024, n. 4247
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 721 del 2022, proposto dal signor -OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato G.F., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
il Comune di Sant’Antimo, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, Sezione Seconda, -OMISSIS- resa tra le parti, avente ad oggetto ingiunzione a demolire un abuso edilizio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024, alla quale nessuno è presente per l’appellante, il Cons. Antonella Manzione;
Svolgimento del processo
- Il signor-OMISSIS- è proprietario di un terreno dell’estensione di mq. 3.329 nel Comune di S. (N.), catastalmente distinto al foglio (…), particelle (…), (…),(…), (…) e (…), in zona “I” del vigente strumento urbanistico, che consente la sola realizzazione di “attrezzature sportive”.
1.1. Con ricorso n.r.g. -OMISSIS-ha impugnato innanzi al T.a.r. per la Campania l’ordinanza di demolizione n. 11 del 5 maggio 2016, riferita al primo piano del fabbricato dallo stesso realizzato interamente sine titulo, oggetto di un’istanza di sanatoria accolta – in data 9 maggio 2016 – solo per quello seminterrato e per quello rialzato.
- Con la sentenza segnata in epigrafe il Tribunale adito ha respinto il gravame, condannandolo al pagamento delle spese di lite, quantificate in euro 3.000.
- Con ricorso notificato il 19 gennaio 2022 e depositato il 27 gennaio 2022, l’interessato ha proposto appello avverso la suddetta decisione, chiedendone la riforma.
3.1 A sostegno dello stesso, ha dedotto due motivi di doglianza, subarticolati in più paragrafi, così rubricati:
– “error in iudicando et in procedendo, carenza di istruttoria e di presupposti – violazione del principio di proporzionalità nella limitazione del diritto di proprietà alla stregua dell’art. 1 Protocollo (n° 1) addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – violazione delle regole del giusto procedimento, omessa comunicazione del correlato avvio, violazione dell’art.10-bis della L. n. 241 del 1990 – eccesso di potere”;
-” error in iudicando, violazione degli artt. 3 e 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990, parziale difformità contestata, violazione del principio di proporzionalità, applicazione di una sanzione pecuniaria”.
- All’udienza pubblica del 23 aprile 2024 la causa è stata introitata per la decisione.
Motivi della decisione
L’appello è infondato.
Con la prima censura l’appellante lamenta il mancato rispetto dell’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, laddove stabilisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. In particolare, la disposizione imporrebbe una valutazione della proporzionalità della misura demolitoria rispetto alla posizione giuridica sulla quale va ad incidere che nella specie non vi sarebbe stata.
Il richiamo, per quanto non privo di suggestioni, è privo di fondamento.
Per essere considerata compatibile – quindi non in contrasto – con l’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, l’ingerenza dello Stato nella proprietà privata deve soddisfare alcuni requisiti con relative condizioni: una base legale che la giustifichi; lo scopo legittimo della stessa; infine, appunto, il perseguimento di tale scopo in maniera necessaria e proporzionale. In sintesi, il processo logico che deve essere svolto, caso per caso, vuole il rispetto, per gradi, del principio di legalità, del principio di necessità e di quello di proporzionalità.
Con riferimento all’applicazione del principio di proporzionalità, occorre poi ricordare che il fenomeno sanzionatorio non è unitario. Quale che ne sia la natura (che la giurisprudenza EDU ha riconosciuto come sostanzialmente penale laddove sopraggiungano a distanza di parecchio tempo dalla Commissione dell’abuso), le misure ripristinatorie si caratterizzano per il fatto che attengono al bene e non al reo. Per tale ragione, esse si applicano anche a chi si trovi, casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario dell’immobile, laddove la sanzione intrinsecamente afflittiva si applica nei confronti dell’autore della violazione, in considerazione della sua funzione general e special preventiva, e richiede pertanto l’elemento psicologico nel relativo autore. A ciò consegue l’effettiva importanza di un vaglio di proporzionalità della relativa previsione -recte, della sua concreta applicazione – rispetto all’interesse pubblico che con la stessa si intende proteggere.
Laddove dunque la tutela della proprietà non venga all’evidenza ex se, ma in ragione della finalità che è destinare a soddisfare, essa può divenire prioritaria rispetto a quella del mero ripristino della legalità lesa.
Quanto detto tuttavia ha trovato valorizzazione laddove venga all’evidenza un bene primario, quale la casa di abitazione, non in relazione ad altre tipologie di funzionalità e comunque non in maniera assoluta. In tale solco si colloca anche la pronuncia della Corte EDU (sez. V, 21 aprile 2016, n. 46577/15, Ivanova e altri c. Bulgaria), richiamata dal primo giudice.
A ben guardare, in essa viene effettivamente dato rilievo al vaglio in concreto della adeguatezza della misura adottata, che dunque non può essere ritenuta legittima per la sua mera rispondenza ad un astratto paradigma normativo. Nella fattispecie sottoposta al suo esame, ad esempio, la Corte di Strasburgo si è risolta a favore dei ricorrenti, due coniugi che si sarebbero visti privare dell’unica casa di abitazione in ragione della sua demolizione in quanto abusiva. Ciò sull’assunto che “nessun giudice aveva esaminato, valutato e ponderato la circostanza che nella casa da demolire i signori vivevano; tutti piuttosto si erano soltanto limitati ad accertare che l’edificio era stato realizzato abusivamente”. Gli Stati contraenti, infatti, “sono tenuti ad assicurare un esame giudiziale della complessiva proporzionalità di misure così invasive, come la demolizione della propria abitazione, e a riconsiderare l’ordine di demolizione della casa abitata dai ricorrenti alla luce delle condizioni personali degli stessi, che vi vivevano da anni e avevano risorse economiche limitate”.
Da qui la censura dell’appellante, che rivendica proprio ridetto mancato vaglio.
La questione, cioè, non è quella, pure dibattuta, della natura sostanzialmente penale o meno dei provvedimenti adottati alla luce dei noti “Engel criteria” di cui alla sentenza Grande Stevens e altri contro Italia: trattasi piuttosto di stabilire se il loro incidere sulla proprietà sia proporzionale, appunto, rispetto all’interesse pubblico tutelato e a chi competa vagliare detta proporzionalità.
Rileva il Collegio come in realtà proprio il riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU, della quale quella richiamata costituisce solo un significativo punto di approdo, consente di esattamente perimetrare l’esatta accezione da attribuire al principio di proporzionalità che deve governare anche il variegato ambito sanzionatorio, laddove venga attinto il diritto di proprietà. In egual misura, consente di chiarire come la sua eventuale violazione assuma rilievo nei singoli procedimenti.
È dunque innegabile che i rimedi ripristinatori hanno l’insostituibile funzione di garantire, con uno strumento pratico, il buon governo del territorio del quale la necessità del previo titolo edilizio costituisce attuazione singola al pari della pianificazione urbanistica, che invece declina in termini generali la vocazione dello stesso. Ciò è talmente vero che il legislatore consente, ma non impone, di scongiurare la demolizione accedendo alla sanatoria ordinaria nei soli casi di doppia conformità dell’opera al regime di edificabilità dei suoli vigente al momento della sua realizzazione e a quello di presentazione dell’istanza: la distinzione che ne consegue tra abusi solo formali e abusi sostanziali non cambia cioè il regime delle conseguenze, laddove non sia l’interessato ad optare per la richiesta regolarizzazione postuma dell’illecito. Quanto detto vale a maggior ragione ove si consideri come spesso un intervento edilizio finisce per intersecare altri interessi pubblici oltre a quello al corretto assetto del territorio, quali, a mero titolo di esempio, la tutela del paesaggio, nell’accezione ampia da ultimo assunta dalla stessa, o qualsivoglia regime vincolistico speciale, a fronte del quale la proprietà assume rilievo in termini di valore economico destinato a soccombere ove lo ius aedificandi non venga esercitato in conformità con le superiori regole imposte in materia.
Si vuole con ciò dire che sotto il profilo contenutistico anche la giurisprudenza della Corte EDU, ha assunto sempre quale tertium comparationis per valutare la proporzionalità delle sanzioni demolitorie non la sola proprietà, ma il suo concerto utilizzo, valorizzando cioè un bene primario quale la casa, strumento ed espressione della possibilità di vita dignitosa dell’individuo, senza peraltro mai omettere il richiamo all’ampia discrezionalità di scelta lasciata dal Protocollo al legislatore nazionale. La tutela di tale bene primario è attinta dall’art. 8 della Convenzione, evocato peraltro nella sentenza impugnata ma non dall’appellante, che salvaguarda il domicilio quale luogo fisico di garanzia dell’integrità fisica e morale dell’individuo, del mantenimento delle sue relazioni con gli altri consociati, assicurandogli altresì un posto stabile e sicuro nella comunità e dunque il pieno sviluppo della personalità. L’esercizio del bilanciamento degli interessi in gioco, ove effettuato (anche) in base a tale disposizione, nei casi in cui l’interferenza consista nella perdita della sola casa nella disponibilità di una persona, è di ordine diverso, ovvero acquisisce un significato particolare che si riferisce alla entità dell’intrusione nella sfera personale lato sensu intesa del destinatario dell’atto.
Rileva ancora il Collegio come tuttavia, finanche quando venga all’evidenza il diritto di abitazione, non possa configurarsi alcun autonomismo interpretativo. La pretesa applicazione meccanicistica che veda sempre soccombente il profilo ripristinatorio della legalità nonché, conseguentemente, quello ablativo della proprietà, seppure al termine di un procedimento garantito da precise scansioni, finirebbe per risolversi in un fattore sicuramente criminogeno, sì da trasformare le problematiche di emergenza abitativa che particolarmente connotano talune aree del territorio in una sorta di generalizzata scriminante, a valere non solo in ambito penale, ma anche per la conservazione del bene. Il rischio di abusi, incertezza o arbitrarietà nell’applicazione della legge, che l’allentamento di una norma assoluta inevitabilmente comporta, rende dunque assai comprensibile il reiterato richiamo all’intermediazione del vaglio di un giudice, quale soggetto deputato a valutare se in concreto la misura determinata è compatibile con i principi di cui è causa.
Nel declinare tale ruolo, i giudici di legittimità hanno introdotto alcuni elementi sintomatici del c.d. abuso di necessità, tali tuttavia da non operare mai isolatamente ma in concorso gli uni con gli altri, e comunque sempre avuto riguardo alla destinazione del bene ad esigenze abitative, non ludiche, ricreative, culturali, imprenditoriali o altro. Si è dunque dato rilievo a fattori inerenti la situazione soggettiva dell’autore, quali l’età anagrafica avanzata, la povertà o comunque il basso reddito, ma anche, congiuntamente e in senso diametralmente opposto, la consapevolezza dell’illiceità della propria condotta sin dal momento del suo averla posta in essere; e ancora la decorrenza di un vasto lasso di tempo tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l’attivazione del procedimento di esecuzione, ovvero tra quest’ultima e la possibilità di regolarizzazione, o di ricerca di una soluzione alternativa alle proprie esigenze abitative (Cass. pen., sez. III, 20 febbraio 2019, n. 15141; id., 1 marzo 2022, n. 7127; 17 settembre 2021, n. 34607; 14 dicembre 2020, n. 423; 2 ottobre 2019, n. 40396; 4 maggio 2018, n. 48833).
Il giudice penale, peraltro, è chiamato ad occuparsi della misura ripristinatoria solo allorquando addivenga ad una pronuncia di condanna per le contravvenzioni di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed in connessione con la stessa. Egli cioè adotta un atto dovuto, espressione di un potere autonomo, ma solo nei casi in cui “la demolizione delle opere stesse … non sia stata altrimenti eseguita” (art. 31, comma 9, T.u.e.). Rileva il Collegio come tale ultimo inciso sia indicativo della volontà del legislatore di assegnare all’ordine di demolizione irrogato dal giudice penale un ruolo di chiusura, volto a garantire il raggiungimento del risultato finale – l’eliminazione degli abusi e il ripristino delle porzioni di territorio compromesse – cui l’intero sistema di tutele è preposto. Cornice giuridica che non cambia, se non, almeno nelle intenzioni della riforma, in termini di incidenza quantitativa degli interventi del giudice penale sulla materia, a seguito della novella apportata all’art. 41 del D.P.R. n. 380 del 2001 ad opera del D.L. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120 del 2020, che ha trasferito all’ufficio del Prefetto la competenza a eseguire le demolizioni in caso di mancato avvio delle relative procedure entro il termine di centottanta giorni dall’accertamento dell’abuso.
La demolizione disposta dal giudice penale ha dunque pur sempre natura di sanzione amministrativa di contenuto ripristinatorio, con la differenza che la sua esecuzione compete al pubblico ministero e, in caso di controversie, al giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 655 e ss. c.p.p.; per contro, il giudice amministrativo è chiamato a pronunciarsi, come nella specie, non sulla responsabilità dell’autore dell’illecito, ma sulla correttezza e, per quanto qui di interesse, adeguatezza, della misura ripristinatoria adottata. Se è vero, dunque, che i due procedimenti (amministrativo e penale) possono coesistere, sicché il relativo coordinamento si imporrà comunque in fase esecutiva, è egualmente innegabile che una scelta assolutoria che motivi chiaramente sulla “necessità” dell’abuso, nell’accezione sopra chiarita, non comportando neppure la conseguenza ripristinatoria, non potrà non avere un impatto sull’esito del parallelo e comunque intrapreso procedimento amministrativo, comunque non (ancora) sfociato nell’esecuzione.
Quanto sopra detto al solo scopo di chiarire la diversità del “filtro” richiesto al giudice sulla base delle affermazioni della Corte EDU: nel primo caso, esso attiene anche all’accertamento del fatto-reato; nel secondo, al solo vaglio dell’atto amministrativo impugnato. Il principio dispositivo che governa il giudizio amministrativo demanda dunque alla parte ricorrente la dimostrazione, almeno sub specie di principio di prova, che l’atto impugnato è viziato da difetto di proporzionalità, individuando i contrapposti valori, non riducibili alla mera tutela della proprietà, che sarebbero stati lesi dalla sua adozione. Con riferimento ai poteri istruttori esercitabili dal giudice amministrativo, è noto che il legislatore, nel processo amministrativo, ai sensi degli articoli 63, 64 e 65 c.p.a., ha recepito il tradizionale indirizzo giurisprudenziale che ha delineato un modello intermedio, tra quello dispositivo puro e quello inquisitorio puro, c.d. dispositivo con metodo acquisitivo, in cui l’onere della prova si attenua nel più sfumato onere del principio di prova, con la conseguenza che il giudice esercita un potere di soccorso della parte che non è in grado, senza colpa, di fornire la prova dei fatti dedotti, pur potendo fornire, appunto, ridetto “principio di prova” ( Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560).
L’equivoco di fondo nel quale incorre l’appellante è quello di assolutizzare ridetta indicazione, ribaltando sul giudice l’onere di dimostrare nel singolo caso la proporzionalità della sanzione demolitoria rispetto al mantenimento in loco dell’abuso, anche in ragione della sua asserita conformità al regime urbanistico vigente. Ciò al punto tale da non addurre neppure una qualche motivazione tale da rendere sperequata rispetto alla tutela della proprietà della sanzione impostagli, bensì semplicemente indicando la lacuna motivazionale della sentenza impugnata.
A ben guardare, proprio il riferimento alla sentenza della Corte EDU del 2016, e alla valorizzazione in essa contenuta del solo diritto a salvaguardare la propria (unica) casa di abitazione costituisce un chiaro vaglio dell’esatto perimetro da attribuire al principio di proporzionalità: esso, cioè, non può essere invocato in relazione a qualsivoglia posizione giuridica soggettiva, ma solo, nello sviluppo datone, con riferimento alla prima. E soprattutto ciò non può avvenire in deroga alle regole processuali sulla ripartizione dell’onere della prova, imponendo al giudice di individuare i parametri su cui si è basata la scelta, nonché, a monte, all’Amministrazione un’integrazione motivazionale sull’interesse pubblico che almeno in linea generale e salvo i casi in cui sia la parte a contrapporre la propria situazione, sono soddisfatti dal mero riferimento all’abusività della situazione riscontrata. L’eccezionalità delle contingenze, la buona fede, nonché la assoluta mancanza di alternative devono dunque essere addotte e provate dal ricorrente, tenuto conto altresì della dimensione dell’abuso, e dunque della proporzionalità, a valori invertiti, dello stesso rispetto ai bisogni primari del soggetto agente.
Nella specie, come detto, non solo manca tale allegazione, ma finanche la sua mera enunciazione. D’altro canto, il procedimento di sanatoria, dal cui diniego è scaturito quello sanzionatorio, era finalizzazione a legittimare ex post “la realizzazione di una sala da adibire a tennis da tavolo, con annessi servizi, a piano primo”. Il tutto a completamento di un’edificazione, essa pure abusiva, ma avallata dal Comune, destinata esclusivamente ad attività imprenditoriale, o comunque sportiva, la cui rilevanza in termini di tutela prioritaria rispetto al sistema sanzionatorio vigente in materia urbanistico-edilizia non è in alcun modo dato comprendere.
Il decorso del tempo rispetto all’adozione del provvedimento demolitorio, pure invocato dall’appellante, non può ex se consolidare l’affidamento del proprietario nel mantenimento della costruzione, non potendosi lo stesso configurare come legittimo giusta la illiceità originaria della stessa.
Né, infine, sotto l’egida strumentale del principio di proporzionalità può evocarsi una diversa qualificazione dell’illecito, che scorporando la costruzione nei tre piani che la compongono, dequoti la totale mancanza di titolo rispetto ad uno di essi a parziale difformità da quello in sanatoria ottenuto (in data 9 maggio 2016) per gli altri due, egualmente edificati abusivamente, sì da poter fruire (in fase esecutiva, peraltro, e non in quella attuale) di monetizzazione dell’abuso in luogo della sua demolizione (art. 34 del T.u.e.). In sintesi, l’originaria mancanza di permesso di costruire riferita a tutto il fabbricato non può trasformarsi in mancato rispetto dei limiti contenuti in quello rilasciato a sanatoria parziale, che neppure esisteva al momento dell’edificazione del piano residualmente rimasto in controversia.
Quanto detto porta a respingere anche il secondo motivo di gravame.
Come da sempre affermato dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, avendo l’attività repressiva degli abusi edilizi attraverso l’ordinanza di demolizione natura vincolata, essa non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinarne un esito differente (v. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 31 marzo 2023, n.3334).
Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto.
Nulla sulle spese, giusta la mancata costituzione del Comune appellato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità dell’appellante.
Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Francesco Frigida, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino, Consigliere
Ugo De Carlo, Consigliere
COMMENTO: La demolizione dell’abuso edilizio disposta dal giudice penale ha natura di sanzione amministrativa di contenuto ripristinatorio, la sua esecuzione compete al pubblico ministero e, in caso di controversie, la competenza è del giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 655 e ss. c.p.p.; il giudice amministrativo è invece chiamato a pronunciarsi non sulla responsabilità dell’autore dell’illecito, ma sulla correttezza e, per quanto qui di interesse, adeguatezza, della misura ripristinatoria adottata.