Corte dei Conti, Sez. III Appello, 31.03.2020 n. 66


Svolgimento del processo- Motivi della decisione

  1. Con la sentenza n.16/2018 la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Liguria ha condannato il dottor L.C., dirigente della Polizia di Stato, al pagamento della somma di Euro 50mila, oltre rivalutazione e interessi, a favore del ministero dell’Interno.

Il C. in data 7 aprile 2017 era stato citato in giudizio per il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione conseguente alla condanna irrevocabile (a seguito di Cass. 625/2015, App. Genova del 2014 e Tribunale Genova 2013) inflitta alla stesso per il delitto di falsa testimonianza : il C., infatti, durante la fase dibattimentale del processo a carico di sottoposti agenti di P.S. imputati di vari reati (falso in atto pubblico, calunnia e abuso d’ufficio) connessi agli eventi occorsi in occasione del G8 di Genova, aveva falsamente attestato talune circostanze, allo scopo di dare una giustificazione alle condotte penalmente rilevanti degli agenti suddetti.

Con la gravata sentenza la Sezione giurisdizionale ligure, accogliendo la domanda attorea, aveva condannato il C. dopo aver ritenuto ammissibile la richiesta risarcitoria per danno all’immagine.

Il primo giudice, facendo proprio il ragionamento espresso dall’attore Procuratore regionale, ha ritenuto che la disciplina introdotta con il Codice di giustizia contabile, abrogando con l’art. 4, comma 1, delle norme transitorie e abrogazioni , l’art. 7 della L. 27 marzo 2001, n. 97, ma non la norma rinviante (art. 17, comma 30 ter del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modif. nella L. 3 agosto 2009, n. 102), aveva argomentato, in applicazione dell’art. 4 ,u.c. del c.g.c., che il rinvio operato dal citato art. 17 comma 30 ter all’abrogato art. 7 L. n. 97 del 2001, dovesse riferirsi necessariamente all’art. 51, comma 7 del medesimo c.g.c.; norma , per il primo giudice, processuale e come tale applicabile, ex art. 2 , comma 1 delle norme transitorie ai giudizi in corso e quindi, in conclusione, anche al giudizio dal quale è scaturita la condanna del C..

  1. Il dottor L.C., col patrocinio degli avvocati Antonio Fiamingo e Gabriella Morena, ha impugnato la sentenza n.16/2018, sostenendo con articolato motivo d’appello l’inapplicabilità della novella del 2016 ai fini dell’ammissibilità dell’azione erariale per danno d’immagine.

Sostiene l’appellante che il reato per il quale è stato condannato è il delitto di falsa testimonianza, che appartiene al libro II, titolo III, capo I del Codice penale, mentre la norma all’epoca vigente indicava quale presupposto per l’azione erariale la sussistenza di sentenza irrevocabile per una dei “delitti contro la pubblica amministrazione” (di cui al libro II, titolo II, capo I c.p. ).

Sullo specifico punto l’appellante sviluppa articolate motivazioni.

In particolare l’appellante trae un elemento a sostegno della tesi che l’automatismo del rinvio operato in favore dell’art. 51, comma 7, c.g.c. soffra del limite insormontabile della data di entrata in vigore della novella del 2016, dalla stessa ordinanza della Corte costituzionale di restituzione degli atti alla Corte dei conti ligure n. 145/2017, laddove più volte, a fronte del quesito di legittimità costituzionale formulato dal giudice contabile ligure, il Giudice delle leggi prescrive di aver riguardo alla data di entrata in vigore della modifica, proprio in riferimento all’intervenuta abrogazione dell’art. 7 citato nell’ambito della disciplina di cui all’art. 17 comma 30ter D.L. n. 78 del 2009.

Ed ancora , parte appellante fa riferimento alla sentenza 15 maggio 2017 della Corte dei conti per l’Emilia Romagna, per la quale l’abrogazione dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001 non avrebbe altro effetto se non la rinnovata applicabilità di norme mai caducate e dunque perfettamente valide ed efficaci, che analogamente circoscrivono l’azionabilità del danno all’immagine ai delitti contro la P.A. (la Corte emiliana faceva riferimento all’art.1 comma 1 sexies L. n. 20 del 1994, comma introdotto con L. n. 190 del 2012 , in tema di misure anticorruzione, recante un criterio quantificativo del medesimo danno all’immagine).

Conclusivamente la difesa del dottor C., pur confermando la sicura fondatezza dell’impugnazione, ritiene aggiuntivamente di prospettare anche questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, delle disp. trans. del D.Lgs. n. 174 del 2016 (Codice di giustizia contabile), per la parte in cui consente l’applicazione al giudizio esaminando, della disposizione di cui all’art.51, comma 7, la quale ha avrebbe ampliato la responsabilità risarcitoria del danno all’immagine, giacché non più conseguente alla condanna definitiva per soli reati contro la P.A. , bensì “per i delitti commessi a danno delle stesse”, con effetti retroattivi in ordine alla insorgenza di responsabilità erariale a seguito di condanna penale definitiva resa nel vigore della precedente disciplina : e ciò, secondo l’appellante, in contrasto con il principio di certezza del diritto, riconducibile all’art. 3, comma 1, Cost., in uno all’art. 11, comma 1 delle preleggi.

Chiede pertanto la sospensione ai fini del dedotto profilo di illegittimità, ove auspicabilmente condiviso dal Collegio; non di meno in via principale chiede la riforma della sentenza gravata, con assoluzione del C..

  1. Con memoria pervenuta in vista dell’odierna udienza, depositata il 23 gennaio 2020, il C. ha rappresentato l’intervenuto arresto costituzionale, atteso che con ordinanza n.167/2019 la Corte costituzionale non ha accolto i profili di censura costituzionale – sollevati proprio dalla Corte dei conti ligure – avanzati avverso l’art. 17 comma 30ter del D.L. n. 78 del 2009, conv. In L. N. 102 del 2009, in relazione alla limitazione ai soli reati contro la P.A. della proponibilità dell’azione di responsabilità erariale per danno all’immagine dell’Ente. La difesa ritiene decisiva tale pronuncia poiché il C. è stato condannato per reato diverso (falsa testimonianza) da quelli di cui alla anzidetta limitazione.
  2. Con atto depositato il 21 gennaio 2020 la Procura generale ha rassegnato le proprie articolate conclusioni sull’appello proposto dal dottor C..

Ha chiesto, preliminarmente, l’inammissibilità dei motivi di gravame non specificati nel gravame, ma richiamati come semplice rinvio alla memoria difensiva depositata in primo grado. Ciò, ad avviso della Procura generale concludente, integrerebbe la violazione della specificità dei motivi, di cui all’art. 190 c.g.c..

La Procura generale ha poi ritenuto manifestamente infondata la richiesta di rimessione del giudizio alla Corte costituzionale. Ritiene in proposito che la prescrizione ex art. 2, disposizioni transitorie del c.g.c. , stabilendo che le norme sull’istruttoria del PM (artt. 51-70) “si applicano alla data di entrata in vigore del Codice, fatti salvi gli atti compiuti secondo il regime vigente”, consente l’applicazione della modifica normativa introdotta con l’art. 51, commi 6 e 7 del c.g.c., tenuto conto che , nella fattispecie in esame, gli atti rilevanti e conclusivi dell’istruttoria sono stati posti in essere successivamente all’entrata in vigore del Codice. In definitiva, per la Procura generale, all’epoca della notifica dell’atto di citazione in data 28 aprile 2017 la nuova disciplina era pienamente applicabile.

Contesta, la Procura concludente, che la nuova disciplina abbia natura sostanziale, richiamando giurisprudenza delle SSRR (n.12/2011/QM) e delle sezioni d’appello di questa Corte.

Osserva poi che anche se si accedesse alla tesi secondo la quale la nuova disciplina non potrebbe applicarsi ai fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore, non per questo all’appellante non può essere applicata la disciplina del c.g.c.

Infatti, argomenta la P.G., il “fatto” cui occorre fare riferimento non è il delitto di falsa testimonianza, accertato nella fattispecie, bensì il fatto dannoso originatosi dal reato, costituito dalla lesione all’immagine del Ministero dell’Interno. In altri termini, la Procura generale ritiene che vada distinto il “tempus commissi delicti” dal “tempus commissi damni”: questo ultimo è destinato in astratto a verificarsi nel tempo ogni volta che la medesima notizia, riproposta, abbia la capacità di ledere l’immagine.

Quindi, secondo la Procura, il fatto al centro del presente giudizio non è l’oggetto del processo penale (falsa testimonianza), ma il vulnus al prestigio del Ministero di appartenenza dell’appellante, certamente arrecato per la grave condotta dell’appellante, accertata con sentenza passata in giudicato.

In ordine al motivo di incostituzionalità dedotto dall’appellante, la P.G. ritiene la conformità a Costituzione della norma transitoria censurata.

Più in particolare, la decisione del Giudice delle leggi di rinviare, con ordinanza n.145/2017, gli atti al giudice a quo ” per la verifica della rilevanza della questione alla luce della modifica intervenuta medio tempore , della disciplina normativa di riferimento a seguito dell’allegato 3 – art. 4, comma 1, lettera h) del Codice di giustizia contabile, il quale ha abrogato il primo periodo della norma censurata; tale rilevanza andava ulteriormente valutata alla luce dell’abrogazione, da parte dell’allegato 3 – art. 4, comma 1, lettera g), del D.Lgs. n. 174 del 2016 “a decorrere dalla data di entrata in vigore del Codice”, (nonché) dell’art.7 della L. n. 97 del 2001, norma quest’ultima alla quale rinvia quella censurata, allo scopo di stabilire (e limitare) i casi nei quali può essere proposta dal PM contabile l’azione di risarcimento del danno all’immagine. E’ evidente dunque – prosegue la Procura generale – che per l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale la nuova disciplina in materia di perseguibilità del danno all’immagine faceva perdere di rilevanza la questione oggetto del giudizio a quo, ben antecedente all’entrata in vigore del Codice di giustizia contabile, avendo esteso detta perseguibilità a tutti i reati commessi ai danni della Pubblica Amministrazione e non soltanto ai delitti di cui al Libro II, Titolo II, Capo I del codice penale”.

Concludendo sul punto, la Procura generale sottolinea che la Corte costituzionale ha ritenuto “la nuova normativa abrogatrice immediatamente applicabile ..escludendo l’ultrattività della disciplina restrittiva, oramai abrogata dal legislatore ordinario che, dunque, non può avere efficacia ultra-attiva come pretenderebbe l’appellante”.

Ha chiesto infine il rigetto dell’appello.

  1. Nell’odierna discussione le parti richiamavano i temi sviluppati nei rispettivi atti scritti. La causa era pertanto trattenuta in decisione.

Ragioni della decisione

  1. Preliminarmente il Collegio è chiamato a valutare se l’art. 51 , 7 comma, c.g.c. nella sua attuale formulazione abbia o meno introdotto una novità sostanziale nella disciplina della risarcibilità del danno d’immagine e, in caso affermativo, se questa novità, strettamente correlata all’abrogazione dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001, sia o meno applicabile nella presente fattispecie.

Nell’attuale formulazione del citato art. 51, 7 comma, del c.g.c. l’azione risarcitoria nei confronti dei dipendenti pubblici condannati in sede penale con sentenza irrevocabile è prevista “per i delitti commessi in danno delle stesse” (pubbliche amministrazioni e organismi ed enti da esse controllati) . Tale norma, coordinata con l’abrogazione dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001, sembra aver ampliato, secondo taluni interpreti, il perimetro di applicazione dell’azione risarcitoria per il danno d’immagine , facendo venir meno di conseguenza la previgente disciplina, che limitava la proponibilità di tale azione solo nei casi di lesione dell’immagine dell’amministrazione, derivante da condotte accertate con sentenze passate in giudicato per i delitti di cui al Libro II, Titolo II, Capo I del codice penale.

Sulla reale ed effettiva portata innovativa della norma in esame nei confronti della disciplina del danno d’immagine, la giurisprudenza della Corte dei conti è, in larga misura, nel segno affermativo (cfr. in particolare Corte conti, Sez. Giur. Lombardia, 1.12.2016, n. 201; 12.07.2017, n. 113; Sez. I Giur. Centrale App., 19.03.2018, n. 121; Sez. Giur. Sicilia, 22.05.2018, n. 449; 27.03.2018, n. 280; Sez. Giur. App. Sicilia, 28.11.2016, n. 183; Sez. Giur. Piemonte, 22.02.2018, n. 14; Sez. Giur. Liguria, 25.01.2018, n. 16; Sez. Giur. Friuli Venezia Giulia, 11.04.2017, n. 22), mentre si sono levate da talune sentenze delle sezioni territoriali della Corte dei conti opinioni di segno diverso, nel senso della permanenza, pur dopo la novella codicistica, dei limiti di cui alla normativa previgente.

In particolare, analizzando la natura del rinvio all’art. 7 L. n. 97 del 2001 ad opera dell’art. 17, co. 30 ter, D.L. n. 78 del 2009, la Sezione territoriale Toscana (sentenze nn. 174/2018 e 373/2019), distinguendo, sulla base di giurisprudenza costituzionale, tra le ipotesi (e gli effetti) di rinvio formale e non recettizio e quelle di rinvio materiale ( c.d. redazionale) e recettizio, ha osservato che tale ultimo rinvio, che è quello che qui interessa, ” ha una funzione e uno spazio applicativo ben delimitati, assumendo rilievo non già quale “relatio” alle ipotesi per le quali è prescritto un obbligo di comunicazione delle condanne definitive da parte della Procura della Repubblica a beneficio della Procura contabile (obbligo già sancito dal suddetto art. 7 e oggi, effettivamente, dall’art. 51, co. 7, c.g.c., applicabile al caso di specie a norma dell’art. 2, co. 1, all. 3 al D.Lgs. n. 174 del 2016), bensì quale esatta individuazione, per il tramite del rinvio che l’art. 7 a sua volta opera al capo I, titolo II, libro II, c.p., del catalogo dei delitti per i quali il danno all’immagine è perseguibile; per questo, coerentemente con la ratio legislativa indicata dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni Riunite, il rinvio contenuto nell’art. 17, co. 30 ter funge da strumento per la definizione immediata – seppur indiretta, e cioè a mezzo di rinvio- dei “casi” (oltreché dei “modi”) in cui l’azione erariale per danno all’immagine è proponibile.

In ragione di quanto sopra, deve ritenersi che la ratio sottesa all’art. 17, comma 30 ter non consista nella volontà di ancorare il perseguimento del danno all’immagine alla fonte normativa di cui all’art. 7 L. n. 97 del 2001 come disciplinante le ipotesi di comunicazione obbligatoria delle condanne definitive a carico di pubblici dipendenti (perciò oggi affidata all’art. 51, co. 7, c.g.c.), bensì si estrinsechi nell’intenzione di far propria la disposizione dello stesso art. 7 – così incorporandone il rinvio alle disposizioni del codice penale – per circoscrivere, in via specifica, i “casi” di esercizio dell’azione erariale per danno all’immagine, oltreché i relativi “modi” in funzione della maturazione di un giudicato penale sui suddetti reati (a tale ultimo proposito, cfr. anche l’art. 1, co. 1 sexies,L. n. 20 del 1994)”.

Il che ha indotto la Sezione toscana, con complessa motivazione, a ritenere per l’appunto “incorporati” nell’art. 17 comma 30 ter i casi di esercizio dell’azione erariale per danno all’immagine indicati nell’art. 7 L. n. 97 del 2001, la cui intervenuta abrogazione non avrebbe mutato il quadro normativo relativo alla perseguibilità del danno d’immagine, in coerenza con l’intento perseguito dal Legislatore con la norma rinviante, cioè con l’art. 17, co. 30 ter,.

“…detto intento è stato invero già autorevolmente e approfonditamente ricostruito, tanto dalla Corte costituzionale (sent. 355/2010), quanto dalle Sezioni Riunite di questa Corte (SS.RR., 8/QM/2015, cit.), anche con richiami alla precedente giurisprudenza di legittimità civile e penale maturata sulla disposizione.

In particolare, le Sezioni Riunite hanno posto in risalto come la ratio del suddetto art. 17, co. 30 ter sia da ricondurre alla volontà di “delimitare l’area dei delitti da cui il legislatore ammette possa derivarne un danno d’immagine della Pubblica Amministrazione ‘nei soli casi e modi previsti dall’art. 7′”; e per il perseguimento di tale scopo, “il legislatore ha circoscritto l’ambito dei delitti da cui può discendere un danno d’immagine per la Pubblica Amministrazione (facendo) riferimento a fattispecie incriminatrici astratte ben delimitate”.

In conclusione, per la Sezione toscana, pur dopo la novella recata dal c.g.c., resta inalterato il limite dell’azione risarcitoria per danno all’immagine ai soli delitti di cui al Libro II, Titolo II, Capo I del codice penale.

  1. Il Collegio ritiene che il percorso ragionativo indicato dalla sezione territoriale toscana abbia solide basi giuridiche e sia pertanto condivisibile.

La giurisprudenza che ha ritenuto di accedere alla tesi secondo la quale la novità codicistica avrebbe fatto venir meno, con la formulazione dell’art. 51, 7 comma c.g.c. e con l’abrogazione dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001, il limite della proponibilità dell’azione risarcitoria per danno d’immagine solo per i delitti contro la P.A., ha evidentemente ritenuto, più spesso solo implicitamente, che il rinvio operato dall’art. 17 comma 30ter fosse un rinvio alla fonte e cioè un rinvio dinamico.

Il che ha portato alla conseguenza, accolta dalla giurisprudenza di molte sezioni territoriali, che le vicende dell’art. 7 L. n. 97 del 2001 (in questo caso, la sua abrogazione) si sarebbero riflesse sulla norma rinviante; per l’effetto, facendo venir meno il suddetto limite e aprendo alla possibilità – che la lettera del 7 comma dell’art. 51 c.g.c. sembrava autorizzare – di esercitare l’azione risarcitoria erariale per danno d’immagine anche a seguito di condanna penale per qualsiasi delitto a danno delle amministrazione pubbliche.

Il Collegio non è dell’opinione che il “rinvio” al citato art. 7 abbia i caratteri del rinvio alla fonte e sia perciò “dinamico”.

Peraltro è dato osservare che si è in presenza di un doppio rinvio, il primo rinvia all’art. 7 L. n. 97 del 2001- norma esattamente individuata – che a sua volta rinvia alle norme del codice penale (delitti contro la P.A.) . Nel primo caso, che è quello cui bisogna concentrarsi, il rinvio, secondo il Collegio, è materiale, statico e recettizio; il secondo rinvio, operato dallo stesso art. 7 – che a quel punto è esso stesso norma rinviante – è alle norme del capo I, titolo II del libro secondo del Codice penale: è questo un rinvio dinamico in quanto riferentesi ad un complesso di norme.

  1. Com’è noto in dottrina e giurisprudenza la natura del rinvio (dinamico o statico) non è di agevole identificazione e, secondo la Cassazione e il Giudice delle leggi, essa può essere individuata esclusivamente caso per caso, in relazione alla ratio della norma rinviante e di quella rinviata e del contesto di riferimento.

Fatto beninteso salvo il caso, che non si rinviene nella fattispecie in esame, del rinvio diretto ad un testo normativo e “alle (sue) successive modificazioni” : in tale caso il rinvio è pacificamente dinamico.

Negli altri casi, difettando un criterio distintivo oggettivo, occorre, come detto, procedere ad una analisi che parta dalla natura della materia cui inerisce il rinvio, dal tenore letterale della formulazione, dal contesto normativo di riferimento, dalla gerarchia della disposizione richiamata. E, avuto riguardo alla specificità che ci occupa, anche della volontà del Legislatore, per quanto è possibile ricavare dalla legge (art. 20 L. n. 124 del 2015) che ha delegato il Governo alla elaborazione e approvazione del Codice di giustizia contabile (D.Lgs. n. 174 del 2016) , nonché dalla giurisprudenza costituzionale che si è formata con riferimento al tema delle limitazioni per la risarcibilità del danno all’immagine, di cui all’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78 del 2009.

  1. Il Collegio intende qui richiamare i pertinenti richiami tratti da sentenze della Corte costituzionale, laddove la stessa, nella ricerca del discrimine tra rinvio formale e rinvio materiale (e recettizio) ha precisato (Corte Cost. n. 311 del 1993) “,,,.Che si tratti di mero rinvio formale, privo di efficacia novatrice della fonte delle norme richiamate, è attestato, sul piano della struttura linguistica della norma rinviante, dal rilievo che il richiamo si riferisce genericamente al regolamento, cioè a un complesso di norme non meglio determinate, laddove, perché sia possibile configurare un rinvio recettizio (superando la presunzione favorevole al rinvio formale), occorre che il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua.”

Dunque, per la Corte costituzionale il richiamo ” a norme determinate ed esattamente individuate” (nel caso di specie, all’art.7 L. n. 97 del 2001, ndr) costituisce rinvio materiale e non alla fonte.

Ed ancora, riepilogando lo stato della giurisprudenza costituzionale in materia, la Corte ha ribadito che “….la differenza tra rinvio materiale e rinvio formale è stata recepita dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze n. 536 del 1990, n. 199 e n. 311 del 1993. Più di recente, nella sentenza n. 232 del 2006 si trova affermato che mentre il rinvio meramente formale “concerne cioè la fonte e non la norma”, per aversi rinvio recettizio (o materiale) occorre che il richiamo “sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua”.

Quanto ai criteri per distinguere la natura del rinvio, nella sentenza n. 80 del 2013 questa Corte ha affermato che “l’effetto − che produce una forma di recezione o incorporazione della norma richiamata in quella richiamante − non può essere riconosciuto a qualsiasi forma di rimando, ma è ravvisabile soltanto quando la volontà del legislatore di recepire mediante rinvio sia espressa oppure sia desumibile da elementi univoci e concludenti. Non è sufficiente rilevare che una fonte ne richiama testualmente un’altra, per concludere che la prima abbia voluto incidere sulla condizione giuridica della seconda o dei suoi contenuti”. Nel solco tracciato dalla dottrina tradizionale, anche la Corte ha ritenuto operante una presunzione di rinvio formale. Nella recente sentenza n. 85 del 2013 si precisa, infatti, che “La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e n. 536 del 1990)”. Per accertare la natura del rinvio e il significato che ad esso deve attribuirsi è dunque necessario desumere “dal testo della disposizione censurata, l’intento del legislatore” (così la sentenza n. 85 del 2013 appena citata)”.

Da tali richiami si ricavano alcuni criteri distintivi, ma soprattutto la necessità di desumere quale sia , dal complesso delle norme che riguardano il presente tema, e quindi non solo dalla norma di abrogazione o dall’attuale formulazione dell’art. 51, 7 comma c.g.c., l’intento del Legislatore.

E allora, concentrandosi sul danno d’immagine, bisogna risalire alle origini della relativa disciplina.

  1. Va detto che, negli anni novanta, a seguito del disvelamento di numerosi episodi di corruzione nei pubblici appalti, la Corte dei conti si trovò ad affrontare il tema del danno erariale conseguente alle ipotesi di danno collegate alla illegittima percezione di denaro (c.d. tangenti) da parte di soggetti investiti istituzionalmente di funzioni pubbliche. Prevaleva allora la possibilità di esercitare l’azione di responsabilità amministrativa, anche per tali ipotesi, solo nei casi in cui era accertato un concreto ed effettivo nocumento patrimoniale per l’Erario.

Le ipotesi di corruzione, ancorché accertate in sede penale, costituivano ai fini della individuazione del danno erariale, solo una “fondata presunzione” di un corrispondente illegittimo aumento dei costi della prestazione del privato, che andava però suffragata dalla prova della concreta diminuzione patrimoniale per l’erario (Cass. civ. S.U. n.3970/19939). Insomma, per sintetizzare, l’illecita percezione di tangenti, ex se, non era la ” sicura prova di un corrispondente danno allo Stato” (Corte dei conti , SSRR. n.702/1991).

Si argomentò, allora, che l’accertamento in sede giudiziaria penale di fatti di corruzione, quando anche non fosse stata provata la “concreta diminuzione patrimoniale” direttamente collegata alla tangente, era suscettibile di costituire comunque anche un danno d’immagine.

La giurisprudenza contabile e la migliore dottrina, in tale contesto, ritennero che la lesione non riguardasse solo l’immagine dell’amministrazione danneggiata, in quanto tale, ma anche – attraverso tale lesione – il buon andamento (art. 97 Cost.) della P.A. in senso più ampio. Con l’ulteriore conseguenza della disaffezione del cittadino verso le istituzioni pubbliche.

Il tema si spostò sulla prova dei maggiori oneri sostenuti dall’Amministrazione per ristorare il danno d’immagine.

  1. Più avanti, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza 23 aprile 2003 n.10 ebbero a precisare che il danno all’immagine della P.A. integra un’ipotesi di “danno-evento”, comportante lesione di beni protetti anche non patrimoniali, di rilievo costituzionale; una ipotesi ben distinta dal danno-conseguenza, integrato dagli effetti patrimoniali dell’illecito, che sono il presupposto del danno patrimoniale riflesso.

Senza ulteriormente soffermarsi sul dibattito sorto intorno alla natura del danno all’immagine, occorre a questo punto della narrazione richiamare l’art. 7 della L. 7 marzo 2001, n. 97, che subordinava l’avvio dell’azione di responsabilità alla sentenza irrevocabile di condanna “per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale”. Dunque non per ogni condanna penale, ma solo per quelle comportanti una lesione nella percezione della effettività e efficienza dell’agere amministrativo, i cui principi trovano la tutela nell’art. 97 della Costituzione.

La scelta del legislatore del 2001 trovava poi conferma nel c.d. Lodo Bernardo, cioè nel d.,L. n. 78 del 2009, il cui art. 17 comma 30 ter circoscriveva ai soli casi di cui all’art. 7 della L.  n. 97 del 2001 l’azione di responsabilità erariale per le ipotesi danno d’immagine. Tale limitazione oggettiva della risarcibilità ai soli casi che scaturiscono da una ristretta serie di reati – quelli la cui consumazione in ultima analisi realizza la lesione all’efficienza ed effettività dell’agere amministrativo, tale da incrinare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato – è stata più volte esaminata dalla Corte costituzionale, che non l’ha ritenuta arbitraria e in contrasto con norme e principi costituzionali, in considerazione della “peculiarità del diritto all’immagine della p.a.” (cfr. Corte Cost. 15 dicembre 2010).

  1. In conclusione, la Corte costituzionale ha ritenuto che il Legislatore, nel circoscrivere l’ambito oggettivo della risarcibilità del danno d’immagine, abbia inteso individuare proprie quelle fattispecie penali nelle quali si realizza, come detto, la indicata lesione; lesione che, a ben considerare, è difficile cogliere nei delitti genericamente in danno della pubblica amministrazione.

Il rinvio operato dall’art. 17 comma 30 ter all’art. 7 L. n. 97 del 2001, per il contenuto letterale dello stesso, per l’interpretazione datane reiteratamente (e per ultimo proprio con la recentissima ordinanza n.167 del novembre 2019) dalla Corte costituzionale, e soprattutto per il richiamo ad una norma esattamente individuata, depone nel senso di ritenere realizzatasi, col rinvio recettizio, l’incorporazione, o l’integrazione, nella norma rinviante (cioè nell’art. 17 comma 30 ter ) della norma rinviata (art. 7 L. n. 97 del 2001).

Ma c’è di più.

A fronte di norme primarie di legge (artt. 17 comma 30 ter d.L. n. 78 del 2009, art. 7 L. n. 97 del 2001) , scrutinate senza censure più volte dalla Corte costituzionale, si argomenta che l’art. 51, comma 7, del c.g.c. , coordinato con l’intervenuta abrogazione dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001 e con le disposizioni transitorie del c.g.c., avrebbe implicitamente rimosso il limite oggettivo della risarcibilità del danno d’immagine ai soli reati indicati nel capi I del titolo II del Libro secondo del codice penale.

Sennonché, avuto riguardo al contenuto della legge delega (art. 20 della L. n. 124 del 2015) è totalmente assente, tra i principi e i criteri direttivi di delega, alcun anche indiretto riferimento alla innovativa disciplina sostanziale relativa alla estensione della risarcibilità del danno d’immagine.

Da nessuna norma di delega, né dai lavori preparatori, né dalla relazione illustrativa del D.Lgs. n. 174 del 2016 si ricava che il legislatore abbia voluto innovare la disciplina del danno d’immagine.

Com’è noto, infatti, la legge delega era chiaramente riferita al (solo) “riordino e la ridefinizione della disciplina processuale concernente tutte le tipologie di giudizi che si svolgono innanzi la Corte dei conti, compresi i giudizi pensionistici, i giudizi di conto e i giudizi a istanza di parte.”

Peraltro, in una sistemazione codicistica afferente al rito, cioè al processo, non poteva trovare ingresso, per giunta in assenza di delega espressa, la ridefinizione della disciplina sostanziale relativa al danno d’immagine.

Vero è che il Codice introduce una novità in tema di prescrizione, che è istituto sostanziale e non processuale, ma non lo fa in carenza di delega, lo fa – come lo ha fatto – sulla base di una precisa espressa scelta del legislatore delegante.

Di tal che appare invece improprio dedurre l’estensione della risarcibilità del danno d’immagine attraverso una riqualificazione della fattispecie rimessa all’interprete, priva di qualsiasi riferimento nella legge delega.

Il vero è che con l’incorporazione – per effetto di rinvio materiale – nell’art. 17 comma 30 ter D.L. n. 78 del 2009 dell’art. 7 L. n. 97 del 2001, il riferimento di cui al comma 7 dell’art. 51 c.g.c. poteva operare, quanto al danno d’immagine, solo nei confronti della norma rinviante, come integrata dall’art. 7 citato.

Tutto ciò porta alla conclusione che, secondo il Collegio, anche nell’attuale formulazione dell’art. 51 del c.g.c. la risarcibilità del danno d’immagine è restata circoscritta alle ipotesi previste, per l’avvenuta incorporazione dell’art. 7 citato, dall’art. 17 comma 30 ter D.L. n. 78 del 2009.

Nel caso in esame, l’appellante risulta essere stato condannato con sentenza passata in giudicato per il delitto di falsa testimonianza (delitti contro l’amministrazione della giustizia), cioè per uno dei delitti che non consentono l’esercizio dell’azione di responsabilità erariale per danno d’immagine: difettando il presupposto giuridico per promuovere azione di responsabilità per danno d’immagine, ne consegue l’accoglimento dell’appello.

Sussistono le condizione per compensare le spese, ai sensi dell’art. 31 , 3 comma, del c.g.c.

Tutto ciò premesso e ritenuto

P.Q.M.

La Corte dei conti – Sezione III giurisdizionale d’appello

disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, definitivamente pronunciando :

– accoglie l’appello del dott. L.C., e per l’effetto annulla la sentenza n.16/2018 della Corte dei conti per la Regione Liguria;

– compensa le spese, ai sensi dell’art. 31, comma 3 del c.g.c.;

Manda alla Segreteria per gli adempimenti di rito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.


COMMENTO – Secondo la pronuncia in commento, anche con l’attuale formulazione dell’art. 51, comma 7, Codice della giustizia contabile, il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione resta risarcibile unicamente nei casi di sentenza irrevocabile di condanna per un delitto di cui al Libro II, Titolo II, Capo I Codice penale (i.e.: delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione).

In applicazione di tale principio, la sentenza in commento accoglie l’appello dell’incolpato e riforma la pronuncia di primo grado, che aveva condannato l’appellante al risarcimento del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di falsa testimonianza.

Quest’ultimo, in quanto delitto contro l’amministrazione della giustizia, esula dal novero dei delitti che, in presenza di una sentenza di condanna penale passata in giudicato, e quindi irrevocabile, giustificano l’azione di risarcimento per il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

La pronuncia in commento si pone in dissenso rispetto all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, con l’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile (D.lgs. 26 agosto 2016 n. 174), i confini della risarcibilità del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione si sarebbero ampliati, essendo richiesto quale presupposto a tal fine una sentenza irrevocabile (i.e.: non più soggetta ad alcun mezzo di impugnazione) di condanna per un qualsiasi delitto “a danno della Pubblica Amministrazione”, anche diverso da una delle fattispecie di cui al Capo I, Titolo II, Libro II Codice penale.

Ad avviso della pronuncia in commento, invece, ancora oggi la risarcibilità del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione sarebbe limitata alle sole fattispecie nelle quali sia stata pronunciata nei confronti del pubblico dipendente (o, comunque, del soggetto legato alla Pubblica Amministrazione da un rapporto di servizio) una sentenza irrevocabile di condanna per uno dei delitti di cui al Capo I, Titolo II, Libro II Codice penale.

In senso conforme a quanto statuito dalla sentenza in commento si era già pronunciata la Corte dei Conti della Toscana con sentenze 10 luglio 2018 n. 174 e 1° ottobre 2019 n. 373.

Non rileva, in contrario, la circostanza dell’avvenuta abrogazione dell’art. 7 Legge 27 marzo 2001 n. 97, in quanto il rinvio operato a tale norma da parte dell’art. 17, comma 30-ter, D.L. 1° luglio 2009 n. 78, convertito con modificazioni in Legge 03 agosto 2009 n. 102, assumerebbe valore statico (o, in altri termini, materiale, fisso, recettizio), ossia produrrebbe un’incorporazione della norma rinviata (nel suo testo storico) all’interno della norma rinviante.

La pronuncia in commento ricorda in proposito come, fatto salvo il caso del rinvio diretto ad un testo normativo e “alle (sue) successive modificazioni” (che pacificamente integra un rinvio dinamico), in tutti gli altri casi la natura del rinvio (dinamico o statico) di una norma ad un’altra non sia di agevole identificazione e debba essere individuata caso per caso, in relazione alla ratio delle norme interessate (rinviante e rinviata) e del contesto di riferimento. In particolare, mancando un criterio distintivo oggettivo, occorre tenere conto di vari indici, quali la natura della materia cui inerisce il rinvio, il tenore letterale della formulazione, il contesto normativo di riferimento, la gerarchia della disposizione richiamata e, laddove possibile, la volontà del Legislatore.

Nella materia de qua, avuto riguardo ai principi e ai criteri direttivi della legge delega che ha condotto all’emanazione del Codice della giustizia contabile (art. 20 Legge 07 agosto 2015 n. 124), manca del tutto qualsiasi riferimento anche indiretto alla innovativa disciplina sostanziale relativa all’estensione della risarcibilità del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

La legge delega era infatti chiaramente riferita al solo “riordino e la ridefinizione della disciplina processuale concernente tutte le tipologie di giudizi che si svolgono innanzi la Corte dei conti, compresi i giudizi pensionistici, i giudizi di conto e i giudizi a istanza di parte.”

Da nessuna norma di delega, né dai lavori preparatori, né dalla relazione illustrativa del D.lgs. 174/2016 si ricava che il Legislatore abbia voluto innovare la disciplina sostanziale del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

In una sistemazione codicistica afferente al processo, per di più in assenza di delega espressa, non può trovare ingresso la ridefinizione della disciplina sostanziale relativa al danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

Non assume rilievo, in contrario, la circostanza che il Codice della giustizia contabile abbia introdotto una novità in materia di prescrizione, che costituisce anch’essa un istituto di carattere sostanziale, e non processuale. Ciò, infatti, è avvenuto sulla base di una precisa ed espressa indicazione del Legislatore delegante, contenuta all’art. 20, comma 2, lettera d), Legge 07 agosto 2015 n. 124 (secondo cui l’emanando Decreto legislativo avrebbe dovuto “prevedere l’interruzione del termine quinquennale di prescrizione delle azioni esperibili dal pubblico ministero per una sola volta e per un periodo massimo di due anni tramite formale atto di costituzione in mora e la sospensione del termine per il periodo di durata del processo”).

Una simile espressa indicazione, al contrario, è del tutto assente per ciò che riguarda una presunta riforma della disciplina sostanziale del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione: pertanto, appare improprio dedurre l’estensione della risarcibilità di tale tipologia di danno attraverso una riqualificazione della fattispecie rimessa all’interprete, priva di qualsiasi riferimento nella legge delega.

Inoltre, nella ricerca del discrimine tra rinvio formale (o, in altri termini, dinamico, mobile o non recettizio) e rinvio materiale (o, in altri termini, statico, fisso o recettizio), la pronuncia in commento richiama la giurisprudenza secondo cui il primo “concerne … la fonte e non la norma“, mentre il secondo è “indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua“.

Affinché sia possibile configurare un rinvio materiale o recettizio (superando la presunzione favorevole al rinvio formale), “occorre che il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua” (si vedano, in tal senso, Corte Costituzionale, 05 dicembre 1990 n. 536; Corte Costituzionale, 27 aprile 1993 n. 199; Corte Costituzionale, 09 luglio 1993 n. 311; Corte Costituzionale, 16 giugno 2006 n. 232 e Corte Costituzionale, 09 maggio 2013 n. 85).

Nel caso di specie, l’art. 17, comma 30-ter, D.L. 78/2009 rinvia “a norme determinate ed esattamente individuate” (ossia, l’art. 7 Legge 97/2001): ciò costituisce un ulteriore indice della natura recettizia o materiale del rinvio.

Infine, ad avviso della pronuncia in commento, tale conclusione risulta definitivamente confermata tenendo conto delle origini della disciplina del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.

Tali origini devono essere fatte risalire agli anni Novanta allorché, a seguito della scoperta di numerosi episodi di corruzione nei pubblici appalti, la Corte dei conti si trovò ad affrontare il tema del danno erariale conseguente alla illegittima percezione di denaro da parte di soggetti istituzionalmente investiti di funzioni pubbliche (cd. “tangenti”). 

Fino a quel momento, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente dominante riteneva possibile esercitare l’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale solo quando fosse accertato un concreto ed effettivo nocumento patrimoniale per l’Erario.

In altri termini, le ipotesi di corruzione, ancorché accertate in sede penale, costituivano soltanto una “fondata presunzione” di un corrispondente illegittimo aumento dei costi della prestazione del privato. Tale presunzione, per poter dare luogo ad una condanna al risarcimento per danno erariale in sede contabile, doveva necessariamente essere suffragata dalla prova ulteriore della concreta diminuzione patrimoniale per l’Erario. 

Solo in quegli anni si fece strada il diverso indirizzo, secondo cui l’accertamento di fatti di corruzione in sede giudiziaria penale era suscettibile di costituire comunque anche un danno all’immagine, quand’anche non fosse stata provata la “concreta diminuzione patrimoniale” direttamente collegata alla tangente.

Tale conclusione si fondava sull’assunto che la lesione così provocata non riguardasse solo l’immagine dell’Amministrazione danneggiata, in quanto tale, ma anche il buon andamento della Pubblica Amministrazione in senso più ampio (art. 97 Cost.), con l’ulteriore conseguenza della disaffezione del cittadino verso le istituzioni pubbliche.

Il tema si spostò quindi sulla prova dei maggiori oneri sostenuti dall’Amministrazione per ristorare il danno all’immagine.

Successivamente, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza 23 aprile 2003 n. 10, precisarono che il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione integrava un’ipotesi di “danno-evento”, comportante lesione di beni protetti anche non patrimoniali di rilievo costituzionale, e costituiva dunque un’ipotesi ben distinta dal “danno-conseguenza”, integrato dagli effetti patrimoniali dell’illecito e presupposto del danno patrimoniale riflesso.

Con l’entrata in vigore dell’art. 7 Legge 97/2001, l’avvio dell’azione di responsabilità venne subordinato all’esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna “per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale“. 

La scelta del Legislatore del 2001 trovò conferma nel cd. “Lodo Bernardo” (art. 17, comma 30-ter, D.L. 78/2009), che circoscrisse l’azione di responsabilità erariale per le ipotesi danno all’immagine della Pubblica Amministrazione ai soli casi di cui all’art. 7 Legge 97/2001, ossia alle fattispecie delittuose che determinavano una lesione all’efficienza e dell’effettività dell’agere amministrativo, tale da incrinare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato.

Tale normativa, più volte esaminata dalla Corte costituzionale, è stata sempre ritenuta legittima e conforme alle norme e ai principi costituzionali.

Pertanto, in conclusione, il rinvio operato dall’art. 17, comma 30-ter, D.L. 78/2009 all’art. 7 Legge 97/2001, per il contenuto letterale dello stesso, per l’interpretazione datane reiteratamente dalla Corte costituzionale e, soprattutto, per il richiamo ad una norma esattamente individuata, depone nel senso di ritenere realizzato, con il rinvio materiale o recettizio, l’incorporazione (o l’integrazione) della norma rinviata (art. 7 Legge 97/2001) nella norma rinviante (art. 17, comma 30-ter, D.L. 78/2009).

Per effetto di tale rinvio materiale e della conseguente incorporazione, il riferimento di cui all’art. 51, comma 7, Codice della giustizia contabile può operare, quanto al danno all’immagine, solo nei confronti della norma rinviante, come integrata dall’art. 7 Legge 97/2001.

Tutto ciò porta alla conclusione secondo cui, anche nell’attuale formulazione dell’art. 51 Codice della giustizia contabile, la risarcibilità del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione è rimasta circoscritta alle ipotesi previste dall’art. 17, comma 30-ter, D.L. 78/2009, per l’avvenuta incorporazione in tale norma dell’art. 7 Legge 97/2001.

Pertanto, la condanna penale, ancorché con sentenza passata in giudicato, per il delitto di falsa testimonianza (delitto contro l’amministrazione della giustizia) non consente l’esercizio dell’azione di responsabilità erariale per danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, con conseguente annullamento della pronuncia di primo grado.

Dott.ssa Cecilia Domenichini

Unicusano – Roma