Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Terni, sez. I, 04 luglio 2025 n. 125
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto depositato in data 5.9.2024 la Ricorrente_1 s.r.l., Rappresentante_1 P.IVA_1 , in persona degli amministratori e legali rappresentanti pro tempore Rappresentante_1 e Rappresentante_2, rappresentata e difesa dagli avv. Difensore_1 e Difensore_2 ricorre contro l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Terni avverso l’avviso di accertamento n. ——/2024, notificato a mezzo PEC l’8 marzo 2024, con il quale la sopra menzionata Direzione Provinciale contestava alla Ricorrente_1 s.r.l. per l’annualità 2017 costi non deducibili ai fini IRES e IRAP pari ad € 95.588,00= e IVA indetraibile pari a € 21.029,00= procedendo al recupero (al lordo degli interessi al 10.5.2024):
– di € 27.647,62= a titolo di maggiore IRES dovuta;
– di € 4,492,65= a titolo di maggiore IRAP dovuta;
– di € 25.560;00 a titolo di IVA non detraibile; e
– di € 30.971,70= a titolo di sanzione in applicazione del cumulo giuridico ex art. 12 D. Lgs. n. 472/1997.
L’avviso scaturiva dal P.V.C. della Guardia di Finanza, Tenenza di Orvieto, che aveva effettuato, in sintesi, recuperi a tassazione afferenti costi indeducibili per noleggio, riparazioni, pubblicità.
Deduceva la ricorrente l’infondatezza della pretesa tributaria articolando l’impugnazione in cinque motivi che di seguito si riassumono:
1) eccezione di decadenza quinquennale ex artt. 43 D.P.R. n. 600/1973 e 57 D.P.R. n. 633/1972 e conseguente illegittimità dell’avviso di accertamento;
2) infondatezza dell’asserita indeducibilità dei costi per noleggio;
3) infondatezza dell’asserita indeducibilità del costo spese di incremento beni merce/conto acquisti;
4) infondatezza dell’indeducibilità dei costi di pubblicità;
5) esistenza di una presunzione assoluta ex art. 90 Legge n. 289/2002 riguardante le spese pubblicitarie effettuate nei confronti delle A.S.D.
Richiedeva, pertanto, in via preliminare di merito di accertare l’intervenuta decadenza del potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria relativamente all’anno d’imposta 2017 annullando l’atto impugnato; in via principale di annullare l’atto riconoscendo la deducibilità dei costi e la detraibilità dell’IVA; in subordine di riqualificare le spese di cui alla fattura n. 42 in spese di rappresentanza ex art. 108 TUIR riconoscendo la detrazione della relativa IVA; con vittoria di spese e compenso legale.
Si costituiva in data 31.10.2024 l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Terni resistendo relativamente a tutti e cinque i motivi di impugnazione contestando tutto quanto ex adverso dedotto e supportando con copiosa giurisprudenza la bontà dei recuperi a tassazione. Concludeva, pertanto, per il rigetto del ricorso con condanna alle spese di giudizio.
Con memorie illustrative del 4.12.2024 e del 19.5.2025 la ricorrente insisteva nel ribadire i motivi di ricorso rammentando a comprova anche le dichiarazioni rese dai signori Nominativo_2 e Nominativo 1 – costituenti l’equipaggio della Associazione_1 ASD che nel biennio 2017/2018 ha preso parte al Campionato Italiano Autostoriche.
All’udienza del 16.12.2024 il Collegio, tenuto conto del fumus sotteso ai motivi del ricorso e dell’elevata misura della somma pretesa, disponeva la sospensione provvisoria dell’atto impugnato rinviando per la trattazione del merito della causa all’udienza del 19.5.2025.
All’udienza del 19.5.2025, dopo l’esposizione dei fatti e questioni della controversia da parte del relatore e le rispettive conclusioni delle parti, la Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Terni decideva come da dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente occorre occuparsi del primo motivo d’impugnazione citando dell’art. 67 del D.L. n. 18/2020, intervenuto a seguito del COVID. Al riguardo, per effetto del citato articolo i termini relativi alle attività di liquidazione, controllo, accertamento, riscossione e contenzioso sono sospesi dall’8 marzo al 31 maggio 2020, da parte degli uffici degli enti impositori; tale termine, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità (da ultimo, ordinanza n. 960/2025), si applica anche alla fase della riscossione, come, peraltro, già emerge da una piana lettura della normativa.
Il Decreto “Cura Italia” (art. 67 D.L. n. 18/2020), emanato per fronteggiare l’emergenza COVID 19, aveva disposto infatti la sospensione, dall’8 marzo al 31 maggio 2020, dei termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso, da parte degli uffici degli enti impositori oltre ad alcuni adempimenti in tema di interpelli. Lo stesso articolo al comma 4 ha stabilito che, con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all’attività degli uffici degli enti impositori, si applica, in deroga alle disposizioni dello Statuto dei diritti dei contribuenti, l’art. 12, commi 1 e 3, del D. Lgs. n. 159/2015.
La Corte nella citata ordinanza n. 960/2025 ha sancito che: “Occorre pertanto interpretare la normativa sopra citata nel senso che i termini di sospensione si applicano non soltanto in relazione a quelle attività da compiersi entro l’arco temporale previsto dalla norma, ma anche con riguardo alle altre attività, nel senso che si determina uno spostamento in avanti del decorso dei termini per la stessa durata della sospensione.
In tal senso depone l’espresso richiamo alla disposizione di carattere generale prevista dall’art. 12, comma 1, DLgs. n. 159 del 2015, il quale stabilisce che le disposizioni in materia di sospensione dei termini di versamento dei tributi, a favore dei soggetti interessati da eventi eccezionali, comportano altresì, per un corrispondente periodo di tempo, relativamente alle stesse entrate, la sospensione … dei termini di prescrizione e decadenza …”.
La recente evoluzione giurisprudenziale sul tema ha condotto quindi a considerare i termini di decadenza dell’azione dell’Amministrazione Finanziaria, che rilevano nel caso specifico, sospesi per 85 giorni “a cascata” relativamente però alle sole annualità accertabili nel 2020.
Per quanto sopra in relazione al primo motivo di impugnazione non può trovare accoglimento quanto asserito dal ricorrente.
Relativamente al secondo e al terzo motivo gli stessi sono infondati, trovando invece accoglimento la tesi prospettata dall’Amministrazione finanziaria.
Infatti, in linea di principio la presenza di una fattura redatta in conformità all’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 è ritenuta dalla giurisprudenza idonea a legittimare la deduzione di un costo, lasciando presumere la verità di quanto in essa indicato (cfr. Cass. n. 9108/2012 e Cass. n. 24426/2013).
E’ appena il caso di rammentare che in materia di IVA la norma di riferimento è l’art. 19 D.P.R. n. 633/1972 che così dispone: “Per la determinazione dell’imposta dovuta a norma del primo comma dell’articolo 17 o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’articolo 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”.
Tuttavia, la presenza di fatture generiche pone in capo al contribuente l’onere di dimostrare, mediante altra documentazione, l’esistenza e l’inerenza dei costi all’attività (cfr. Cass. n. 19489/2010 e Cass. n. 13882/2018).
Tale assunto prescinde dalle valutazioni afferenti alla congruità del costo per le quali si argomenterà in seguito.
Allo stesso modo, come opportunamente evidenziato dalla parte resistente, non è individuabile nel neo introdotto art. 7, comma 5bis, del D. Lgs. n. 546/1992 alcun ultroneo onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria anche alla luce di quanto affermato dal giudice di legittimità nell’ordinanza n. 31878 del 27.10.2022 che affrontando tale questione così afferma: “Pertanto, la nuova formulazione legislativa, nel prevedere che “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni” non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”.
Ad ogni modo la fattura di acquisto deve contenere una descrizione puntuale e non generica dei beni e servizi oggetto dell’operazione (relativamente alla natura, alla qualità e quantità degli stessi) in modo da consentire all’Amministrazione Finanziaria di esercitare i dovuti controlli (cfr. Cass. ordinanza n. 12081/2024).
In relazione al quarto e al quinto motivo d’impugnazione, per quanto concerne i costi di pubblicità di cui alle fatture n. 42 e 56 oggetto dell’avviso trovano quartiere le medesime considerazioni relative al secondo e terzo motivo d’impugnazione riguardo la genericità delle stesse non essendo stato possibile per l’Amministrazione finanziaria esperire i dovuti controlli in assenza di “alcun riferimento alle modalità con cui si sarebbe provveduto a pubblicizzare la società Ricorrente_1 S.r.l.”.
Trova invece accoglimento la tesi prospettata dal contribuente limitatamente alle fatture nn. 9, 12, 15, 19, 36, 38, 47 e 48 alla luce del seguente percorso argomentativo.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono che il principio di inerenza trovi il proprio fondamento positivo nell’art. 10, comma 5, primo periodo, del Testo Unico n. 917/1986 che dispone : “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Aderendo a questa interpretazione per alcuni componenti negativi, ad esempio gli interessi passivi, si potrebbe addirittura prescindere dall’osservanza del principio di inerenza ai fini della determinazione del reddito.
Una giurisprudenza più recente ritiene che la disposizione in parola sia una norma che si occupa della deducibilità dei componenti negativi in presenza di ricavi e proventi non computabili nel reddito d’impresa.
In particolare, la norma sarebbe orientata ad evitare che un’impresa che fruisca di agevolazioni parziali nella tassazione del reddito possa godere dell’ulteriore agevolazione consistente nella possibilità di dedurre i componenti negativi del reddito che concorrono alla formazione del reddito fruente di agevolazione.
Infatti nel successivo periodo la norma dispone, per quanto riguarda le spese e gli atri componenti negativi: “Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi”.
La disposizione sarebbe infatti un presidio per evitare effetti di indebita estensione della portata delle norme di agevolazione fiscale di carattere parziale mentre l’inerenza vera e propria sarebbe un principio immanente al sistema di determinazione del reddito d’impresa che collega i componenti economici ad una fonte legalmente qualificata attraverso una relazione di causa ad effetto.
Gli stessi divengono quindi, una volta superato il sindacato sull’inerenza, teleologicamente orientati all’esercizio dell’attività imprenditoriale.
L’inerenza non può quindi essere intesa in modo restrittivo riferendola alle sole spese strettamente necessarie alla produzione di ricavi (cfr. Cass. n. 8818/1995).
Secondo la giurisprudenza più recente infatti (cfr. Cass. n. 10062/2000; Cass. n. 20055/2014; e Cass. n. 13588/2018) deve considerarsi inerente tutto ciò che appartiene alla sfera dell’impresa e alla sua attività, anche potenzialmente e in prospettiva futura e comunque indipendentemente dall’esito e dall’efficacia concreta del sostenimento di tali costi.
L’inerenza dunque, in tale ottica, non è legata ai ricavi dell’impresa ma all’attività complessiva della stessa.
A questo punto si pone l’ulteriore questione relativa alla relazione tra l’inerenza e l’antieconomicità dell’operazione che riguarda i profili afferenti l’an e il quantum dei costi sostenuti.
Quanto al profilo dell’an osserva la Corte che l’Amministrazione finanziaria non può disconoscere un costo per il solo fatto che lo stesso sia collegato a un atto di gestione anomalo o comunque contrario agli ordinari criteri di economicità poiché vorrebbe dire sindacare le scelte imprenditoriali del contribuente collegando inopportunamente tali valutazioni a un criterio prettamente qualitativo, quale quello dell’inerenza.
La stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 10319/2015; Cass. n. 6320/2016; Cass. n. 21405/2017; Cass. n. 26202/2028; e Cass. n. 6368/2021) ha escluso che il sindacato possa investire “la verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa l’opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività” attingendo altrimenti il controllo a valutazioni di strategia commerciale riservate prettamente all’imprenditore e alla sua autonomia contrattuale.
Considerando invece il quantum la questione è se l’Ufficio possa sindacare l’inerenza di un costo sulla base della sua entità contestandone la sproporzione rispetto all’attività d’impresa complessivamente considerata sindacando altresì l’utilità dello stesso.
L’inerenza di un costo è profondamente distinta dalla sua congruità e sovrapporre le due concezioni implicherebbe confondere la dimensione qualitativa con quella quantitativa collegando tali profili a un corollario applicativo proprio del principio di inerenza.
Dunque, il sindacato sulla congruità del costo deve fare i conti con l’impossibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di ingerirsi nelle strategie commerciali riservate all’imprenditore e più in generale con la riferibilità del principio dell’inerenza non tanto all’art. 109, comma 5, citato ma alla sola attività in concreto esercitata anche se in via indiretta, potenziale o in proiezione futura a prescindere dall’utilità e dal vantaggio apportati per il conseguimento di ricavi o di reddito (cfr. Cass. n. 450/2018; Cass. n. 3170/2018; Cass. n. 18904/2018; e Cass n. 27786/2018).
Nel caso di specie relativamente alle fatture nn. 9, 12, 15, 19, 36, 38, 47 e 48 emesse dalla Associazione_1 A.S.D. le osservazioni dell’Amministrazione finanziaria sembrano riguardare lo scarso numero della potenziale clientela raggiungibile dal messaggio pubblicitario in ragione del ristretto ambito locale in cui l’attività sponsorizzata si è svolta, la scarsa correlazione funzionale tra il costo sostenuto per la pubblicità e l’idoneità della prestazione a produrre utili.
Entrambe le valutazioni sembrerebbero riguardare al più una pessima scelta imprenditoriale e non un indizio afferente alla non inerenza del costo.
Anche lo scarso risultato in termini di ritorno sarebbe da ascrivere alla dimensione quantitativa più che a quella qualitativa non essendo stata messa in dubbio l’esistenza delle operazioni in parola.
In altre parole, mentre per gli altri costi di pubblicità si è in presenza di una scarsa documentazione idonea ad inficiare quei parametri di certezza e oggettiva determinabilità che resistono oggi anche al principio di derivazione rafforzata ex art. 83 del TUIR poiché per i soggetti interessati tali parametri sono individuabili nei principi contabili, per i rapporti intrattenuti con la Associazione_1 A.S.D. ad essere stata sindacata sembra essere esclusivamente la dimensione quantitativa degli stessi.
Quanto sopra anche alla luce del fatto che il contribuente ha adeguatamente documentato le operazioni passive in parola e alla luce dell’art. 90, comma 8, Legge n. 289/2002, i cui parametri nel caso di specie sembrano essere rispettati.
Quanto asserito infatti in sede di controdeduzioni da parte dell’Agenzia delle Entrate in proposito viene ridimensionato da quanto dimostrato dal contribuente nelle memorie illustrative ex art. 32 del D. Lgs. n. 546/1992 e comunque alla luce di quanto ampiamente argomentato relativamente alla congruità del costo laddove non si consideri operare la presunzione iuris et de iure.
In definitiva, essendo il processo tributario definibile di impugnazione merito, in ossequio alle teorie dichiarative riguardanti l’obbligazione tributaria ed essendo l’impugnazione stessa diretta alla pronuncia di una decisione sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria implicando, per il giudice adito, il potere-dovere di quantificare la pretesa entro i limiti posti dalle domande di parte, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Terni ridetermina il contenuto dell’avviso di accertamento n. ——/2024 annullandolo nella parte relativa alle imposte, alle sanzioni e agli interesse ed accessori per quanto concerne i costi considerati dall’Ufficio indeducibili (€ 68.948,77=) e all’IVA considerata indetraibile (€ 15.168,73=) di cui alle fatture nn. 9, 12, 15, 19, 36, 38, 47 e 48 emesse dalla Associazione_1 A.S.D, per un totale di.
In considerazione dell’accoglimento parziale, sussistono giusti motivi per compensare interamente le spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Accoglie parzialmente il ricorso. Spese compensate. Terni, li 19 maggio 2025
COMMENTO REDAZIONALE– La pronuncia in commento torna ad occuparsi della portata applicativa della disposizione di cui al comma 5-bis dell’art. 7 D.lgs. 546/1992 (così come aggiunto dall’art. 6, comma 1, Legge 31 agosto 2022 n 130), secondo cui “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni …”.
In conformità a quanto già statuito dalla Suprema Corte, si esclude che la predetta norma ponga a carico dell’Amministrazione finanziaria un onere probatorio diverso ed ulteriore rispetto a quello previgente e ricavabile dalle ordinarie norme civilistiche in materia di riparto dell’onere della prova.
Viene quindi confermata la conclusione secondo cui “…la nuova formulazione legislativa non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria un ruolo centrale” (Cass. civ., sez. V, ord., 27 ottobre 2022 n. 31878).
In proposito, si ricorda infine come la giurisprudenza di legittimità abbia di recente escluso che la norma di cui all’art. 7, comma 5-bis, D.lgs. 546/1992 si ponga in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l’onere della prova contraria (Cass. civ., sez. V, ord., 30 gennaio 2024 n. 2746).