Cass. civ., sez. V, 03.04.2019 n. 9232
Svolgimento del processo
1) A seguito di annullamento, da parte della commissione tributaria provinciale di Vicenza con decisione n. 124 del 22 novembre 2010, di un avviso di accertamento per maggior Ici dell’anno 2005, emesso dal Comune di Longare nei confronti di C.S. relativamente ad un’area edificabile composta di vari terreni, il Comune, pendenti ancora i termini per impugnare, emetteva, in dichiarata autotutela, altro avviso, sostitutivo del primo, e ricalcolava l’imposta su una superficie differente da quella considerata in precedenza – perché inclusiva anche di altri terreni- e maggiore di quella a cui aveva fatto riferimento la commissione.
2) La contribuente impugnava il nuovo avviso sostenendone l’illegittimità in quanto violativo del giudicato formatosi, in punto di estensione della superficie tassabile, sulla sentenza della commissione provinciale a seguito dell’acquiescenza che il Comune vi aveva prestato facendone menzione nella premessa dell’autoannullamento (contestuale all’emissione del nuovo avviso) e in quanto violativo del D.Lgs. n. 504 del 1992, artt. 2 e 5, per avere il Comune determinato l’area tassabile in ragione della metà della superficie lottizzata senza considerare che la parte eccedente quella a cui aveva fatto riferimento la commissione tributaria provinciale era costituita da zone destinate a verde pubblico, parcheggi, strade, immobili di edilizia residenziale pubblica.
3) Il ricorso della contribuente veniva accolto dalla (nuovamente) adita commissione di Vicenza.
4) La commissione tributaria regionale del Veneto, sull’appello del Comune, con sentenza in data 21 maggio 2013, n. 42/14, riformava la decisione di primo grado affermando che il nuovo avviso era stato emesso dal Comune dopo aver annullato, nell’esercizio del proprio potere di autotutela, l’avviso originario illegittimo, che, quindi, il nuovo avviso ben aveva potuto essere riferito ad una superficie diversa da, e maggiore di, quella a cui aveva fatto riferimento la sentenza relativa all’avviso originario, che il nuovo avviso era stato motivatamente riferito alla “metà dell’intera superficie dell’immobile e non alla somma dell’estensione dei singoli mappali su cui sarà possibile edificare”, in quanto, nel periodo considerato (2005), “non era stata ancora individuata la collocazione delle aree destinate a strade, parcheggi, verde pubblico, per cui il valore del bene doveva essere attribuito all’insieme tenendo conto del fatto che anche le frazioni dell’intero, in seguito destinate ad ospitare strade, parcheggi e verde pubblico, avevano un valore in ragione del fatto di essere necessarie per consentire l’edificabilità del comprensorio”.
5) La contribuente ricorre per la cassazione della sentenza della commissione regionale, sulla base di quattro motivi.
6) Il Comune di Longare resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1) Va preliminarmente scrutinata l’eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto proposto (il 20 dicembre 2013) oltre il termine previsto dall’art. 325 c.p.c., di sessanta giorni dalla notifica del provvedimento impugnato avvenuta il 1 luglio 2013.
2) L’eccezione è infondata in quanto solo la notifica di copia autentica della sentenza è idonea a far decorrere il termine c.d. “breve” d’impugnazione e sta alla “parte cui sia stato notificato un atto d’impugnazione nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., e che eccepisca la necessità dell’osservanza del termine breve di cui al codice cit., art. 325, e l’avvenuto superamento del medesimo deve provarne il momento di decorrenza, producendo copia autentica della sentenza impugnata corredata della relata di notificazione” (Cass. n. 12886/97; Cass. 16582/2011; Cass. 12483/2003); nel caso di specie, la copia della sentenza spedita dal Comune alla contribuente non solo non risulta essere stata una copia autentica (dalle produzioni del Comune) ma risulta essere, dal documento depositato dalla difesa della contribuente ai sensi dell’art. 327 c.p.c., una copia semplice.
3) Con il primo motivo di ricorso, la contribuente lamenta nullità della sentenza per avere la commissione omesso di pronunciarsi sulla questione della mancanza di legittimazione a proporre l’appello e a stare in giudizio per il Comune, da parte del “responsabile dell’area economico finanziaria”, posto che la giunta comunale, nella delibera n. 18/2012, con cui aveva deciso di proporre appello, aveva autorizzato il sindaco “ad agire e compiere tutti gli atti necessari in nome e per conto del Comune, attribuendo allo stesso ogni più ampio potere di rappresentanza sostanziale e processuale” del Comune e aveva conferito al responsabile d’area solo il potere di compiere “tutti gli atti conseguenti e relativi all’assunzione dell’impegno di spesa e conferimento degli incarichi”.
4) Il motivo è infondato: il D.Lgs. n. 546 del 1992., art. 11, comma 3, prevede che l’ente locale può stare nel giudizio tributario (di merito), oltre che nella persona del sindaco, “anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio”; nel sistema delle autonomie locali disegnato dal D.Lgs. n. 267 del 2000, è possibile per l’ente locale prevedere, con disposizione del proprio statuto, la necessità di un’autorizzazione alla lite da parte degli organi collegiali (consiglio o giunta) ai fini del proposizione di azioni o della resistenza in giudizio da parte dei soggetti a cui altrimenti la legittimazione ad agire spetta in base all’art. 11 cit. (v. Cass.26719/2018); mai è stata allegata dalla contribuente l’esistenza di simile disposizione statutaria ed il Comune l’ha negata; deve ritenersi che la ricordata delibera n. 18/2012 avesse valenza solo interna e che il titolare della posizione organizzativa comprendente l’ufficio tributi, ben abbia agito in appello in forza della legittimazione riconosciutagli dalla legge.
5) Con il secondo motivo di ricorso, la contribuente lamenta nullità della sentenza impugnata e violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c., per avere i giudici di appello ritenuto l’avviso come espressione di autotutela laddove invece avrebbe dovuto ritenerlo illegittimo perché violativo del giudicato formatosi, in punto di estensione della superficie tassabile, sulla decisione di annullamento dell’avviso originario a seguito dell’acquiescenza che il Comune aveva prestato a tale decisione con il farvi espresso richiamo nella premessa dell’autoannullamento.
6) Con il terzo motivo di ricorso, la contribuente lamenta violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, per avere la commissione erroneamente ritenuto legittimo l’avviso malgrado lo stesso contrastasse con la decisione con la quale era stato annullato l’avviso precedente e che, quand’anche da ritenersi non passata in giudicato, spiegava comunque effetto vincolante per il Comune perché mai sospesa.
7) Rispetto ai due motivi che precedono è preliminare lo scrutinio dell’eccezione sollevata dal Comune di loro inammissibilità per essere ogni questione di violazione o elusione del giudicato attratta alla giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 133, comma 1 (“Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: a) le controversie in materia di… 5) nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato”). L’eccezione è infondata in quanto, in tema di legittimità degli atti impositivi, la giurisdizione del giudice tributario ha carattere generale (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19) e comprende quindi anche le questioni di legittimità degli atti impositivi correlate al rispetto di un precedente giudicato; l’eccezione del controricorrente trascura di considerare l’inciso contenuto nell’art. 133, “salvo ulteriori previsioni di legge” -da riferirsi, per quanto qui rileva, al suddetto D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2 – e trascura altresì di considerare che il D.Lgs. n. 104, art. 133, riguarda il “provvedimento amministrativo” in genere a fronte della specificità dei provvedimenti impositivi riguardati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19.
8) I due sopradetti motivi, suscettivi di esame congiunto, sono infondati. Invero l’amministrazione è facoltizzata ad emettere un nuovo atto impositivo che sostituisce quello precedentemente notificato ed affetto da vizi che ne determinano la nullità, sempreché non siano decorsi i termini previsti a pena di decadenza e sempre che sull’atto impugnato non sia stata pronunciata sentenza passata in giudicato. L’annullamento in autotutela disposto dal Comune, “vista la sentenza della commissione provinciale di Vicenza”, non può essere letto come espressione di ossequio ossia di tacita acquiescenza, alla sentenza medesima con conseguente suo passaggio in giudicato: se il Comune avesse inteso aderire al provvedimento giudiziale avrebbe richiamato l’annullamento dell’atto originario già disposto da quel provvedimento e non avrebbe provveduto ad annullare l’atto in dichiarata autotutela; in altri termini, l’autoannullamento è incompatibile con, ed esclude, il riconoscimento del l’annullamento giudiziale. Ne consegue che non vi era alcun vincolo di giudicato che il Comune dovesse rispettare nel momento in cui lo stesso, dopo l'(auto)annullamento dell’atto originario, ha emesso il nuovo atto impositivo.
9) Con il quarto motivo di ricorso, la contribuente lamenta violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 504, art. 5 e del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 59, per avere la commissione ritenuto legittimo l’avviso di accertamento malgrado lo stesso fosse fondato su un valore unitario dell’intera area (pari a Euro 100 per mq, come stabilito dalla delibera di giunta n. 96 del 2005), senza considerare che l’area comprendeva zone destinate all’edificazione privata e zone, di valore all’evidenza diverso, destinate ad opere pubbliche di urbanizzazione o a verde pubblico.
10) Il motivo è infondato. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, “in tema di ICI, la base imponibile di un’area fabbricabile va individuata, ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, in relazione al suo valore commerciale complessivo che, dovendo tener conto dei differenti livelli di edificabilità delle parti che compongono l’area medesima, può essere espresso ricorrendo ad indici medi di edificabilità riferiti all’intera area, in considerazione del rapporto tra spazi riservati a costruzioni e spazi riservati ad infrastrutture e servizi di interesse generale” (sentenza n. 11176 del 07/05/2010) e che, “in tema di ICI, il parametro per la determinazione del valore dell’area fabbricabile, fissato dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5, è quello del valore venale in comune commercio, sul quale necessariamente incide il diverso livello di edificabilità delle parti che compongono l’area fabbricabile. Ne deriva che la valutazione dell’area medesima deve essere effettuata secondo il criterio del valore commerciale complessivo (pur tenendo conto dei differenti livelli di edificabilità delle parti che la compongono) e non attraverso la sommatoria del valore commerciale di sue eventuali segmentazioni individuate in funzione della loro specifica edificabilità” (sentenza n. 20256 del 23/07/2008). La commissione regionale ha evidenziato che nell’avviso di accertamento impugnato l’area edificabile era stata valutata nel suo insieme, che “l’imposta era stata commisurata alla metà dell’intera estensione dell’immobile” in quanto nel 2005 (anno di approvazione della delibera n. 96) “non era stata individuata la collocazione delle aree destinate a strada, parcheggio e verde pubblico” e che la valutazione era stata effettuata tenendo conto del fatto che “anche le frazioni dell’intero destinate ad ospitare strade, parcheggi e verde pubblico avevano un valore in ragione del fatto di essere necessarie per consentire l’edificabilità del comprensorio”. I giudici di appello hanno quindi evidenziato che nell’avviso, segnatamente tramite il riferimento dell’imposta alla metà dell’intero, erano state prese in considerazione, per quanto era all’epoca possibile, le diverse destinazioni degli spazi riservati a costruzioni e spazi riservati ad infrastrutture e servizi di interesse generale. La commissione, pertanto, nel ritenere l’avviso legittimo si è pienamente conformata alla legge e all’interpretazione datane da questa Corte.
11) Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
12) Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna C.S. a rifondere al Comune di Longare le spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 1400,00, oltre spese forfetarie e accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17,, dà atto della sussistenza dei presupposti per il pagamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo, comma 1-bis,.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2019
COMMENTO
Viene respinto il motivo di ricorso relativo all’asserita carenza di legittimazione, in capo al responsabile dell’area economico finanziaria, a proporre un appello tributario nell’interesse del Comune e a stare in giudizio in nome e per conto di esso.
Il contribuente fondava la propria eccezione sul presupposto che la Giunta comunale, con la delibera mediante la quale aveva deciso di proporre appello contro la sentenza di primo grado a sé sfavorevole, aveva autorizzato il sindaco “ad agire e compiere tutti gli atti necessari in nome e per conto del Comune, attribuendo allo stesso ogni più ampio potere di rappresentanza sostanziale e processuale” del Comune; aveva invece conferito al responsabile dell’area economico finanziaria unicamente il potere di compiere “tutti gli atti conseguenti e relativi all’assunzione dell’impegno di spesa e conferimento degli incarichi”.
Il motivo di ricorso viene respinto, sul presupposto del carattere meramente interno, e non rilevante nei rapporti con i terzi, di tale delibera della Giunta comunale.
L’art. 6 D.lgs. 18.08.2000 n. 267 (cd. “Testo Unico enti locali”) stabilisce che gli statuti degli enti locali determinano, tra l’altro, “i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio”. Tale norma autorizza quindi l’ente locale a prevedere, con una propria disposizione statutaria, la necessità di un’autorizzazione alla lite da parte dei propri organi collegiali (Consiglio o Giunta), ai fini della proposizione di azioni o della resistenza in giudizio.
In mancanza di una simile previsione statutaria, torna tuttavia ad applicarsi la norma generale di cui all’art. 11, comma 3, D.lgs. 546/1992, secondo cui l’ente locale può stare nei gradi di merito del giudizio tributario, oltre che nella persona del sindaco, “anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio“.
Poiché, nel caso di specie, il contribuente non aveva allegato l’esistenza di una disposizione statutaria, che prevedesse la necessità di autorizzazione alla lite da parte degli organi collegiali del Comune, e poiché quest’ultimo aveva espressamente negato l’esistenza di detta clausola, la delibera comunale adottata assumeva valenza esclusivamente interna, e non rilevante nei confronti dei terzi.
Pertanto, il responsabile dell’area economico finanziaria, quale titolare della posizione organizzativa comprendente l’ufficio tributi, risultava dotato della legittimazione a proporre l’appello tributario in nome e per conto del Comune e a stare in giudizio per esso.