Cass. civ., sez. V, ord., 06 marzo 2024 n. 5996


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere

Dott. PENTA Andrea – Consigliere

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere – Rel.

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19000/2020 R.G. proposto da:

………..Srl, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 20, presso lo studio dell’avvocato D.E (Omissis), che la rappresenta e difende                                                                                                                                                                                    – ricorrente –

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis), che la rappresenta e difende                                                                                                                    – resistente –

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. TOSCANA n. 126/2020 depositata il 27/01/2020,

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/02/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI.

Svolgimento del processo

  1. L’Agenzia delle Entrate, previa individuazione della dissimulazione di un contratto verbale di cessione di azienda nella sequenza di atti societari realizzati, ha applicato l’imposta di registro con aliquota al 3% e la sanzione per omessa registrazione. Più precisamente tra l’aprile del 2014 e l’aprile del 2016 sono stati posti in essere i seguenti atti: costituzione del Centro Residenziale @1To@ Srl, con socio di maggioranza @2Sa@ Srl e di minoranza Centro chirurgico @3To@ Srl; deliberazione aumento di capitale da parte del Centro residenziale @1To@ Srl, realizzato con conferimento di un ramo di azienda; mutamento del consiglio di amministrazione del Centro residenziale @1To@ Srl (presidente D.D.) e contestuale mutamento della denominazione in Laboratorio di Analisi cliniche @5Sa@ Srl; cessione al Laboratorio analisi cliniche G Srl (presidente D.D.) delle partecipazioni societarie di @6Sa@ sanità Srl, @2Sa@ Srl e Centro chirurgico @3To@ Srl nel Laboratorio analisi Cliniche @5Sa@ Srl
  2. L. Srl (prima denominata Laboratorio analisi cliniche G Srl) ha impugnato l’atto impositivo con ricorso rigettato in primo e secondo grado.
  3. Nella sentenza di appello si legge “a norma dell’art. 15d.P.R. n. 131 del 1986l’Ufficio impositore può presumere l’esistenza di un contratto verbale di cui deve essere effettuata la registrazione d’ufficio. Devono sussistere elementi gravi, precisi e concordanti e gli atti, conclusi in un lasso di tempo così breve da società già connesse per rapporti esistenti, come risultano chiaramente dalla lettura degli atti medesimi, danno ampia ragione all’Ufficio di presumere l’esistenza, a monte, di un preciso disegno volto all’elusione fiscale. Non si tratta, quindi, di una violazione del rinnovato art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, in quanto l’Ufficio non ha diversamente interpretato un atto registrato, ma ha individuato un contratto verbale, che, come è detto, è soggetto a tassazione e giustamente lo ha assoggettato all’imposta di registro e conseguentemente applicato le penali previste ex art. 69 d.P.R. n. 131 del 1986“.
  4. Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione la contribuente.
  5. L’Agenzia delle Entrate non si è tempestivamente costituita, ma ha depositato memoria per l’eventuale partecipazione alla discussione.
  6. La causa è stata trattata e decisa all’adunanza camerale del 16 febbraio 2024.

Motivi della decisione

  1. La ricorrente ha dedotto: 1) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., dell’art. 10 – bisdella legge n. 212 del 2000e dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 con riguardo al mancato espletamento del contraddittorio, che sussiste, nel caso di specie, in virtù della specifica previsione di legge, pur trattandosi di accertamento a tavolino; 2), 3) e 4) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., degli artt. 7 della legge n. 212 del 2000 e 52, comma 2 – bis, del d.P.R. n. 131 del 1986, stante la contraddittorietà della motivazione dell’avviso di accertamento, fondato su disposizioni tra di loro inconciliabili (e, cioè, sugli art. 15 e 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 e sull’art. 10 – bis della legge n. 212 del 2000), oltre alla mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato per omessa pronuncia su tale doglianza e motivazione solo apparente sul punto; 5) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., degli artt. 15 e 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 e 10 – bis della legge n. 212 del 2000, anche in base a quanto disposto dalla legge n. 205 del 2017 e 145 del 2018, essendo stata erroneamente sussunta la fattispecie nell’art. 15 del d.P.R. n. 131 del 1986 e, cioè, nell’accertamento presuntivo di un contratto verbale, nonostante la conclusione di contratti e negozi diversi riqualificati, senza le dovute garanzie procedimentali ed in contrasto con la nuova formulazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986; 6), 7), 8) difetto assoluto di motivazione, violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ed apparenza di motivazione sulla fondatezza della pretesa tributaria, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; 9) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 69 del d.P.R. n. 131 del 1986 con riguardo alle sanzioni, di cui era stata lamentata l’inapplicabilità per obiettiva incertezza normativa ed il difetto di proporzionalità, essendo stata irrogata la sanzione per omessa registrazione, nonostante l’avvenuta registrazione di una serie di atti diversi, riqualificati dall’Amministrazione finanziaria (violazione desunta anche da un diverso avviso relativo a fattispecie identica in cui non è stata applicata alcuna sanzione).
  2. Il primo ed il quinto motivo, che sono connessi e risultano fondati, vanno esaminati prioritariamente, con assorbimento di tutte le altre censure, in ossequio al principio della ragione più liquida (v. Cass., Sez. 6-3, 26 novembre 2019, n. 30745, secondo cui l’ordine di trattazione delle questioni, imposto dall’art. 276, secondo comma, cod. proc. civ., lascia libero il giudice di scegliere, tra varie questioni di merito, quella che ritiene “più liquida”).

2.1. Nella sentenza impugnata si legge “a norma dell’art. 15 d.P.R. n. 131 del 1986 l’Ufficio impositore può presumere l’esistenza di un contratto verbale di cui deve essere effettuata la registrazione d’ufficio. Devono sussistere elementi gravi, precisi e concordanti e gli atti, conclusi in un lasso di tempo così breve da società già connesse per rapporti esistenti, come risultano chiaramente dalla lettura degli atti medesimi, danno ampia ragione all’Ufficio di presumere l’esistenza, a monte, di un preciso disegno volto all’elusione fiscale. Non si tratta, quindi, di una violazione del rinnovato art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, in quanto l’Ufficio non ha diversamente interpretato un atto registrato, ma ha individuato un contratto verbale, che, come è detto, è soggetto a tassazione e giustamente lo ha assoggettato all’imposta di registro e conseguentemente applicato le penali previste ex art. 69 d.P.R. n. 131 del 1986“.

2.2. Come prospettato con il quinto motivo, il giudice di merito (così come l’Amministrazione finanziaria) ha erroneamente applicato l’art. 15, lett. c, del d.P.R. n. 131 del 1986, ai sensi del quale, in mancanza di richiesta da parte dei soggetti tenuti, la registrazione è eseguita d’ufficio, previa riscossione dell’imposta dovuta, per i contratti verbali di cui alla lettera a) dell’art. 3 e per le operazioni di cui all’art. 4 quando, in difetto di prova diretta, risultino da presunzioni gravi, precise e concordanti.

La disposizione de qua mira a contrastare forme di evasione d’imposta vere e proprie e non di mera elusione (asserita o effettiva), consentendo l’accertamento, sulla base di presunzioni gravi, precisi e concordanti, e la conseguente registrazione di un contratto verbale che non è stato affatto sottoposto a tale adempimento, mentre l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 (non invocato dall’Amministrazione finanziaria nel caso di specie) comporta una diversa interpretazione (e conseguentemente l’applicazione di un diverso regime tributario) di un atto, che è stato già sottoposto a registrazione dalle parti.

Nella fattispecie in esame, l’art. 15, lett. c, del d.P.R. n. 131 del 1986 è stato erroneamente applicato, in quanto le parti coinvolte non hanno concluso una cessione di azienda (sia pure verbale), ma piuttosto sono ricorse ad una sequenza negoziale diversa dalla cessione di azienda (consistente in un una pluralità di operazioni negoziali, tutte regolarmente registrate, culminate nella cessione, da parte di @6Sa@ sanità Srl, @2Sa@ Srl e Centro chirurgico @3To@ Srl al Laboratorio analisi cliniche G Srl, delle partecipazioni societarie nel Laboratorio analisi Cliniche @5Sa@ Srl), proprio per realizzare effetti economici e giuridici analoghi a quelli della cessione di azienda, come risulta dall’accertamento di fatto contenuto in sentenza, dove vi è, peraltro, un chiaro riferimento ad un “disegno volto alla elusione fiscale”. In tali ipotesi l’Amministrazione finanziaria deve necessariamente usare l’art. 10 – bis della legge n. 212 del 2000 (ratione temporis applicabile all’avviso in esame), che consente di disconoscere i vantaggi fiscali indebiti derivanti da una o più operazioni abusive, in quanto prive di sostanza economica e poste in essere solo per conseguire l’indebito vantaggio fiscale, e conseguentemente di determinare i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni, fermo restando, però, la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Il quinto motivo è, quindi, fondato, in applicazione del seguente principio di diritto: in tema di imposta di registro, l’Amministrazione finanziaria può applicare l’art. 15, lett. c, del d.P.R. n. 131 del 1986 solo per accertare la conclusione di un contratto verbale che non è stato oggetto di registrazione, ma non anche per contestare gli atti o negozi che sono stati regolarmente sottoposti a registrazione, attribuendovi un diverso significato o negandone la sostanza economica, dovendo, in tali diverse ipotesi, procedere o ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 de 1986, fermo il divieto di usare elementi extra – testuali, o in base all’art. 10 – bis della legge n. 212 del 2000.

2.3. Posto, pertanto, che nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 10 – bis della l. n. 212 del 2000, anche il primo motivo è fondato, in quanto il comma 6 dell’art. 10 – bis della legge n. 212 del 2000 esige sempre, a pena di nullità, una previa richiesta di chiarimenti al contribuente, a prescindere dalle modalità dell’accertamento (che può avvenire anche “a tavolino”), come confermato dalla necessità, in base al successivo comma 8, che la motivazione dell’avviso impositivo contenga uno specifico riferimento ai chiarimenti forniti dal contribuente, a cui deve essere data la possibilità di spiegare le ragioni extra – fiscali delle operazioni posti in essere.

Del resto, analogamente a quanto ritenuto per il termine di cui all’art. 12 della legge n. 212 del 2000, il termine dilatorio di cui all’art. 10 – bis della legge n. 212 del 2000 è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva, sicché la sua mancata attribuzione determina di per sé l’illegittimità dell’atto impositivo. Né può farsi applicazione dell’art. 21 – octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, in quanto, nell’ipotesi di abuso del diritto il disconoscimento degli effetti di negozi effettivamente posti in essere e l’applicazione di un regime tributario più oneroso in luogo di un altro più vantaggioso esige un accertamento di fatto complesso, in cui è necessario il coinvolgimento del contribuente (l’unico in grado di spiegare eventuali ragioni extra – fiscali non immediatamente percepibili da parte dell’Amministrazione), per cui non è affatto palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. Del resto, questa Corte ha già chiarito che, in tema di contraddittorio procedimentale, il mancato rispetto da parte dell’Amministrazione finanziaria del termine di 60 giorni concesso al contribuente ex art. 37 bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, per presentare chiarimenti, determina la nullità dell’avviso di accertamento emesso anteriormente alla sua scadenza, traducendosi in una violazione del diritto di difesa, non emendabile attraverso la “prova di resistenza”, fondata sulla mancata dimostrazione in concreto dell’effettivo pregiudizio per il destinatario, attesa l’inapplicabilità dell’art. 21 octies, comma 2, della legge n.241 del 1990 agli atti impositivi, che non sono vincolati nel “quid” (Cass., Sez. 5, 11 novembre 2015, n. 23050).

In conclusione, il primo motivo deve essere accolto in applicazione dei seguenti principio di diritto: in materia tributaria, l’art. 10 – bis, comma 6, della legge n. 212 del 2000, a prescindere dalle modalità dell’accertamento (che può avvenire anche “a tavolino”), esige sempre, a pena di nullità, una previa richiesta di chiarimenti al contribuente, il cui coinvolgimento è necessario, in un’ottica di collaborazione e buona fede, in quanto è l’unico in grado di spiegare eventuali ragioni extra – fiscali non immediatamente percepibili da parte dell’Amministrazione: ciò è confermato dalla necessità, in base al successivo comma 8, che la motivazione dell’avviso impositivo contenga uno specifico riferimento ai chiarimenti forniti dal contribuente.

  1. In conclusione, in accoglimento del primo e del quinto motivo, assorbiti gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, il ricorso originario accolto, con compensazione integrale delle spese di lite, stante i mutamenti legislativi e giurisprudenziali intervenuti in corso di causa.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il primo ed il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso, annullando l’atto impugnato; dichiara integralmente compensate le spese di lite.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2024.


COMMENTO – L’Agenzia delle Entrate, ravvisando in una sequenza di plurimi atti societari la dissimulazione di un contratto verbale di cessione di azienda, applicava l’imposta di registro con aliquota del 3%, nonché la sanzione per omessa registrazione.

La società contribuente impugnava l’atto impositivo, con ricorso respinto in entrambi i gradi di merito.

Proponeva quindi ricorso per Cassazione, lamentando tra l’altro la violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) con riferimento agli artt. 15 e 20 D.P.R. 131/1986 e all’art. 10-bis Legge 212/2000. In particolare, lamentava che la fattispecie fosse stata erroneamente sussunta nell’art. 15 D.P.R. 131/1986, ossia nell’accertamento presuntivo di un contratto verbale, senza le dovute garanzie procedimentali previste dagli artt. 20 D.P.R. 131/1986 e 10-bis Legge 212/2000.

Il predetto motivo di ricorso trova integrale accoglimento da parte della Suprema Corte, in quanto le parti non avevano concluso una cessione di azienda (sia pure verbale), bensì una pluralità di operazioni negoziali (tutte peraltro regolarmente registrate), culminate nella cessione di partecipazioni societarie e dirette a realizzare effetti economici e giuridici analoghi a quelli della cessione di azienda.

L’Amministrazione finanziaria avrebbe quindi dovuto procedere non già in base all’art. 15, comma 1, lettera c), D.P.R. 131/1986, bensì in base all’art. 20 del medesimo Decreto oppure in base all’art. 10-bis Legge 212/2000.

L’art. 15, comma 1, lettera c), D.P.R. 131/1986 stabilisce che, in mancanza di richiesta da parte dei soggetti che vi sono tenuti, la registrazione sia eseguita d’ufficio, previa riscossione dell’imposta dovuta, per i contratti verbali di cui all’art. 3, lettera a) e per le operazioni di cui all’art. 4, quando, in difetto di prova diretta, risultino da presunzioni gravi, precise e concordanti: si tratta, quindi, di una disposizione volta a contrastare fenomeni di vera e propria evasione fiscale, e non di mera elusione (asserita o effettiva).

Diversamente, l’art. 20 D.P.R. 131/1986 comporta una diversa interpretazione, e la conseguente applicazione di un diverso regime tributario, di un atto che è già stato sottoposto a registrazione dalle parti.

Quest’ultima doveva quindi essere la previsione normativa correttamente applicabile alla fattispecie in esame.

L’applicazione di tale norma comportava la necessità, per l’Agenzia delle Entrate, di assicurare le garanzie procedimentali previste dall’art. 10-bis Legge 212/2000 (“disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”).

Tale disposizione configura l’abuso del diritto tutte le volte in cui ricorrano una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti, ossia benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

Configurano operazioni prive di sostanza economica tutti i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Per tale motivo, non si considerano in alcun caso abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extra-fiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente.

La norma di cui all’art. 10-bis Legge 212/2000 sanziona le operazioni abusive, in quanto prive di sostanza economica, mediante la loro inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, che può disconoscerne i vantaggi, determinando i tributi in base alle norme e ai principi elusi, detratto quanto eventualmente già versato dal contribuente per effetto di tali operazioni.

E’ in ogni caso fatta salva la libertà di scelta del contribuente tra i diversi regimi opzionali offerti dalla legge e tra operazioni che comportino un diverso carico fiscale.

Per ciò che concerne l’onere della prova, all’Amministrazione finanziaria spetta la dimostrazione della sussistenza della condotta abusiva, che in nessun caso è rilevabile d’ufficio dal giudice tributario. A tal fine, l’Amministrazione può avvalersi di appositi “indici di mancanza di sostanza economica”, normativamente tipizzati, quali la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.

Sul contribuente grava invece l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extra-fiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale della sua impresa o della sua attività professionale.

Poiché l’applicazione della norma implica la soluzione di questioni interpretative di natura complessa, è in ogni caso necessario a pena di nullità, a prescindere dalle modalità di accertamento (che può avvenire anche “a tavolino”), la preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente, ai sensi dell’art. 10-bis, comma 6, Legge 212/2000.

Il coinvolgimento del contribuente è in ogni caso necessario, in quanto egli è il solo soggetto in grado di spiegare le eventuali ragioni extra-fiscali che hanno giustificato l’operazione, e che possono non essere immediatamente percepibili dall’Amministrazione finanziaria.

La necessità del coinvolgimento del contribuente è altresì confermata dal successivo comma 8 della norma, secondo il quale l’atto impositivo deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione anche ai chiarimenti forniti dal contribuente, oltre che in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi e agli indebiti vantaggi fiscali realizzati.

Per tale motivo, il termine dilatorio di sessanta giorni, entro il quale il contribuente può fornire chiarimenti, è posto a garanzia della piena applicazione del principio del contraddittorio procedimentale, che a propria volta costituisce espressione primaria dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, oltre ad essere diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.

La circostanza che, nel caso di specie, l’atto impositivo fosse stato adottato senza la preventiva notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti e senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni dalla notifica di tale atto, determina quindi l’illegittimità dell’atto impositivo adottato.

Neppure può farsi applicazione della sanatoria di cui all’art. 21-octies Legge 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti quando, per la natura vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Nelle fattispecie di abuso del diritto, il disconoscimento degli effetti di negozi effettivamente posti in essere e l’applicazione di un regime tributario più oneroso, in luogo di un altro più vantaggioso, comporta infatti un accertamento di fatto complesso, che richiede necessariamente il coinvolgimento del contribuente e che impedisce di ritenere che il contenuto del provvedimento non avrebbe in ogni caso potuto essere diverso. Ciò anche in applicazione del generale principio secondo cui, in tema di contraddittorio procedimentale, il mancato rispetto da parte dell’Amministrazione finanziaria del termine a chiarimenti per il contribuente determina una violazione del diritto di difesa, non emendabile attraverso la cd. “prova di resistenza” fondata sulla mancata dimostrazione in concreto del pregiudizio effettivo per il destinatario, stante l’inapplicabilità dell’art. 21-octies Legge 241/1990 agli atti impositivi, non vincolati nel quid.

In conclusione, quindi, il ricorso della società contribuente viene accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, l’atto impugnato viene annullato, con affermazione del principio di diritto secondo cui l’art. 10-bis, comma 6, Legge 212/2000 esige sempre, a pena di nullità, una previa richiesta di chiarimenti al contribuente, qualunque sia la forma dell’accertamento (e dunque, anche in caso di accertamento “a tavolino”), poiché solo il contribuente è in grado di spiegare le eventuali ragioni extra-fiscali che hanno giustificato l’atto o l’operazione negoziale, e che non sono immediatamente percepibili dall’Amministrazione finanziaria.

Dott.ssa Cecilia Domenichini

Unicusano- Roma