Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Piacenza, sez. II, 1° luglio 2024 n. 93
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI PRIMO GRADO DI PIACENZA
SECONDA SEZIONE
riunita in udienza il 01/07/2024 alle ore 09:30 con la seguente composizione collegiale:
MORLINI GIANLUIGI, – Presidente e Relatore
FAZIO ANTONINO, – Giudice
ROVERO ROBERTO, – Giudice
in data 01/07/2024 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
– sul ricorso n. 103/2024 depositato il 06/05/2024
proposto da (…) Difeso da ………. Rappresentato da (…) ed elettivamente domiciliato presso …………@pec.it
contro
Ag. Entrate Direzione Provinciale Di Piacenza, elettivamente domiciliato presso [email protected]
Avente ad oggetto l’impugnazione di:
– AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IVA-ALTRO 2015
a seguito di discussione in pubblica udienza e visto il dispositivo n. 22/2024 depositato il 01/07/2024
Svolgimento del processo
Promuovendo la presente procedura, R. s.r.l. impugna una intimazione di pagamento notificatagli per l’importo di Euro 971.303,75 sulla base di una pronuncia di questa CGT, non appellata e divenuta esecutiva, che con sentenza n. 115/2022 aveva rigettato l’impugnazione di R. stessa avverso una cartella di pagamento.
In particolare, solleva il ricorrente cinque diversi profili di contestazione, relativi al fatto che la sentenza sarebbe stata oggetto di istanza di revocazione, ciò che imporrebbe la sospensione del presente giudizio in attesa dell’esito di tale gravame; che comunque l’avvenuta presentazione della domanda di revocazione consentirebbe la riscossione solo frazionata del tributo; che in ogni caso non sarebbe chiaro l’iter che ha portato alla quantificazione della somma richiesta per imposte e sanzioni; che inoltre l’atto impugnato sarebbe nullo per difetto di motivazione, non essendo allegata la citata sentenza della CGT Piacenza n. 115/2022; che parimenti la nullità dell’intimazione di pagamento deriverebbe dalla pretesa mancanza di firma da parte del capo dell’Ufficio o di un suo delegato.
Costituendosi in giudizio, resiste l’Agenzia delle Entrate, ex aliis negando sia stato mai promosso un procedimento di revocazione come invece ex adverso sostenuto.
Alla prima udienza, fissata direttamente per l’esame del merito, è comparsa solo la difesa dell’Ufficio, mentre, nonostante la rituale comunicazione, non è comparsa né in presenza né da remoto la difesa del contribuente.
La causa è stata allora discussa e decisa col dispositivo che segue.
Motivi della decisione
- a) L’impugnazione è manifestamente e radicalmente infondata sotto tutti e cinque i profili proposti ed indicati in parte narrativa.
In particolare, con i primi due motivi si chiede la sospensione del giudizio e si contesta la procedura di riscossione integrale e non frazionata, in ragione della pretesa proposizione di un giudizio di revocazione della sentenza posta a base dell’intimazione di pagamento.
Ciò detto, è facile replicare che il ricorrente non ha in alcun modo provato di avere mai proposto la procedura di revocazione; l’Agenzia delle Entrate ha confermato nei propri atti di non essere mai stata evocata in giudizio in una tale procedura; effettivamente non risulta pendente presso l’intestata Corte di Giustizia, Ufficio giudiziario competente a conoscere la causa di revocazione su una propria pronuncia passata in giudicato, alcun procedimento di revocazione della sentenza di cui trattasi.
Tanto basta al rigetto dei due motivi, rimanendo assorbito ogni ulteriore profilo di merito in ordine al fatto che l’eventuale effettiva proposizione di una domanda di revocazione avrebbe o meno imposto la sospensione della presente procedura e della riscossione, così come opinato.
Infondato è anche il terzo motivo, relativo alla quantificazione della somma oggetto di intimazione di pagamento: è infatti facile replicare che, a seguito del rigetto dell’impugnazione della cartella con sentenza passata in giudicato, l’intimazione ha ovviamente riguardato l’intera somma indicata nella cartella, e quindi anche l’ultimo terzo dell’imposta; ed è comunque allegato un prospetto con l’indicazione delle somme dovute a titolo di tributi, sanzioni ed interessi (cfr. all. 5 fascicolo di parte convenuta).
Infondato è poi anche il quarto motivo, relativo al supposto difetto di motivazione per mancata allegazione della sentenza di rigetto dell’impugnazione della cartella citata nell’intimazione.
In proposito, è appena il caso di evidenziare che, alla stregua dei pacifici princìpi generali, l’atto tributario è correttamente motivato per relationem se gli atti citati sono riprodotti nelle sue parti essenziali o se già in possesso del contribuente per conoscenza fattuale o legale; e nel caso di specie l’attuale ricorrente era perfettamente a conoscenza della sentenza di rigetto della sua impugnazione, per l’assorbente rilievo che era attore in tale giudizio e la sentenza era stata ritualmente comunicata dalla cancelleria (cfr. all. 6 fascicolo di parte convenuta).
Manifestamente infondato, già sotto il profilo fattuale, è anche il quinto ed ultimo motivo, relativo alla pretesa nullità dell’intimazione per difetto di firma: una semplice analisi testuale dell’atto consente di verificare che è invece presente la firma digitale del capo dell’ufficio legale, e ciò a seguito di rituale delega del direttore (cfr. all. 7 fascicolo di parte convenuta).
In ragione quindi di tutto quanto sopra, il ricorso va integralmente rigettato.
- b) Non vi sono motivi per derogare ai princìpi generali codificati dall’articolo 15Lgs. n. 546 del 1992in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 147 del 2022, sono quindi poste a carico del soccombente contribuente ricorrente ed a favore del vittorioso Ufficio convenuto, in aderenza alla nota spese presentata e tenendo a mente un valore prossimo a quelli medi nell’ambito dello scaglione entro il quale è racchiuso il decisum di causa, e con la riduzione del 20% prevista dall’articolo 15 comma 2 sexies D.Lgs. n. 546 del 1992, essendo il vittorioso Ufficio difeso da un funzionario.
- c) Infine, va evidenziata la oggettiva e palese temerarietà dell’impugnazione, comprovata dalla mendace asserzione di avere proposto un ricorso per revocazione, ciò che integra una non veritiera attestazione di un fatto storico nella piena percepibilità della parte; dalla manifesta e radicale infondatezza delle argomentazioni giuridiche sviluppate in tema di quantificazione delle somme oggetto di pagamento e asserito difetto di motivazione; dall’eccezione di mancanza di firma relativamente ad un documento chiaramente ed inequivocabilmente firmato, così comprovando che l’impugnazione è stata svolta in modo meccanico e con eccezioni standardizzate, senza alcuna aderenza alla situazione concreta oggetto di causa.
Tale temerarietà deve essere sanzionata con la condanna d’ufficio ex articolo 96 comma 3 c.p.c., norma che s’applica al processo tributario stante l’attuale espressa previsione dell’articolo 15 comma 2 bis D.Lgs. n. 546 del 1992 e così come anche in precedenza ritenuto possibile dalla stessa Suprema Corte a Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. Un. n. 13899/2013), equitativamente indicando l’importo di tale condanna in una somma pari a quella relativa alle spese di lite (cfr. Cass. n. 21570/2012 per la legittimità, congruità e ragionevolezza, di una pronuncia di condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c., anche ad una somma pari al triplo delle spese di lite).
Nonostante la questione sia opinabile e non si siano rinvenute pronunce edite in materia, si ritiene di non dovere procedere all’irrogazione dell’ulteriore sanzione alla cassa delle ammende ex art. 96 comma 4 c.p.c.
Infatti, è ben vero che tale sanzione nella previsione processsualcivilistica accede automaticamente ed ex lege all’avvenuta condanna ai sensi del terzo comma (“nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì”), e che ai sensi dell’articolo 1 comma 2 D.Lgs. n. 546 del 1992 nel contenzioso tributario si applicano le norme del codice di procedura civile se compatibili e per quanto “non disposto” dal decreto 546/992.
Tuttavia, è altrettanto vero che il Legislatore, con l’articolo 15 comma 2 bis D.Lgs. n. 546 del 1992, ha espressamente esteso al processo tributario le previsioni dei (soli) commi primo e terzo dell’articolo 96 c.p.c.; che manca l’estensione relativamente al secondo ed al quarto comma; che in particolare, allorquando il quarto comma è stato aggiunto all’articolo 96 c.p.c. a seguito della cd. riforma Cartabia mediante il D.Lgs. n. 149 del 2022, il Legislatore ha ritenuto di non integrare la previsione del citato articolo 15 comma 2 bis.
Pertanto, dovendosi presumere la coerenza dell’intervento legislativo alla stregua del noto brocardo per cui ‘ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit’; dovendosi conseguentemente evidenziare che, con l’intervento legislativo del 2022, il Legislatore ha introdotto la previsione della condanna al pagamento di una somma alla cassa delle ammende inserendo l’articolo 96 comma 4 c.p.c. con riferimento al rito processualcivilistico, ma non ha contestualmente modificato l’articolo 15 comma 2 bis del D.Lgs. n. 546 del 1992 che estende al processo tributario altri commi dell’articolo 96; dovendosi quindi concludere che, così facendo, il Legislatore ha inteso diversamente disciplinare la materia delle spese per lite temeraria tra processo civile e processo tributario, ciò che esclude l’applicabilità del rinvio alla materia civilistica di cui all’articolo 1 comma 2 D.Lgs. n. 546 del 1992, non potendosi opinare che il Legislatore abbia “non disposto” con riferimento alla materia tributaria; per questi motivi, si ritiene di non procedere, in aggiunta alla condanna ex articolo 96 comma 3 c.p.c., anche alla condanna ex articolo 96 comma 4 c.p.c.
P.Q.M.
la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Piacenza sez. II
– rigetta il ricorso;
– condanna R. s.r.l. a rifondere a Agenzia delle Entrate le spese di lite del presente giudizio, che (…) liquida in Euro 11.500 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie come per legge;
– condanna R. s.r.l. a pagare ex articolo 96 comma 3 c.p.c. a Agenzia delle Entrate Euro 11.500.
Piacenza, il 1° luglio 2024.
COMMENTO REDAZIONALE– La pronuncia in commento respinge tutti i motivi di ricorso proposti dalla società contribuente e condanna la stessa non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche al risarcimento del danno per “lite temeraria” (art. 96, comma 3, c.p.c.), stante in particolare la mendace asserzione di avere proposto un ricorso per revocazione del quale non vi era alcuna prova in atti.
La sentenza affronta quindi la problematica dell’applicabilità al processo tributario del “nuovo” comma 4 dell’art. 96 c.p.c., inserito dalla cd. “riforma Cartabia” (D.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, art. 3, comma 6).
In base alla predetta norma, nel caso di condanna al risarcimento del danno per “lite temeraria” (art. 96, commi 1, 2 e 3, c.p.c.), il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000.
Nonostante tale sanzione discenda automaticamente dalla condanna al risarcimento del danno per “lite temeraria” ex art. 96, comma 3, c.p.c. e nonostante l’art. 1, comma 2, D.lgs. 546/1992 preveda per il rito tributario un generale rinvio alle norme processual-civilistiche, nei limiti della compatibilità e in quanto non derogate, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Piacenza esclude l’ulteriore condanna della ricorrente ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.c.
L’art. 15, comma 2-bis, D.lgs. 546/1992 rinvia infatti ai soli commi 1 e 3 dell’art. 96 c.p.c., mentre non contiene alcun richiamo ai commi 2 e 4: pertanto, in base al principio secondo cui “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, deve ritenersi che, laddove il Legislatore avesse voluto rendere applicabile al rito tributario la previsione sanzionatoria di cui all’art. 96, comma 4, c.p.c., avrebbe modificato l’art. 15, comma 2-bis, D.lgs. 546/1992, inserendovi il riferimento a tale comma.
La circostanza che ciò non sia avvenuto è significativa del fatto che il Legislatore abbia inteso regolare la materia delle spese processuali in maniera parzialmente diversa tra il rito civile e quello tributario, riservando solo al primo l’ulteriore previsione sanzionatoria di cui all’art. 96, comma 4, c.p.c.