Cass. Civ., Sez. V, Sent. 22 aprile 2021, n. 10656


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10251-2013 proposto da:

R.M., elettivamente domiciliata in …, presso lo studio dell’avvocato …, che la rappresenta e difende giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 30/2012 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. LOMBARDIA, depositata il 02/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2020 dal Consigliere Dott. SALVATORE SAIJA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE GIOVANNI che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato … per delega dell’avvocato … che ha chiesto l’accoglimento e insiste sul I e III motivo.

Svolgimento del processo

R.M. – acquirente di un immobile ad uso abitativo sito in (OMISSIS) in forza di atto pubblico del (OMISSIS), registrato il (OMISSIS) – propose ricorso avverso l’avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni notificatole il 18.10.2008, con cui si recuperava a tassazione il maggior importo per IVA, sanzioni ed interessi, stanti l’accertata caratteristica di abitazione di lusso di detto immobile, e la non riconoscibilità dell’aliquota di IVA agevolata al 4%. L’adita C.T.P. di Bergamo respinse il ricorso con sentenza n. 80/09/09, rilevando tra l’altro che, alla luce della documentazione acquisita, risultava confermata la caratteristica di abitazione di lusso dell’immobile in discorso. La C.T.R. della Lombardia, sez. st. di Brescia, respinse l’appello della contribuente con sentenza n. 30/68/12 del 2.3.2012, confermando la prima decisione. Osservò in particolare il giudice d’appello che la normativa invocata dalla R. (D.M. n. 801 del 1977) non era applicabile alla fattispecie, regolata dal D.M. 2 agosto 1969, art. 6, che solo fa riferimento – ai fini che interessano – al concetto di “superficie utile”, che non può assimilarsi a quello di “superficie abitabile”.

R.M. ricorre ora per cassazione, sulla base di nove motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Su disposizione del Presidente del Collegio, la Corte si è riconvocata in camera di consiglio, da remoto, in data 29 marzo 2021.

Motivi della decisione

1.1 – Con il primo motivo, si denuncia omessa motivazione per radicale mancanza di esame dei documenti prodotti in giudizio circa l’effettiva estensione dell’immobile, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 La ricorrente si duole della totale obliterazione dell’esame dei documenti da essa prodotti – quali la scheda presentata al Comune di (OMISSIS) per l’abitabilità, la dichiarazione di classamento (DOCFA) e la proposta di rendita catastale, la visura catastale, la perizia di stima, lo stralcio del regolamento comunale – documenti tutti che attestavano l’erroneità della ripresa fiscale, basata sull’infondato presupposto che l’immobile abbia un’estensione di mq. 349,64 (e quindi superiore a mq. 240, con conseguente acquisizione della caratteristica “di lusso”), anziché, come indicato nel rogito, di mq. 196,55.

1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, e del D.M. 2 agosto 1969, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente lamenta l’erroneità della statuizione circa il possesso, da parte del fabbricato in discorso, delle caratteristiche “di lusso”, essendosi erroneamente tenuto conto anche di quelle porzioni dell’immobile non destinate a fini abitativi (quali il portico, il piano cantinato, ecc.) e, dunque, non facenti parte della superficie “utile” (da determinarsi anche in funzione della disciplina dettata, seppur ad altri fini, dal D.M. n. 801 del 1977) ai fini del riconoscimento della spettanza dell’aliquota di IVA agevolata.

1.3 – Con il terzo motivo, si denuncia la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo alla non chiara distinzione operata dal giudice d’appello riguardo al concetto di “superficie utile” e quello di “superficie abitabile”.

1.4 – Con il quarto motivo, si lamenta l’apparenza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo all’effettivo superamento dei limiti di legge ai fini della decadenza dal beneficio, profilo che sarebbe rimasto assolutamente indimostrato dal fisco, essendo stata anche omessa ogni valutazione circa il metodo di calcolo adottato ai fini della rideterminazione dell’estensione dell’immobile.

1.5 – Con il quinto motivo, si denuncia omessa motivazione sulla insussistenza di obiettive condizioni di incertezza che giustificherebbero la disapplicazione delle sanzioni irrogate, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

1.6 – Con il sesto motivo, si lamenta omessa pronuncia circa il motivo d’appello inerente all’insussistenza della motivazione dell’avviso di liquidazione impugnato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

1.7 – Con il settimo motivo, si lamenta l’apparenza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo alla ritenuta infondatezza della questione dedotta circa la carenza di potere dell’Ufficio, in considerazione del fatto che nessuna dichiarazione mendace era stata resa da essa ricorrente.5 1.8 – Con l’ottavo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 3 (rectius, dell’art. 21, par. 1, lett. a), terzo periodo) della Dir. 77/388/CEE (Sesta Direttiva) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la C.T.R. legittimato, nella sostanza, una nuova forma di solidarietà ai fini IVA tra acquirente e venditore, non prevista dalla legge nazionale, benchè analoga a quella di cui all’art. 60-bis, comma 3-bis, cit., e ciò tenuto conto che, nella specie, la pretesa violazione è esclusivamente imputabile al cedente-professionista, il solo onerato ad annotare, nella fattura, la caratteristica di abitazione non di lusso del bene compravenduto.

1.9 – Con il nono motivo, infine, si lamenta l’insufficienza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo alla ritenuta infondatezza della dedotta violazione della normativa comunitaria.

2.1 – Il primo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Anzitutto, deve rilevarsi che, laddove si censura l’omesso esame dei documenti prodotti, la doglianza attiene propriamente al tema della valutazione delle prove offerte e del libero convincimento del giudice, ex artt. 115 e 116 c.p.c., tuttavia denunciabile in sede di legittimità entro ben precisi limiti (v. Cass. n. 27000/2016; Cass. n. 1229/2019), nella specie non rispettati, donde l’inammissibilità.

Sotto altro versante, si osserva che la C.T.R. ha seguito un percorso motivazionale – basato sulla portata del D.M. 2 agosto 1969, art. 6 – che tendenzialmente esclude la rilevanza degli argomenti (e dei relativi documenti a supporto) esposti dalla ricorrente, secondo cui la sola superficie “utile” da valutare sarebbe quella “abitabile”. Non può dunque riscontrarsi il denunciato vizio di omessa motivazione, perché è noto che il giudice non è tenuto a confutare ogni elemento istruttorio, ovvero ogni allegazione o argomento offerti dalla parte, se logicamente incompatibili con il convincimento formatosi sulla base di altri elementi istruttori o con le stesse ragioni della decisione (si vedano, ex plurimis, Cass. n. 25509/2014, Cass. n. 16467/2017).

3.1 – Il secondo motivo è infondato.

Risulta dagli atti che l’immobile per cui è processo, così come denunciato in sede di accatastamento (v. ricorso, pp. 2-3, 31-33), è esteso mq. 196,55 quale “superficie residenziale” e mq. 249,55 quale “superficie non residenziale”, in essa ultima ricompresa anche l’estensione di un “locale hobby” posto al piano cantinato, della superficie di mq. 143,5.

La C.T.R. lombarda, alla luce del disposto del D.M. 2 agosto 1969, art. 6 – secondo cui sono considerate abitazioni di lusso “le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq. 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e il posto macchina)” – ha ritenuto che la pretesa della R. di escludere dal calcolo l’intero piano cantinato, ai fini del riconoscimento dell’IVA agevolata al 4%, secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, e richiamata dallo stesso D.P.R., art. 16, fosse destituita di fondamento, non essendo condivisibile (anche per ragioni di interpretazione della norma secondo il canone logico, come meglio si dirà tra breve) l’assunto per cui la superficie “utile” complessiva equivale alla superficie “abitabile”.

Detta ultima tesi è stata riproposta dalla ricorrente in sede di legittimità, ma è del tutto destituita di fondamento, come correttamente ritenuto dal giudice d’appello.

Al riguardo, a parte la considerazione che la corrispondenza biunivoca invocata dalla stessa ricorrente (superficie utile=superficie abitabile) non è affatto evincibile dalla giurisprudenza dalla stessa richiamata (Cass. n. 6466/1985; Cass. n. 14672/2005), va qui rilevato che la questione che occupa è stata recentemente affrontata da questa Corte in un caso similare (benché afferente all’imposta di registro), con l’affermazione del principio secondo cui “per stabilire se una abitazione sia di lusso e, quindi, sia esclusa dall’agevolazione per l’acquisto della “prima casa”, di cui al D.P.R. n. 131 del 1986 Tariffa allegata, parte prima, art. 1, comma 3, occorre fare riferimento alla nozione di “superficie utile complessiva” di cui al D.M. Lavori Pubblici 2 agosto 1969, art. 6, in forza del quale è irrilevante il requisito dell’abitabilità dell’immobile, siccome da esso non richiamato, mentre quello dell”utilizzabilità degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità, costituisce parametro idoneo ad esprimere il carattere “lussuoso” di una abitazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto computabile, ai fini della determinazione della superficie utile, un locale seminterrato, ed ha altresì negato che quest’ultimo potesse essere ricondotto nel concetto di “cantina”, atteso che tale tipologia di locale, per legge esclusa dal computo della superficie utile, si connota per una specifica destinazione, con conseguente impossibilità di ricomprendervi anche locali con caratteristiche e destinazione del tutto diverse)” (così, Cass. n. 10191/2016; si vedano, anche, nello stesso senso, Cass., n. 8421/2017, Cass., n. 8409/2019, Cass. n. 19186/2019 e Cass. n. 33896/2019). In sostanza, come correttamente rilevato dalla stessa Cass. n. 33896/2019 da ultimo citata (in motivazione), “ciò che assume rilievo – in coerenza con l’apprezzamento dello stesso mercato immobiliare – è la marcata potenzialità abitativa del bene (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 19186 del 17/07/2019; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 25674 del 15/11/2013) e, più precisamente, l’idoneità di fatto degli ambienti allo svolgimento di attività proprie della vita quotidiana (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 23591 del 20/12/2012)”.

Ebbene, il ricorso in esame non offre argomenti per diversamente opinare, sul punto, sicché occorre dare continuità ai suddetti principi, senz’altro parimenti desumibili dal combinato disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 16, Tabella A, parte seconda, n. 21, allegata al detto D.P.R. e del D.M. 2 agosto 1969, art. 6, presupposto del riconoscimento dell’IVA agevolata al 4% essendo, dunque, che l’abitazione compravenduta non sia “di lusso”, nell’accezione prima riportata. Va peraltro precisato che, per effetto della modifica apportata alla detta Tabella dal D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 33, tale requisito più non occorre ai fini del riconoscimento dell’aliquota in discorso, solo necessitando che – a far data dal 13.12.2014 – l’immobile non ricada nella categoria catastale A/1, A/8 o A/9 (si veda, al riguardo, la Circ. Agenzia Entrate n. 2/E del 2014).

La decisione impugnata, in definitiva, non è censurabile sul punto, avendo correttamente applicato alla fattispecie il dato normativo vigente ratione temporis, e dovendo anche escludersi che la nuova disciplina possa spiegare effetti sul piano della debenza della differenza d’imposta, in relazione alle fattispecie realizzatesi precedentemente al 13.12.2014 (sul punto, si veda amplius il par. 11.1).

4.1 – Anche il terzo motivo è infondato.

Infatti, nell’esaminare la portata del D.M. 2 agosto 1969, art. 6, la C.T.R. ha evidenziato che – ove la norma avesse inteso equiparare il concetto di superficie “utile” e quello di superficie “abitabile”, considerando l’uno sinonimo dell’altro – non vi sarebbe stata necessità di escludere esplicitamente dal computo quegli spazi (quali i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e il posto macchina) che certamente sono non abitabili. Da ciò il giudice d’appello ha desunto che, lungi dall’aver adottato la corrispondenza invocata dalla R., la norma secondaria non ha inteso escludere dalla superficie utile – ai fini della sussistenza della caratteristica “di lusso” dell’unità immobiliare – anche altri spazi (diversi da quelli esplicitamente indicati dallo stesso art. 6), benché non abitabili.

Contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, dunque, in tale percorso argomentativo non è riscontrabile alcuna contraddittorietà motivazionale, trattandosi invece della esplicitazione del canone interpretativo logico di una norma giuridica, pure previsto dall’art. 12 preleggi.

5.1 – Stessa sorte segue anche il quarto motivo.

L’intera controversia verte sulla ricomprensione o meno – nell’ambito del computo della superficie dell’immobile, ai fini del riconoscimento dell’agevolazione per l’acquisto della “prima casa” – del piano cantinato, ed in particolare del “locale hobby”, esteso mq. 143,5, che nella prospettiva dell’Agenzia, sommato a quella sola area che la R. ritiene computabile (ossia, in tesi, quella “abitabile”), determina inequivocabilmente il superamento del limite di mq. 240 previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, combinato disposto della Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, e del D.M. 2 agosto 1969, art. 6.

Questa essendo la situazione fattuale posta all’esame della C.T.R. (esplicitamente considerata dal giudice di prime cure ed indiscutibilmente ben presente allo stesso giudice d’appello, che ne dà conto nella parte espositiva della sentenza), ogni questione al riguardo non può che essere stata conseguentemente definita, evidente essendo che nel ritenere infondato il gravame e nel confermare la prima decisione – per essersi ritenuto che, al lume del D.M. cit., art. 6, il concetto di superficie utile non coincide con quello di superficie abitabile, contrariamente a quanto sostenuto dalla R. – non può non essersi fatto riferimento (in primis, sul piano logico) alla corrispondente valutazione del primo giudice circa il superamento del limite di mq. 240, onde ritenere che l’immobile acquistato dalla stessa R. avesse le caratteristiche “di lusso” e non potesse dunque beneficiare dell’agevolazione per cui è processo.

6.1 – Parimenti infondato è il quinto motivo.

La disposizione del D.M. 2 agosto 196, art. 6, non reca alcuna incertezza interpretativa, come correttamente evidenziato dalla C.T.R., che – seppur succintamente – ha comunque motivato sulla domanda della contribuente circa la disapplicazione delle sanzioni: nessuna omissione può al riguardo configurarsi. Sul trattamento sanzionatorio, si ritornerà comunque al par. 11.1. 7.1 – Ancora infondato è, poi, il sesto motivo.

Riguardo alla questione del preteso difetto di motivazione dell’atto impugnato, non si assiste affatto ad una “radicale assenza di pronuncia su tali questioni”, come pretenderebbe la ricorrente, bensì all’affermazione da parte della C.T.R. della insussistenza del vizio denunciato, “posto che l’atto originariamente impugnato ben soddisfa l’obbligo motivazionale previsto per legge”.

Pertanto, non può configurarsi l’omissione di pronuncia denunciata dalla stessa ricorrente, potendo al più discutersi di un insufficiente esame delle argomentazioni proposte con l’appello, profilo tuttavia non adeguatamente censurato sul punto (v. da ultimo Cass. n. 5730/2020).

8.1 – Il settimo motivo è inammissibile.

Avuto riguardo alle contestate caratteristiche oggettive dell’immobile compravenduto, la C.T.R. ha dapprima evidenziato che sussiste, anzitutto, il potere del fisco di recuperare la differenza d’imposta presso l’acquirente, giacchè il responsabile della dichiarazione mendace circa le dette caratteristiche è non solo il venditore, ma l’acquirente stesso, che è anche il principale destinatario del beneficio fiscale revocato; ed ha poi chiosato – nel delibare la questione della pretesa violazione del diritto comunitario, su cui infra – nel senso che la stessa revoca è “conseguenza anche del comportamento dell’acquirente, per via della mendace dichiarazione di quest’ultimo di trovarsi in una delle situazioni in cui la legge attribuisce i benefici fiscali in parola”.

Ora, a fronte del superiore percorso argomentativo della C.T.R., che non può avere altro significato se non quello per cui – inequivocabilmente – nella vicenda sottoposta al suo esame, la R. s’è resa autrice della dichiarazione circa il possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge per godere del beneficio per l’acquisto della “prima casa”, compreso quello inerente il presupposto “oggettivo”, è evidente che il motivo in discorso – con cui si pretende di espungere dal “contenuto minimo” della dichiarazione dell’acquirente proprio il presupposto “oggettivo”, ossia il non avere l’immobile le caratteristiche “di lusso” ai sensi del D.M. 2 agosto 1969, giacché la precisazione deve essere annotata sulla fattura dal venditore – è inammissibile per difetto di specificità, essendo prospettato in termini di astrattezza e non già con dettagliato riguardo al caso concreto. Infatti, anche a prescindere da quanto si dirà sulla specifica questione (v. infra, par. 10.10), e fatto salvo quanto riportato in ricorso (pp, 5 e 6) circa il preteso “contenuto minimo” della dichiarazione, manca in realtà ogni riferimento alle dichiarazioni negoziali che la R. rese in proposito ed effettivamente – nell’ambito del rogito notarile del (OMISSIS), così come ne difetta (ai fini della sufficiente esposizione dei fatti, sostanziali e processuali) la sua trascrizione o, almeno, un suo sunto. Insomma, nella proposizione del motivo in esame, la ricorrente incorre ad un tempo nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, donde l’inammissibilità della censura.

9.1 – Il nono motivo, che per comodità può esaminarsi prima dell’ottavo, è anch’esso infondato.

Infatti, la C.T.R. ha affermato l’insussistenza di alcuna violazione della Sesta Direttiva, come pure prospettato dalla R., in quanto nella specie non si tratta di addebitare solidalmente al cessionario l’eccedenza d’imposta per errori di fatturazione del cedente, bensì di recuperare l’imposta stessa a seguito della revoca dei benefici fiscali, anche come conseguenza della dichiarazione mendace dell’acquirente circa la ricorrenza di tutti i presupposti ed i requisiti previsti dalla legge per il riconoscimento dei benefici stessi. Il che è quanto previsto dal D.P.R. n. 131 del 1986 (TUR), Tariffa allegata, parte prima, nota II-bis, art. 1, comma 4, benchè non esplicitamente richiamato dal giudice d’appello.

Pertanto, quanto precede consente comunque di escludere con certezza la sussistenza del lamentato vizio motivazionale, avendo sufficientemente spiegato la C.T.R. le ragioni – fondate o infondate che siano, qui ovviamente non rileva – per cui, nella specie, sussiste il potere del fisco di recuperare l’accertata eccedenza d’imposta presso il cessionario, senza peraltro creare forme di solidarietà passiva.

10.1 – La questione posta dall’ottavo motivo, circa la pretesa violazione della normativa comunitaria in tema di IVA, nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60-bis, impone anzitutto di circoscrivere l’esame del mezzo rispetto al testo della Sesta Direttiva ante modifica del 2006 (l’atto di compravendita per cui è causa è stato rogato il 29.3.2006 e registrato il 31.3.2006, mentre la Dir. 2006/112/CE, c.d. “rifusione”, è entrata in vigore in data 1.1.2007); in particolare, il testo della Sesta Direttiva, art. 21, par. 1, lett. a), terzo periodo, così recita: “Gli Stati membri possono altresì prevedere che una persona diversa dal soggetto passivo sia tenuta in solido al versamento dell’imposta”.

Ora, nella prospettazione della ricorrente, l’Ufficio avrebbe nella sostanza coniato una ulteriore forma di solidarietà passiva ai fini IVA, per un caso non espressamente previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60-bis (che disciplina la solidarietà del cessionario, in via generale), ed in particolare modellato sul disposto del comma 3-bis (introdotto dalla L. n. 244 del 2007), concernente la debenza dell’imposta in solido tra cedente e cessionario in caso di sottofatturazione nella vendita immobiliare; tale impostazione, secondo la R., finisce col creare in capo al fisco – in violazione dei principi di tipicità dei poteri e di legalità – un nuovo potere di accertamento non previsto dall’ordinamento (posto che, in forza della citata disposizione della Sesta Direttiva, la previsione della solidarietà di altri soggetti – diversi dal cedente-prestatore – ai fini del versamento dell’IVA, non può che essere espressamente prevista da una specifica norma positiva), anche perché fondato su un presunto mendacio della dichiarazione negoziale in realtà imputabile al solo cedente, dinanzi al quale l’acquirente non avrebbe nessuno strumento per potersi difendere.

10.2 – Ciò posto, deve anzitutto rilevarsi l’inammissibilità della censura concernente la pretesa violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60-bis, giacché – nella prospettazione della ricorrente – detta disposizione sarebbe solo stata solo presa a modello dal fisco per creare (in tesi) una nuova forma di solidarietà, non espressamente prevista: nella sostanza, avuto riguardo alla duplice connotazione del vizio proponibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (si veda Cass. n. 640/2019), non si denuncia nè una violazione dell’art. 60-bis cit., né una sua falsa applicazione da parte della C.T.R., sicché il mezzo è, in parte qua, ultroneo rispetto alla funzione tipica del ricorso per cassazione. E’ noto, infatti, che il giudizio di legittimità è un giudizio impugnatorio a critica vincolata, in cui il ricorrente deve rivolgersi alla Corte individuando uno specifico vizio – che, in tesi, affligge la decisione impugnata – scegliendolo dal novero di quelli elencati dall’art. 360, comma 1, e nel rispetto, tra l’altro, dei requisiti di contenuto-forma di cui agli artt. 365 e 366 c.p.c. Tali elementi, per quanto detto, non possono riscontrarsi nella censura in esame.

10.3 – In realtà, ciò di cui la ricorrente nel complesso si duole è la pretesa assenza di una norma giuridica che abiliti l’Ufficio a recuperare la differenza d’imposta nei confronti dell’acquirente, in un caso in cui – come quello che occupa, nella personale prospettiva della R. – la revoca del beneficio fiscale dipende esclusivamente da un errore (che investe l’accertato carattere “di lusso” dell’immobile) commesso dal solo venditore e nel contesto di una dichiarazione solo a lui ascrivibile. In detta prospettiva, l’errore di giudizio in cui sarebbe incorsa la C.T.R. è l’aver ritenuto corretto l’operato dell’Ufficio, nonostante la violazione della norma comunitaria, che consente sì la solidarietà passiva in ambito IVA, ma solo nei casi espressamente previsti dalla norma interna, che appunto non esiste in relazione al caso per cui è processo.

10.4 – Ciò posto, la censura così interpretata è senz’altro ammissibile, ma è comunque infondata, anche ad estenderne la portata in termini più ampi (v. par. 10.6), sebbene si renda necessaria la correzione della motivazione della decisione impugnata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Invero, per i trasferimenti immobiliari soggetti ad IVA, la fonte normativa che attribuisce al fisco il potere di rettifica, in casi consimili, direttamente nei confronti dell’acquirente va rinvenuta nella disposizione (richiamato D.P.R. n. 633 del 1972, allegata Tabella A, parte seconda, n. 21) dettata dal D.P.R. n. 131 del 1986 (TUR), nota II-bis, Tariffa allegata, parte prima, art. 1, comma 4, secondo periodo, che nel testo introdotto dal D.L. n. 269 del 2003, art. 41-bis, comma 5), conv. in L. n. 326 del 2003 (applicabile ratione temporis), così recita: “Se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonchè irrogare la sanzione amministrativa pari al 30 per cento della differenza medesima”. La disposizione va letta in combinato disposto con quella riportata dal D.P.R. n. 633 del 1972, già citato n. 21, Tabella A allegata, parte seconda, il cui secondo periodo stabilisce che “In caso di dichiarazione mendace nell’atto di acquisto, ovvero di rivendita nel quinquennio dalla data dell’atto, si applicano le disposizioni indicate dalla predetta nota”, ossia quelle della più volte richiamata nota II-bis.

Ora, nell’interpretazione del descritto impianto normativo, data dalla giurisprudenza di questa Corte, è consolidato il convincimento per cui non sussista alcuna solidarietà tra il venditore e l’acquirente dell’immobile, in caso di revoca o decadenza dal beneficio in parola, giacché il sistema italiano, in subiecta materia, individua l’acquirente dell’immobile-persona fisica quale unico soggetto tenuto al pagamento dell’imposta, in misura pari alla differenza tra quella calcolata con l’aliquota di legge e quella indebitamente calcolata con l’aliquota ridotta: ciò in forza di un rapporto diretto tra fisco e cessionario, che viene a crearsi per effetto della sua dichiarazione di volersi avvalere del beneficio “prima casa”.

In proposito, è stato infatti affermato che “In tema d’IVA, nel caso in cui la cessione di un’abitazione di lusso venga assoggettata, usufruendo indebitamente dell’agevolazione per la prima casa, all’IVA con aliquota del 4 per cento ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, disposto n. 21, in luogo di quella ordinaria, l’Ufficio emette l’avviso di liquidazione della maggiore imposta dovuta direttamente nei confronti dell’acquirente dell’immobile medesimo, in quanto l’applicazione dell’aliquota inferiore da parte del venditore è derivata da una dichiarazione mendace dell’acquirente, idonea a far sorgere – ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, tariffa allegata, nota II bis, art. 1, richiamato dal predetto n. 21, ed applicabile a tutte le ipotesi di accertata non spettanza del beneficio fiscale, si tratti d’imposta sul valore aggiunto o d’imposta di registro – un rapporto diretto tra l’acquirente stesso e l’Amministrazione finanziaria” (così Cass. n. 21908/2015; conf., Cass. n. 26259/2010, Cass. n. 10807/2012).

Pertanto, a differenza di quanto previsto nel caso di esecuzione in appalto di opere per la realizzazione di immobili aventi caratteristiche “non di lusso” (in virtù del rinvio operato al D.P.R. n. 633 del 1972, stessa Tabella A allegata, parte seconda, dal n. 21 dal n. 39, nel testo vigente ratione temporis), laddove nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria – ai fini del recupero della differenza d’imposta, in caso di non spettanza del beneficio “prima casa” – rileva la sola posizione dell’appaltatore e non già quella del committente, stante la previsione generale di cui al D.P.R. cit., art. 17 (v. diffusamente, sul punto, la già citata Cass. n. 33896/2019), ove invece la revoca o la decadenza dal beneficio riguardino l’ipotesi della cessione di immobile poi rivelatosi “di lusso”, trova applicazione la regola dettata dalla nota II-bis cit., comma 4, che in deroga allo stesso art. 17, individua l’acquirente-cessionario quale unico soggetto tenuto al pagamento dell’imposta.

In altre parole, si ritiene che, nel caso di revoca dei benefici “prima casa” relativi alla cessione di immobile assoggettabile ad IVA, il fisco può recuperare la differenza d’imposta non già nei confronti del soggetto passivo del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17, ma di un soggetto diverso, ossia il consumatore finale-persona fisica (il quale, se titolare di partita IVA, non può comunque detrarre l’imposta assolta o dovuta in via di rivalsa per l’acquisto di fabbricati ad uso abitativo – ad eccezione di talune ipotesi, che qui non rilevano – stante il disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis 1, lett. i)).

Il punto di arrivo di tale opzione ermeneutica è magistralmente sintetizzato da Cass. n. 3844/2016, che (in motivazione), tanto afferma: “7.6. Con particolare riferimento all’IVA, si è quindi chiarito che l’applicazione dell’aliquota ridotta non costituisce affatto un obbligo del venditore (nè, tanto meno, dell’Ufficio), bensì un diritto soggettivo dell’acquirente, la cui fruizione è subordinata solo alla sua “dichiarazione” (quale contribuente) della sussistenza di tutte le condizioni contemplate dalle norme sull’agevolazione; tale dichiarazione, in ipotesi di ‘cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto impone dunque al venditore di applicare l’aliquota ridotta, non avendo egli – nell’assoluta carenza di una corrispondente previsione normativa – alcun potere giuridico né di contrastare la manifestazione di volontà dell’acquirente di volersi avvalere del beneficio fiscale, né di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il riconoscimento del beneficio medesimo.

7.7. In altri termini, la “dichiarazione” dell’acquirente di voler fruire del beneficio fiscale istituisce un rapporto giuridico diretto ed esclusivo tra l’acquirente stesso e l’amministrazione finanziaria, in ordine al quale non assume nessun rilievo il regime giuridico proprio della specifica imposta, sicché, anche in ipotesi di soggezione dell’atto all’IVA, la (generale) soggettività passiva esclusiva del venditore viene meno, soggiacendo egli all’opzione potestativa dell’acquirente circa il regime agevolato cui assoggettare l’operazione economica. Perciò si spiega la perentorietà del predicato verbale (“deve”) utilizzato dal legislatore nel comma 4 della richiamata nota 2 bis), che impone all’ufficio dell’Agenzia delle entrate, presso cui sono stati registrati i relativi atti, di “recuperare nei confronti degli acquirenti” – non già dei venditori, avendo questi esaurito il rispettivo rapporto tributario assoggettando l’atto all’aliquota ridotta conseguente alla richiesta dell’acquirente – “la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata” nonchè di “irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima””.

10.5 – Così stando le cose, dunque, risulta prima facie evidente come non possa porsi, già in astratto, il problema della denunciata violazione della Sesta Direttiva, art. 21, par. 1, lett. a), terzo periodo, giacché la C.T.R. – nel far riferimento (seppur generico, ossia senza fornire esplicitamente i dati della proprio orizzonte ermeneutico) al descritto sistema interno – ha escluso che nella specie possa discutersi di solidarietà, nella sostanza potendo individuarsi un solo soggetto tenuto al pagamento della differenza d’imposta, ossia il cessionario-acquirente.

10.6 – Piuttosto, la cennata soluzione della questione fornita dal legislatore italiano pone un più generale problema di tenuta della disciplina nazionale rispetto ai dettami della Sesta Direttiva circa la soggettività passiva IVA, il che ben può essere rilevato d’ufficio da questa Corte, in quanto da un lato il diritto comunitario o Eurounitario prevale sul diritto interno (sicché, in caso di contrasto, il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna in favore di quella sovranazionale; si veda, per tutte, Cass. n. 2468/2016), e dall’altro, la verifica della compatibilità tra gli ordinamenti non è condizionata dalla deduzione di uno specifico motivo di ricorso (Cass. n. 6231/2010).

In proposito, vengono in rilievo – per quanto qui interessa – le disposizioni della Sesta Direttiva, art. 4 (“1. Si considera soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. 2. Le attività economiche di cui al paragrafo 1 sono tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle delle professioni liberali o assimilate. Si considera in particolare attività economica un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità”), nonché dello stesso art. 21, par. 1, lett. a), primo periodo, a mente del quale l’imposta è dovuta “dai soggetti passivi che eseguono un’operazione imponibile diversa da quelle previste dall’art. 9, paragrafo 2, lett. e), eseguite da un soggetto passivo residente all’estero”, e ancora lett. c), ove s’individua il debitore IVA in “chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci”.

La disciplina dettata al riguardo dalla Sesta Direttiva, dunque, è assai meno articolata di quella recata dalla Direttiva 2006/112/CE (che si occupa specificamente della soggettività con gli artt. da 9 a 12 e da 193 a 205): il soggetto passivo non può che essere il cedente-prestatore, salve le ipotesi di cui all’art. 9, o del prestatore occasionale, che qui non rilevano. Non a caso, la Corte di Giustizia, 27 settembre 2012, in causa C-587/10, Vogtlandische Straf3en, punto 48, ha affermato che “è incontestabile che tale numero d’identificazione (numero d’identificazione IVA, n. d.e.) sia intrinsecamente connesso allo status di soggetto passivo nell’ambito del regime istituito dalla sesta direttiva”.

Pertanto, la soluzione interpretativa offerta dalla giurisprudenza di questa Corte – che come s’è visto individua quale unico soggetto passivo della maggiore IVA accertata, in caso di revoca del beneficio “prima casa”, il cessionario-persona fisica (comunque privo del diritto di detrazione, anche se titolare di partita IVA) – sembra effettivamente porsi in inevitabile contrasto con la disciplina dettata dalla Sesta Direttiva. Occorre dunque indagare se non sia possibile giungere ad un diverso risultato ermeneutico, almeno nel caso in cui – come quello che occupa – il mendacio sia certamente riferibile ad entrambe le parti contrattuali, come meglio si dirà infra, in caso contrario occorrendo disapplicare tout court la disciplina in discorso.

10.7 – Il punto di partenza dell’indagine non può che prendere le mosse dal piano storico.

L’humus originario del beneficio per l’acquisto della prima casa viene di solito individuato nella L. 2 luglio 1949, n. 408, artt. 13 ss. (c.d. legge Tupini), ma l’agevolazione fu compiutamente disciplinata per la prima volta dalla L. 22 aprile 1982, n. 168, art. 1 (c.d. legge Formica), dapprima fino al 31.12.1983, termine poi più volte prorogato da vari interventi normativi, succedutisi con un significativo grado di caoticità. Finalmente, il D.L. n. 16 del 1993, art. 1, comma 2, conv. in L. n. 75 del 1993, stabilizzò in via definitiva il beneficio fiscale in parola, e il successivo D.L. n. 155 del 1993, art. 16, conv. in L. n. 243 del 1993, provvide ad inserire la relativa disciplina nell’ambito di ciascuna legge d’imposta di riferimento, e quindi in particolare nel Testo Unico dell’imposta di registro, nel Testo Unico IVA, nel Testo Unico sull’imposta ipotecaria e catastale ed infine nelle disposizioni sull’INVIM, che oramai non sono più in vigore.

Per quanto qui in particolare interessa, la sistematizzazione della disciplina sul beneficio “prima casa” è stata ottenuta mediante l’inserimento del D.P.R. n. 131 del 1986 (TUR), Tariffa allegata, parte prima, nota II-bis, art. 1, nonché con la modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21.

10.8 – Ora, in caso di vendita soggetta ad IVA, l’agevolazione per l’acquisto della prima casa è un beneficio c.d. “a fruizione automatica”, e non occorre quindi un atto d’assenso dell’Amministrazione finanziaria, salva l’adozione di provvedimenti di revoca o decadenza, in caso, rispettivamente, di carenza dei requisiti originaria (cioè coeva all’atto di acquisto, il che può essere rilevato già al momento della registrazione dell’atto) o successiva. E’ previsto che, onde goderne, l’acquirente debba dichiarare, nel rogito notarile (ma anche nel contratto preliminare, ove si tratti, appunto, di vendita soggetta ad IVA), di essere in possesso dei requisiti soggettivi ed oggettivi per il godimento del beneficio stesso, tra cui la circostanza che l’immobile ricada nel comune in cui l’acquirente è residente (o in cui egli si impegna a trasferire la residenza entro 18 mesi), che egli non sia titolare di diritti reali su altra casa di abitazione nel medesimo comune, nè in qualsiasi altro comune sito sul territorio nazionale, qualora per l’acquisto di detto immobile abbia già fruito della medesima agevolazione. Il beneficio è però soggetto a revoca in caso di mendacio c.d. “originario”, ovvero a decadenza in caso di mendacio “sopravvenuto” (per l’elaborazione di tali concetti, si veda Cass., Sez. Un., n. 1196/2000) o in caso di alienazione del bene (a titolo oneroso o gratuito) prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto, salvo che non si proceda ad un nuovo acquisto, entro l’anno successivo, di altro immobile da adibire ad abitazione principale.

Soccorre, in caso di revoca o decadenza, il disposto della nota II-bis, comma 4, più volte citata, il cui secondo periodo è stato già supra riportato (v. par. 10.4).

Ciò posto, è però opportuno, ai fini dell’analisi, trascrivere di seguito il testo dell’intero comma 4, come risultante prima della cennata modifica apportata dal D.L. n. 269 del 2003, art. 41-bis, comma 5), conv. in L. n. 326 del 2003: “In caso di dichiarazione mendace o di trasferimento a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, presente articolo, comma 1, quarto periodo, tabella A allegata, parte seconda, nn. 21) e 21-bis) successive modificazioni, prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una soprattassa pari al 30 per cento delle stesse imposte. Se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’ufficio del registro presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti una penalità pari alla differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota aumentata del 30 per cento”.

Come si vede, avuto riguardo alla disciplina previgente alla cennata novella del 2003 (e a ben vedere, sin dall’origine, giacchè disposizione simile era dettata dalla legge Formica, art. 1, comma 6), le regole per la ripresa fiscale sulla differenza d’imposta – si tratti di IVA o di registro – erano sostanzialmente analoghe, in quanto il recupero era affidato all’Ufficio del registro, che però, in caso di vendita soggetta ad IVA, procedeva ad accertare detta differenza d’imposta pur sempre presso l’acquirente, ma a titolo di “penalità”: ciò perchè detto Ufficio, trattandosi di IVA, non era all’epoca legittimato al recupero (spettante all’Ufficio IVA), sicché il legislatore era ricorso all’escamotage della “penalità” per risolvere la questione, sostanzialmente attribuendo alle somme da recuperare la natura di vera e propria sanzione (v. Cass. n. 7163/2007).

Lo scopo della novella del 2003 – che ha esplicitamente attribuito alla differenza IVA, in caso di revoca o decadenza del beneficio “prima casa”, la chiara natura d’imposta -, allora, va ricercato da un lato nell’esigenza di adeguare l’impianto normativo all’istituzione dell’Agenzia delle Entrate, disposta dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57 e al suo subentro al Ministero delle Finanze (stante anche la soppressione di alcuni suoi uffici periferici, quali l’Ufficio del registro e l’Ufficio IVA, a partire dal 1.1.2001), l’Agenzia essendo evidentemente a pieno titolo abilitata al recupero anche dell’IVA (e così non occorrendo più ricorrere al detto escamotage), ma soprattutto nell’esigenza di eliminare una evidente disparità di trattamento tra acquirenti di immobili soggetti all’imposta di registro e quelli di immobili soggetti ad IVA (sul punto, si veda, diffusamente, Cass. n. 19214/2017).

Infatti, l’originaria natura di sanzione attribuita dalla legge alla differenza IVA (definita, appunto, “penalità”) comportava la possibilità per l’acquirente di versare al fisco, in caso di ravvedimento operoso D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 16, soltanto un quarto della differenza stessa (avuto riguardo al testo vigente ratione temporis), mentre quella per il registro andava versata integralmente (trattandosi di imposta tout court), il ravvedimento essendo configurabile solo per la mera sanzione. Non senza dire che, vista la natura afflittiva attribuibile alla “penalità” in discorso, essa poteva andare soggetta alla valutazione di ulteriori elementi ai fini dell’applicazione, quali ad es. quelli soggettivi di cui al stesso D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 6.

10.9 – Il punto, però, è che la ripetuta novella apportata nel 2003 al comma 4 della nota II-bis, pur mossa dal nobile intento di eliminare le aporie di cui s’è detto, sconta ad avviso della Corte un irrisolto problema di fondo, ossia l’impossibilità di trattare in modo identico l’imposta di registro e l’IVA, atteso il funzionamento del tutto diverso dei due tributi. Del resto, che la disciplina riservata all’imposta di registro per l’acquisto della prima casa non possa sic et simpliciter estendersi, in via interpretativa, all’IVA, è sottolineato anche da Cass., Sez. Un., n. 18574/2016, stante la loro ontologica diversità.

10.10 – Occorre poi qui evidenziare che la revoca del beneficio a causa della mancanza delle caratteristiche “non di lusso” dell’immobile compravenduto non deriva affatto, a ben vedere, da una dichiarazione mendace ascrivibile al solo acquirente, ma da un elemento negoziale comune allo stesso venditore, perché attinente all’oggetto del contratto. L’osservazione è stata acutamente prospettata dalla recente Cass. n. 2889/2017, che – seppur in tema di imposta di registro – ha affermato che “In tema di benefici per l’acquisto della prima casa, la revoca dei medesimi comporta la responsabilità solidale del venditore, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 57, comma 1, qualora sia dovuta a circostanze non imputabili in via esclusiva ad un determinato comportamento dell’acquirente, come una dichiarazione mendace sulla sussistenza di presupposti per fruire del trattamento agevolato, ma ad elementi oggettivi del contratto stipulato tra le parti (ad esempio, l’avere l’immobile caratteristiche di lusso)”.

In ogni caso, anche a voler far rientrare la questione delle caratteristiche dell’immobile nell’ambito del mendacio oggettivo “originario” (si veda, ad es. quanto affermato dalla già citata Cass. n. 10807/2012, secondo cui le disposizioni in ordine al recupero della differenza d’imposta regolano “tutte le ipotesi di accertata non spettanza del beneficio fiscale (sia che si tratti di Imposta sul Valore Aggiunto che di imposta di registro) perchè per “dichiarazione mendace” deve intendersi ogni e qualsiasi richiesta di fruizione del beneficio in difetto delle condizioni, soggettive ed oggettive, previste dalla legge”), è di tutta evidenza che entrambe le parti non possono non essere a conoscenza delle specifiche caratteristiche del bene compravenduto.

Pertanto, a prescindere dalla diretta e formale ascrivibilità all’una o all’altra parte della dichiarazione negoziale sulla sussistenza della caratteristica “non di lusso” dell’immobile, ne risulta che – in caso di non spettanza, ed in termini puramente oggettivi – si tratta di un’operazione per la quale è stata richiesta un’agevolazione cui non si aveva diritto, nella piena consapevolezza di ciascuna delle parti contrattuali.

Se, dunque, la debenza della differenza d’IVA in capo all’acquirente trova la sua origine storica nell’evoluzione della disciplina lato sensu sanzionatoria sopra descritta (trattandosi in definitiva dell’espressione di un disvalore, da parte del legislatore, nei confronti del soggetto beneficiario di un’agevolazione fiscale tuttavia non spettantegli, occorrendo ante omnia eliminare le conseguenze del suo comportamento), ciò non toglie l’immanenza del dovere del cedente, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, di emettere la relativa fattura in termini esattamente corrispondenti all’effettiva operazione posta in essere, avuto riguardo ai relativi presupposti, compresi la “natura, qualità e quantità dei beni… oggetto dell’operazione” (lett. g); ciò è tanto vero che, ove venga esposta nella stessa fattura un’imposta inferiore a quella dovuta, il cedente è soggetto alla sanzione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6.

Non può quindi condividersi quella giurisprudenza (v. supra, par. 10.4, e per tutte Cass. n. 3844/2016) che ritiene – in relazione alla caratteristica “non di lusso” dell’immobile – sussistere il mero mendacio unilaterale dell’acquirente, vero essendo di regola proprio la comunanza dell’elemento oggettivo (o se si preferisce, della falsa dichiarazione) col venditore; il quale ultimo, in relazione alle caratteristiche dell’immobile (al contrario di quanto ritenuto dalla stessa giurisprudenza citata) non si trova affatto in posizione di mera soggezione rispetto alla scelta dell’acquirente di volersi avvalere del beneficio fiscale in parola, essendo anzi tenuto ad esporre in fattura l’IVA all’aliquota di legge ed anche in discordanza con detta scelta, e ciò a differenza di quanto può effettivamente dirsi in relazione a tutti gli altri aspetti della dichiarazione di competenza dell’acquirente in seno al rogito (previsti dalla nota II-bis, comma 1, lett. a), b) e c), più volte citata, ciò che la ricorrente ha definito, nel corpo del settimo motivo, “contenuto minimo” della dichiarazione), siano essi di carattere soggettivo od oggettivo.

10.11 – Occorre dunque distinguere, nell’analisi che occupa, tra l’ipotesi in cui il beneficio venga revocato per mancanza delle caratteristiche “oggettive” dell’immobile, e le altre in cui la revoca o la decadenza concernano propriamente il mendacio unilaterale dell’acquirente, sia esso “originario” o “sopravvenuto”, che investa cioè la suddetta dichiarazione.

Per tali ultime evenienze, non v’è dubbio che di regola non possa porsi per il venditore (salvo il caso della collusione, che va ovviamente dimostrata dall’Ufficio) alcun problema circa il contenuto della fattura, che deve riportare l’IVA all’aliquota agevolata del 4%, per come richiesto dall’acquirente. Può anche soggiungersi che, in relazione a tali casi, la questione della soggettività passiva, ove si accerti successivamente la non spettanza dell’agevolazione (ossia, nel caso di vero e proprio mendacio del solo acquirente), resta ovviamente aperta, ma essa non può qui affrontarsi, non rilevando nella fattispecie in esame.

Nel primo caso, invece, deve ritenersi che – ferma la generale soggettività passiva del venditore, del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17 – a questa si aggiunga la coobbligazione gravante sull’acquirente, ai sensi della nota II-bis, comma 4. In altre parole, nel caso considerato, la disposizione in esame non attribuisce la soggettività passiva all’acquirente, ma solo aggiunge la sua responsabilità (per incrementare la garanzia patrimoniale generica del creditore, come ad es. nel caso della responsabilità dei soci di società di persone illimitatamente responsabili, ex art. 2304 c.c., rispetto ai debiti sociali, compresi quelli tributari – si veda, al riguardo, la recente Cass., Sez. Un., n. 28709/2020), a quella pur sempre gravante secondo le regole ordinarie sul cedente, unico soggetto cui parametrare la capacità contributiva, ex art. 53 Cost..

Ove pertanto il fisco accerti la maggiore imposta direttamente nei confronti di quest’ultimo, egli potrà esercitare la rivalsa “successiva” nei confronti del cessionario, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 7, (come modificato dal D.L. n. 1 del 2012, art. 93, comma 1, conv. in L. n. 27 del 2012; per quanto irrilevante ai fini di questa decisione, deve evidenziarsi per completezza che l’originario divieto di rivalsa “successiva” previsto dal previgente art. 60, comma 7, non avrebbe potuto comunque applicarsi – in eventum – alla società dante causa della R., stante la contrarietà della disposizione al principio comunitario di neutralità dell’IVA; è noti, infatti, che la cennata modifica è stata apportata dal legislatore italiano allo scopo di evitare la procedura d’infrazione).

La superiore conclusione, dunque, è sostanzialmente imposta da una interpretazione “eurounitariamente” conforme del disposto della nota II-bis, comma 4, giacchè il ritenere che, nel caso prospettato, si verifichi la definitiva elisione del rapporto pubblicistico tra il cedente-venditore e il fisco, per rilevare esclusivamente il rapporto diretto tra l’acquirente-cessionario e il fisco stesso, si pone in insanabile contrasto con la Sesta Direttiva, art. 4 e art. 21, par. 1, lett. a), primo periodo, e lett. c).

D’altra parte, occorre anche evidenziare che le modalità di recupero diretto nei confronti dell’acquirente, dettate dalla nota II-bis, comma 4, ove applicate all’ipotesi della mancanza di caratteristiche “non di lusso” dell’immobile, non si pongono in contrasto col principio comunitario di neutralità dell’IVA (su cui si vedano, diffusamente, le coeve Cass., Sez. Un., n. 17757 e 17758/2016), giacchè con tale attività l’Amministrazione mira a conseguire integralmente l’imposta evasa, senza che il cedente (che avrebbe dovuto assolverla, quale soggetto passivo) ne tragga alcun beneficio. Ciò che viene in tal caso alterato, invece, è proprio il profilo di responsabilità del cedente in relazione all’illecito tributario, che in tal guisa viene irragionevolmente escluso sia per la fatturazione irregolare D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 21, ma anche – ove il venditore sia anche il costruttore – per aver egli acquistato determinati materiali ad aliquota agevolata, nell’ottica della realizzazione di un’unità immobiliare “non di lusso”, contrariamente al vero (anche per tale ultimo profilo, peraltro, il recupero nei confronti dell’acquirente, con l’applicazione dell’aliquota di legge, finisce con l’escludere ogni rischio di perdita di gettito erariale, giacché la stessa aliquota incide sull’intera base imponibile, che rappresenta il complessivo “valore aggiunto” assoggettabile finalmente ad imposta).

In definitiva, nel caso prospettato, deve ritenersi non sussista alcuna ragione per cui il fisco non possa agire direttamente nei confronti del cedente, sia per il recupero dell’imposta, sia per l’irrogazione delle sanzioni. Al contempo, l’Amministrazione ben può rivolgersi anche nei confronti dell’acquirente, onde recuperare l’IVA evasa, nonchè per irrogare le sanzioni, ut supra. Il pagamento della maggiore IVA accertata da parte di uno dei due coobbligati libera ovviamente l’altro, secondo le regole generali (non potendo certo il fisco conseguire due volte la medesima prestazione), ma se ad adempiere è il cedente, questi potrà esercitare la rivalsa “successiva”, nei termini di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, novellato art. 60, comma 7; non così, naturalmente, ove il pagamento sia effettuato dal cessionario, giacché in tal modo egli resta definitivamente inciso dall’imposta, come per legge (si tratta, nella sostanza, di solidarietà dipendente, su cui si veda in generale, anche per le implicazioni sul piano della riscossione, Cass. n. 13139/2018, dettata in tema di imposta di registro).

10.12 – Tirando le fila del complesso discorso, ha dunque errato la C.T.R. nel ritenere che la R. fosse l’esclusiva obbligata per il pagamento della maggiore IVA accertata, giacché l’Ufficio – negando l’applicabilità del beneficio per difetto delle caratteristiche oggettive dell’immobile, questione certamente comune ad entrambe le parti della compravendita – ben avrebbe potuto recuperare l’imposta anche nei confronti del venditore, quale soggetto passivo. Come già anticipato, però, è al riguardo sufficiente la mera correzione della motivazione, nei termini che precedono, perché il dispositivo di rigetto, sul punto, è conforme alla prescelta opzione ermeneutica, che è a sua volta del tutto in linea con la disciplina dettata dalla Sesta Direttiva (applicabile ratione temporis) in tema di soggettività passiva IVA, che – ai fini che qui interessano – solo non consente possa esservi un unico soggetto tenuto al versamento dell’imposta, diverso dal cedente-prestatore.

Il mezzo in esame è dunque rigettato, potendo al riguardo pronunciarsi il seguente principio di diritto: “In tema d’IVA, nel caso in cui la cessione di un’abitazione di lusso venga assoggettata, usufruendo indebitamente dell’agevolazione per la prima casa, all’IVA con aliquota al 4 per cento ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, parte seconda, allegata Tabella A, n. 21, (nel testo vigente “ratione temporis”), in luogo di quella ordinaria, la revoca del beneficio è dovuta a circostanze non imputabili in via esclusiva ad un determinato comportamento dell’acquirente, come una dichiarazione mendace sulla sussistenza di presupposti per fruire del trattamento agevolato, ma ad elementi oggettivi del contratto stipulato tra le parti, di cui esse sono necessariamente a conoscenza; ne discende che l’Ufficio può emettere l’avviso di liquidazione della maggiore imposta dovuta, irrogando le relative sanzioni, sia nei confronti del cedente, quale soggetto passivo, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17 (e salva la rivalsa successiva, in caso di pagamento, nei limiti di cui allo stesso D.P.R., art. 60, comma 7, come modificato dal D.L. n. 1 del 2012, art. 93, comma 1, conv. in L. n. 27 del 2012), sia nei confronti dell’acquirente dell’immobile medesimo, col prima tenuto quale coobbligato in forza del disposto del D.P.R. n. 131 del 1986, tariffa allegata, nota II-bis, art. 1, richiamato dal predetto n. 21 – norma così “Eurounitariamente” interpretata -, applicabile a tutte le ipotesi di accertata non spettanza del beneficio fiscale”.

11.1 – Ciò posto, il ricorso merita di essere comunque parzialmente accolto, relativamente all’ambito sanzionatorio, occorrendo prendere atto dell’ius superveniens cui si è già fatto cenno supra (v. par. 3.1), peraltro successivo alla proposizione del ricorso, e trarne d’ufficio le conseguenze indefettibili.

In particolare, è noto che, quanto alle caratteristiche oggettive dell’immobile ammesso a fruire dell’agevolazione “prima casa”, il legislatore ha dapprima introdotto un nuovo regime in tema d’imposta di registro, con il D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 10, comma 1, lett. a), sostituendo al D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa allegata, parte prima, art. 1, il comma 2 e così fissando il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso – non ammesso, in quanto tale, al detto beneficio – sulla base dei parametri di cui al D.M. 2 agosto 1969, e ciò a far data dal 1 gennaio 2014.

In forza della disciplina sopravvenuta, l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalla concreta tipologia del bene e dalle sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie (individuate sulla base del suddetto D.M.), bensì dalla circostanza che la casa di abitazione oggetto di trasferimento sia iscritta in categoria catastale A/1, A/8 ovvero A/9 (rispettivamente: abitazioni di tipo signorile; abitazioni in ville; castelli e palazzi con pregi artistici o storici).

Al fine di allineare allo stesso criterio dell’imposta di registro anche l’agevolazione “prima casa” attribuita con aliquota IVA ridotta, il legislatore è poi intervenuto con il D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 33, che, nel modificare il D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, ha espressamente richiamato il medesimo “criterio catastale”; con il risultato che anche l’agevolazione IVA è esclusa (indipendentemente dalla sussistenza di tutti gli altri requisiti) per gli immobili rientranti in una delle suddette categorie, a far data (quanto all’IVA, appunto) dal 13.12.2014.

Fermo dunque restando il pregresso regime impositivo sostanziale, ritiene il Collegio che una soluzione diversa si imponga relativamente all’ambito sanzionatorio, dovendosi dare continuità a quanto stabilito da questa stessa Sezione, ma riguardo all’imposta di registro, con plurime pronunce (in particolare: Cass. n. 13235/2016; Cass. n. 2889/2017; Cass. n. 14964/2018; Cass. n. 2414/2019).

In proposito, si è ritenuto doversi ravvisare i presupposti per l’applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 2, secondo cui, in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, “Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”. La ricorrenza del principio di legalità e di favor rei in materia tributaria – già ampiamente valorizzato, in presenza di sanzioni amministrative di sostanziale valenza penale, anche dalla Carta dei diritti fondamentali UE, dagli art. 49 e dall’art. 7 CEDU – si impone, nella specie, sotto il profilo che tali sanzioni vennero inflitte per avere la contribuente nella sostanza dichiarato (si tenga presente quanto già precisato, sul contenuto della dichiarazione, al par. 10.10) che l’immobile acquistato possedeva, contrariamente al vero, qualità intrinseche “non di lusso” (sempre secondo i sopra richiamati parametri ministeriali), vale a dire, per aver reso una dichiarazione che, per effetto della modifica normativa, oggi non ha più alcuna rilevanza per l’ordinamento. In altri termini, il mendacio contestato – costituente l’espresso fondamento della sanzione, così come stabilito dal combinato disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, e del D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa allegata, parte prima, nota II-bis, art. 1, comma 4, – non potrebbe più realizzarsi, in quanto caduto su un elemento (caratteristiche non di lusso dell’immobile) espunto dalla fattispecie agevolativa. E’ vero che la modifica normativa non ha abolito nè l’imposizione (nella specie individuabile nel recupero a piena tassazione dell’agevolazione indebitamente fruita), nè le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla falsa dichiarazione; tuttavia, è proprio l’oggetto di quest’ultima, costituente elemento normativo della fattispecie, ad essere stato cancellato dall’ordinamento. Tanto che, in base al regime sopravvenuto, l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo ad immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione. Tale circostanza rende del tutto peculiare la presente fattispecie rispetto a quelle con riguardo alle quali è stato affermato che – in difetto di “abolitio criminis” – permane a carico del contribuente tanto l’obbligo del versamento dell’imposta dovuta prima della modificazione normativa, quanto quello sanzionatorio (Cass. n. 25754/14; Cass. n. 25053/06). Va, inoltre, considerato che – secondo il cennato orientamento – ricorre nella specie una situazione di favore per il contribuente ancor più radicale ed evidente di quella (prevista nel D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3) del sopravvenire di un regime sanzionatorio semplicemente più mite, perchè qui non di questo si tratta, ma proprio di riformulazione ex novo della fattispecie legale di non spettanza dell’agevolazione, fondata su un parametro (quello catastale) del tutto differente da quello, precedentemente rinvenibile, fatto oggetto di mendacio. Ne discende che, ferma la potestà dell’Amministrazione finanziaria di revocare l’agevolazione in questione per il solo fatto del carattere “di lusso” rivestito – al momento del trasferimento, e sulla base della disciplina all’epoca applicabile – dall’immobile trasferito, essa non può però applicare le sanzioni conseguenti a comportamenti che, dopo la riforma legislativa, non sono più rilevanti, non certo in quanto tali (false dichiarazioni), ma in quanto riferiti a parametri normativi non più vigenti.

In definitiva, lo ius superveniens impone la dichiarazione di non debenza delle sanzioni applicate con l’atto impugnato dalla R., conclusione che deriva da una scelta interpretativa di favore suscettibile di essere attuata, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, anche in sede di legittimità (Cass. 2010/2018; Cass. n. 1856/2013; Cass. n. 4616/2016; Cass. n. 16679/2016 e Cass. n. 13235/2016). Del resto, stante l’avvenuta contestazione, da parte della contribuente, della legittimità della revoca dell’agevolazione, nonché la stessa proposizione di un motivo concernente le sanzioni (il quinto, seppur per un profilo diverso da quello qui esaminato), è per ciò solo escluso che sulla questione dell’irrogazione delle stesse sanzioni possa essersi formato il giudicato interno.

Può dunque affermarsi, al riguardo, il seguente principio di diritto: “In tema d’IVA ad aliquota agevolata per l’acquisto della prima casa, il D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 33 – che, nel modificare il D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, ha identificato gli immobili cui applicare l’imposta agevolata in base alla categoria catastale e non più alla stregua dei parametri di cui al D.M. 2 agosto 1969 – pur non potendo applicarsi, sul piano sostanziale, agli atti negoziali anteriori alla data della sua entrata in vigore (13 dicembre 2014), può tuttavia spiegare effetti ai fini sanzionatori, in applicazione del principio del “favor rei”, posto che, proprio in ragione della più favorevole disposizione sopravvenuta, la condotta mendace inerente la caratteristica “non di lusso” dell’immobile, che prima integrava una violazione fiscale, non costituisce più il presupposto per l’irrogazione della sanzione”.

12.1 – In definitiva, i motivi secondo, terzo, quarto, quinto, sesto, ottavo – previa correzione della motivazione, ex art. 384 c.p.c., u.c., – e nono sono infondati, il primo è in parte inammissibile ed in parte infondato, mentre il settimo è inammissibile. Tuttavia, occorre rilevare d’ufficio l’intervenuto ius superveniens, successivo alla proposizione del ricorso, giacché la descritta modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, Tabella A allegata, parte seconda, n. 21, apportata dal D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 33, comporta – in applicazione del principio del “favor rei” di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 2, – la cassazione della sentenza impugnata, nella parte in cui s’è ritenuta legittima l’irrogazione delle sanzioni.

Poiché detta questione, oggetto di esame d’ufficio, non implica ulteriori accertamenti fattuali, trattandosi di eliminare le sanzioni e non di rimodularle all’esito di una determinata opzione per il regime più favorevole concretamente applicabile, la causa può conseguentemente essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con la declaratoria della illegittimità dell’atto impositivo, limitatamente alle sanzioni. 

Le spese dell’intero giudizio possono integralmente compensarsi tra le parti, stanti l’obiettiva incertezza derivante dal confronto della disciplina interna con quella sovranazionale, nonché il rilievo d’ufficio di parte del tema d’indagine e l’ius superveniens, con la conseguente incidenza sul piano sanzionatorio.

P.Q.M.

la Corte, decidendo sul ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione alle sanzioni e, pronunciando nel merito, le dichiara non dovute. Compensa integralmente le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno 10.12.2020 e, a seguito di riconvocazione, il 29 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2021


Massima: In tema d’IVA ad aliquota agevolata per l’acquisto della prima casa, l’art. 33 d.lgs. n. 175 del 2014 – che, nel modificare il n. 21, Tabella A, parte seconda, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972, ha identificato gli immobili cui applicare l’imposta agevolata in base alla categoria catastale e non più alla stregua dei parametri di cui al d.m. 2 agosto 1969 – pur non potendo applicarsi, sul piano sostanziale, agli atti negoziali anteriori alla data di sua entrata in vigore (13 dicembre 2014), può tuttavia spiegare effetti ai fini sanzionatori, in applicazione del principio del “favor rei”, posto che, proprio in ragione della più favorevole disposizione sopravvenuta, la condotta mendace inerente la caratteristica “non di lusso” dell’immobile, che prima integrava una violazione fiscale, non costituisce più il presupposto per l’irrogazione della sanzione.