Cass.civ., sez.V, ord. 16 luglio 2024 n.19631
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere – Rel.
Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere
Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere
Dott. DI PISA Fabio – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 7303/2019 R.G. proposto da:
COMUNE DI C, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II ,18, presso lo studio dell’avvocato … (omissis) rappresentato e difeso dagli avvocati … (omissis), … (omissis); – ricorrente –
contro
…, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in …, presso lo studio dell’avvocato … (omissis) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati … (omissis) e … (omissis). – controricorrente –
avverso SENTENZA di COMM. TRIB. REG. MILANO n. 3628/2018 depositata il 28/08/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/06/2024 dal Consigliere GIACOMO MARIA STALLA.
Udito il Procuratore Generale che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
uditi i difensori delle parti presenti.
Svolgimento del processo
Par. 1. Il Comune di C propone tre motivi di ricorso per la cassazione della su indicata sentenza, con la quale la Commissione Tributaria Regionale, a conferma della prima decisione, ha ritenuto illegittima la pretesa di pagamento Tari 2016 portata dalla bolletta di pagamento inviata il 30.8.2016 alla …, e da questa opposta.
La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, ha rilevato che:
– la società contribuente aveva regolarmente versato il tributo sulla superficie di metri quadrati 2417 (reparto ortofrutta ed uffici), mentre sulla ulteriore superficie oggetto di prelievo (area vendita e parcheggi con pensilina) la tassa non era dovuta;
– in relazione all’area di vendita, si trattava notoriamente di area destinata al commercio all’ingrosso e come tale produttiva di ingenti quantità di imballaggi terziari e secondari, con conseguente obbligo di smaltimento in proprio, e non in regime di privativa comunale (come argomentabile, a contrario, dall’articolo 226, secondo comma, D.Lgs. n. 152/06, secondo cui il regime di privativa comunale per gli imballaggi secondari era obbligatorio, in presenza di servizio di raccolta differenziata, solo a carico del commerciante al dettaglio, non anche di quello all’ingrosso qual era …);
– questa conclusione andava affermata indipendentemente dal fatto che il Comune avesse effettivamente attivato il servizio di raccolta differenziata e deliberato l’assimilazione ai rifiuti urbani anche dei rifiuti da imballaggio secondari così come prevalentemente prodotti dalla società nell’area vendita, anche considerato che la contribuente risultava aver attuato lo smaltimento in proprio dei rifiuti in questione sicché, diversamente ragionando, quest’ultima sarebbe stata indebitamente gravata da costi doppi di raccolta e smaltimento;
– in relazione all’area parcheggio e pensilina, l’imposizione andava esclusa perché si trattava di superfici accessorie e pertinenziali, e quindi non operative, e dunque non produttive di rifiuti, se non in misura insignificante;
– contrariamente a quanto stabilito da Cass. n. 25020/15 e da altre analoghe decisioni, l’art. 62 co. 2, D.Lgs. 507/93, nell’escludere le aree non produttive di rifiuti “o per loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinate”, esonerava anche le aree scoperte di parcheggio.
La … ha depositato controricorso, preliminarmente eccependo un doppio profilo di giudicato interno.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso, avendo la Commissione Tributaria Regionale violato consolidati principi in materia sia di assimilabilità dei rifiuti da imballaggi secondari e di loro assoggettamento al regime di privativa comunale in ipotesi di attivazione della raccolta comunale differenziata, sia di imponibilità delle aree scoperte adibite a parcheggio sia, ancora, di sistematica debenza della parte fissa del tributo.
La società controricorrente ha depositato memoria anche in replica alle conclusioni del Procuratore Generale.
Motivi della decisione
Par. 2. Con il primo motivo di ricorso il Comune deduce – ex art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 1 comma 649 della legge n. 147 del 2013, 184, terzo comma, nonché 221, quarto co., e 226 D.Lgs. n. 152/06. Per avere la Commissione Tributaria Regionale, da un lato, riconosciuto che la società produceva nell’area-vendita principalmente rifiuti speciali da imballaggi secondari e poi, dall’altro, ritenuto queste superfici esenti da imposizione, nonostante che questa tipologia di rifiuti speciali fosse stata debitamente assimilata dal Comune ai sensi di legge, con delibere consiliari n. 63 del 21 maggio 1980 e n. 11 del 17 gennaio 2013 (già in atti, e comunque allegate anche al ricorso per cassazione). Da quest’ultima delibera, in particolare, emergeva l’assimilazione sia qualitativa (con espresso riguardo agli “imballaggi secondari quali carta, cartone, plastica, legno, metallo e simili purché raccolti in forma differenziata”) sia quantitativa (Reg. art. 53, con richiamo ai coefficienti di produttività annua di cui all’allegato 1 al D.P.R. 158 del 1999, annualmente deliberati dall’amministrazione comunale per ciascuna categoria economica).
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 649, della legge n. 147 del 2013 e 184, terzo comma, D.Lgs. n. 152/06. Per avere la Commissione Tributaria Regionale esonerato dall’imposta l’area di vendita pur dopo aver dato atto che si verteva principalmente di produzione di imballaggi secondari assimilati, e che il Comune aveva attivato, per tali rifiuti, il servizio di raccolta differenziata.
Ferma restando la regola generale della imposizione di tutte le superfici detenute idonee a produrre rifiuti (art. 1 co. 641 legge 147/13), era se mai onere della società dichiarare le superfici produttive di rifiuti speciali non assimilati ed esenti da privativa comunale in funzione, giammai dell’esonero totale, quanto della sola riduzione della quota variabile della tassa; incombente mai assolto della società e, comunque, in ipotesi tale da giustificare un riconoscimento a consuntivo della riduzione (art. 1 co. 649 147/13) incidente sull’annualità successiva al 2016.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione della disciplina Tari nonché del Regolamento comunale in ordine al parcheggio con pensilina. Diversamente da quanto affermato dalla Commissione Tributaria Regionale, come più volte stabilito dalla S.C., le aree scoperte di parcheggio dovevano, salva prova contraria ad onere del contribuente, ritenersi produttive di rifiuti; il che certamente doveva affermarsi nel caso di specie, sia perché la società non aveva mai dichiarato una delimitazione delle superfici asseritamente non produttive di rifiuti, sia perché si trattava comunque di aree non meramente accessorie e pertinenziali ma – discutendosi di un centro commerciale all’ingrosso – di superfici essenziali allo svolgimento dell’attività produttiva perché funzionali al carico ed allo scarico delle merci da parte della clientela professionale.
Par. 3. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di giudicato interno opposta dalla società contribuente in controricorso.
In particolare, l’avvenuta formazione del giudicato interno deriverebbe dal fatto che il Comune non avrebbe impugnato l’affermazione della Commissione Tributaria Regionale secondo cui:
– in base ai principi comunitari (Dir. 62/1994, art. 130 R Trattato) in caso di insussistenza di privativa comunale, vi è obbligo per l’operatore di provvedere in proprio alla raccolta ed allo smaltimento, con la conseguenza che l’imposizione del tributo concreterebbe, in tal caso, una illegittima duplicazione di costi;
– gli imballaggi secondari provenienti da commercio all’ingrosso non sarebbero assimilabili dai Comuni.
Contrariamente all’assunto, il Comune ricorrente ha formulato specifiche doglianze di legittimità, come su riportate, con le quali ha posto problemi di interpretazione giuridica che certamente investono, ed in maniera diretta, anche le affermazioni così attribuibili alla Commissione Tributaria Regionale, il che basta a senz’altro escludere che su tali affermazioni si sia formata preclusione di sorta.
Quanto al primo profilo segnalato (regime di privativa comunale), il Comune ha infatti sostenuto che nel caso di specie tale regime – per gli imballaggi secondari quali quelli prevalentemente prodotti nell’area di vendita – persisteva appieno, stante l’avvenuta assimilazione per delibera consiliare di questa tipologia di rifiuti; sicché la contestazione di quanto affermato dal Collegio regionale muove, non dalla confutazione in sé del principio di diritto (illegittima duplicazione di costi in capo all’operatore che smaltisca in proprio stante l’assenza di privativa comunale), ma proprio dalla contestazione in radice della ricostruzione operata dalla Commissione Tributaria Regionale (definita al contempo contraddittoria) nel senso della effettiva sussistenza nella specie, e proprio per l’avvenuta formale assimilazione regolamentare, di quel regime. Sicché il giudicato – che per sua natura si forma, ex art. 2909 cod. civ., sugli elementi fattuali accertati e sulla qualificazione giuridica dei rapporti dedotti ma non sull’interpretazione o applicazione giuridica in sé – viene qui impedito proprio dalla censura sulla riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie legale di imposizione, censura dalla quale non potrebbe non scaturire (se fondata) anche il travolgimento di quel principio di diritto di indebita duplicazione, quand’anche astrattamente corretto e condivisibile.
Quanto al secondo aspetto (non assimilabilità degli imballaggi provenienti dal grossista), analogamente si verte di ragione decisoria colpita dai primi due motivi di ricorso, con i quali il Comune ha richiamato la normativa sui rifiuti e la giurisprudenza di legittimità in materia, sostenendo che l’assimilazione era invece qui consentita in ragione sia della natura (secondaria) degli imballaggi, sia dell’attivazione del servizio di raccolta differenziata; aggiungendo poi, in ordine alla quantità degli imballaggi prodotti, che l’assimilazione aveva appunto avuto qui ad oggetto anche i limiti quantitativi della raccolta da parte del Comune. Impostazione difensiva, questa, chiaramente oppositiva e censoria rispetto all’affermazione che si vorrebbe coperta da giudicato.
Par. 4. I primi due motivi di ricorso – suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle censure sollevate, entrambe relative ai rifiuti di imballaggi prodotti nell’area di vendita – sono fondati nei termini che seguono.
La Commissione Tributaria Regionale ha appurato che si verteva in effetti di produzione di imballaggi, per poi escluderne l’assimilazione regolamentare, e ciò sia perché provenienti da un’attività di commercio all’ingrosso, sia perché a nulla rilevava a tal fine l’attivazione comunale del servizio di raccolta differenziata.
Più in particolare, ha osservato – in fatto – la Commissione Tributaria Regionale che: “va però premesso, essendo fatto notorio, che nei magazzini … la vendita non avviene al dettaglio, essendo l’accesso riservato ai commercianti ed ai professionisti. Pertanto nell’area vendite spesso la merce è esposta su bancali (che, una volta dismessi, costituiscono rifiuti da imballaggi terziari) e normalmente è esposta in confezioni plurime e cioè con unità di prodotto riunite in imballaggi secondari” (sent. pag. 4); ed ancora: “pur dandosi atto al Comune di C che nelle aree di vendita non sono prodotti solo rifiuti terziari ma anzi, in maggioranza, rifiuti da imballaggio (sembra da intendersi ‘secondari’, secondo quanto appunto sostenuto dal Comune, nde), la loro assimilazione agli urbani, pur se disposta dal Comune che ha attuato un’ordinaria raccolta differenziata, non può costituire motivo di tassazione dell’area, dal momento che il magazzino all’ingrosso è tenuto allo smaltimento in proprio che risulta averlo attuato nel caso di specie” (sent. pag. 5).
Ferma dunque questa ricostruzione fattuale va considerato, in diritto, che gli imballaggi secondari, una volta dismessi, divengono ‘rifiuti di imballaggio’ e, diversamente dai terziari, possono essere assimilati per qualità e quantità dai Comuni (come nella specie) qualora ne risulti attivata (come nella specie) la raccolta differenziata.
Ciò è quanto innumerevoli volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, alla quale in toto si rinvia segnalandosi, in particolare, il recentissimo riepilogo delle questioni rilevanti da parte di Cass. n. 13455/24 che, in fattispecie di Tari 2017, ha a sua volta ripreso e richiamato il compendio interpretativo di legittimità maturatosi, negli anni precedenti, in materia.
Così quanto, in particolare, ai seguenti profili:
– quadro normativo di riferimento (legge 147/2013, art. 1 co. 641 segg.) in punto disciplina Tari ed in ordine, in particolare, alla previsione (co. 649) secondo cui: “Nella determinazione della superficie assoggettabile alla TARI non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente. Per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della TARI, il Comune disciplina con proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionali alle quantità di rifiuti speciali assimilati che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo, direttamente o tramite soggetti autorizzati. Con il medesimo regolamento il Comune individua le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all’esercizio di dette attività produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione (…)”;
– doppia articolazione tariffaria (v. art. 3 D.P.R. 158/99 sul metodo tariffario normalizzato) in quota fissa, sempre dovuta per intero perché destinata a finanziare i costi essenziali e generali di investimento e servizio nell’interesse dell’intera collettività e dunque indipendentemente dalla qualità e quantità dei rifiuti prodotti e conferiti; ed in quota variabile, non dovuta allorquando il contribuente provi di produrre in maniera continuativa e prevalente rifiuti speciali non assimilabili o comunque non assimilati e smaltiti autonomamente a mezzo di ditte esterne autorizzate (Cass. n. 8205-8222/22; Cass. n. 7187/21; Cass. n. 5360/20);
– sostanziale e complessiva continuità normativa, di natura tributaria, tra Tarsu, Tia, Tares, Tari, aventi tutte struttura autoritativa e non sinallagmatica, con conseguente estensione dei principi informatori dell’imposizione e generale doverosità della prestazione, caratterizzata da una forte impronta pubblicistica (Cass. n. 21490/22; Cass. n. 80888089/20);
– permanente attribuzione ai Comuni del potere di assimilazione dei rifiuti speciali assunti in regime di privativa (art. 21 D. Ronchi e successiva abrogazione dell’art.39 legge 146/94 dall’art. 17 legge 128/98);
– quadro normativo di riferimento (Dir. 94/62/CE mod. dalla Dir. n. 12/04; D.Lgs. di attuazione n.22/97, D. Ronchi, artt.34 segg., poi riprodotti nel D.Lgs. 152/06, TU Ambiente, artt. 217 segg.) in punto nozione e classificazione degli imballaggi (per la vendita o primari, multipli o secondari, per il trasporto o terziari);
– non assimilabilità ex lege (con conseguente disapplicazione dei regolamenti comunali che stabiliscano in senso opposto) degli imballaggi terziari (per i quali vige il divieto di immissione nel normale circuito di raccolta dei rifiuti urbani), ed assimilabilità di quelli secondari in caso di attivazione della raccolta differenziata (Cass. n. 4793/16; Cass. n. 4960/18; Cass. n. 703/19; Cass. n. 10010/19; Cass. n. 22980/21; Cass. n. 5580/23);
– irrilevanza ai fini impositivi (sulla base della nozione generale di rifiuto, ricondotta a qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi: art. 183, comma 1, lett. a) ed f), TU Ambiente) della distinzione tra ‘imballaggi’ ancora utilizzabili e ‘rifiuti da imballaggi’, non ponendosi in ordine ai primi il problema del conferimento e smaltimento se non a loro volta dismessi e, per ciò solo, assunti nella categoria legale dei ‘rifiuti’ ex art. 183 cit. (Cass. n. 21130/21, anche con richiami a Cass. Pen. n. 48737/2013, Di Micco; Cass. Pen. n. 50309/2014, Rizzi).
Sempre assai recentemente, questa Corte (Cass. n. 9673/24, in fattispecie di Tari 2020) ha riaffermato queste evidenze, tra l’altro ribadendo che: “La riduzione della superficie tassabile, in ragione della dimostrata produzione su di essa di rifiuti speciali, opera anche per quei particolari ‘rifiuti speciali’ costituiti dagli imballaggi terziari (…) non assimilati né ex lege assimilabili ai rifiuti urbani ordinari, affermandosi che agli imballaggi terziari (nonché agli imballaggi secondari ove non sia attivata la raccolta differenziata) si applica appunto la disciplina di cui all’art. 62, co. 3 cit., il quale rapporta la tassa alle superfici dei locali occupati o detenuti, stabilendo l’esclusione della sola parte di esse in cui, per struttura e destinazione, si formino i rifiuti speciali; per questa loro natura, gli imballaggi terziari non possono essere immessi nel normale circuito di raccolta dei rifiuti urbani (oggetto di privativa comunale) e devono essere comprovatamente conferiti ed avviati al recupero presso operatori autorizzati ex art. 21, co. 7, D.Lgs. 22/1997”.
Va detto che questi stessi principi di coordinamento erano stati invero già affermati ed applicati proprio nei confronti di … (in controversia con il Comune di B) da Cass. n. 10899/22 (in fattispecie di Tarsu 2010 – 2012 su area vendita all’ingrosso, ma con considerazioni, come detto, di continuativa validità anche con riguardo alla Tari) la quale, per quanto qui più rileva, ha da un lato ribadito la non assimilabilità dei rifiuti terziari, non rientranti ex lege nella privativa comunale e, dall’altro, invece ripetuto l’assimilabilità ‘condizionata’ dei rifiuti da imballaggi secondari: “nel caso di imballaggi secondari è previsto dall’art. 21, comma 7, del decreto Ronchi l’esonero dalla privativa comunale in assenza di raccolta differenziata da parte dell’ente locale e qualora sia provato l’avviamento al recupero. In tal caso, l’operatore economico ha l’onere di dimostrare l’effettivo e corretto avviamento al recupero attraverso valida documentazione comprovante il conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati a detta attività in base alle norme del D.Lgs. n. 22 del 1997 e si determina, allora, non già la riduzione della superficie tassabile, prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, per il solo caso di produzione di rifiuti speciali (non assimilabili o non assimilati), bensì il diritto ad una riduzione tariffaria determinata in concreto, a consuntivo, in base a criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero (in virtù di quanto previsto, in generale, già dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 67, comma 2, e poi, più specificamente, dall’art. 49, comma 14, del decreto Ronchi e dal D.P.R. n. 158 del 1999) (Cass. n. 703/19)”.
Orbene, nel caso in esame la Commissione Tributaria Regionale ha tralasciato di applicare alla fattispecie la disciplina sua propria, su ricordata.
Tralasciando, in particolare, di considerare che:
– l’esonero da Tari, tramite la riduzione di superficie sottoposta ad imposizione, opera solo per la parte di essa in cui si producono, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali non assimilabili (tra cui gli imballaggi terziari e quelli secondari non destinati alla raccolta differenziata istituita dal Comune) e non assimilati, e non anche per l’intera superficie del locale destinato ad attività di vendita, trattandosi di superficie potenzialmente idonea alla produzione di rifiuti urbani, e ciò a prescindere dalla mancata produzione in concreto degli stessi e dalla mancata fruizione del servizio pubblico ad essi dedicato;
– è sempre dovuta sull’intera superficie del locale adibito alla vendita la quota fissa del tributo, in ragione della sua finalità lato sensu remuneratoria (pur senza uno stretto legame di corrispettività) di un servizio pubblico specifico (art. 1 co. 651 legge Tari, richiamante il D.P.R. 158/99);
– è ammissibile l’esclusione del versamento della parte variabile ogniqualvolta il contribuente sia in grado di dimostrare la mancata produzione su quella determinata superficie di rifiuti conferibili a smaltimento o la produzione esclusiva di rifiuti speciali, non assimilati o assimilabili.
Quanto alla previsione di cui all’art. 226, co. 2, TU Ambiente – la cui nozione di ‘utilizzatore’ rinvia alla definizione tecnica ex art. 218 TU cit. (lett. s), disposizione quest’ultima definitoria anche dell’attività di restituzione e ‘ripresa’ (lett. cc) – rileva che la disciplina dei rifiuti di imballaggio (che non esclude in assoluto il conferimento al servizio pubblico dei rifiuti di imballaggi secondari, visto anche il disposto dell’art. 221, co. 4, TU cit., ivi richiamato) muove principalmente dalla natura intrinseca e merceologica del rifiuto stesso e del suo impiego, e non dalla veste professionale del produttore; il che ben si comprende avendo a mente le finalità di tutela ambientale primariamente sottese alla materia. Va poi considerato che se è vero che la provenienza degli imballaggi secondari da grossista o dettagliante può, in linea di principio, influire sulla quantità dei relativi rifiuti in rapporto alla capacità di raccolta e gestione del servizio pubblico (la “rilevante entità” di cui parla la Commissione Tributaria Regionale), altrettanto indubbio è che questo discrimine quantitativo ha già modo di operare in sede di necessaria predeterminazione dei limiti, appunto, anche ‘quantitativi’ di assimilazione in sede di potestà regolamentare dei Comuni, sicché il regime di privativa comunale tornerà applicabile ogniqualvolta tali limiti non siano superati.
Ed in tal senso è formulato il regolamento di assimilazione del Comune di C (delib. n. 11/2013) che espressamente prevede gli “imballaggi secondari quali carta, cartone, plastica, metallo e simili purché raccolti in forma differenziata”, con indicazione altresì dei criteri quantitativi di assimilazione.
Dal regime così delineato – sempreché si verta, in fatto, di prevalenza di rifiuti di imballaggi secondari e non terziari, aspetto sul quale la sentenza della Commissione Tributaria Regionale non appare come si è visto del tutto univoca – non discende di per sé l’esenzione totale dalla Tari, quanto soltanto la sua riduzione in ragione della denuncia-dichiarazione e dimostrazione, ad onere del contribuente, tanto delle superfici di relativa produzione quanto dell’effettivo e corretto avviamento al recupero attraverso valida documentazione comprovante il conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati che ne abbiano rilasciato il relativo formulario di identificazione, secondo quanto stabilito dall’art. 1. co. 649 L. Tari, ferma però restando la piena debenza della quota fissa. par. 5 Fondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Va premesso che il presupposto del tributo è dato dall’occupazione o conduzione di locali ed aree produttive di rifiuti, in modo tale che se è vero, in linea generale, che è l’Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell’obbligazione tributaria (a cominciare dall’attivazione del servizio di raccolta sul territorio comunale), altrettanto indubbio è che è invece “onere del contribuente dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione della superficie tassabile ovvero dell’esenzione, trattandosi di eccezione rispetto alla regola generale del pagamento dell’imposta sui rifiuti urbani nelle zone del territorio comunale” (Cass. n. 21335/22; Cass. n. 12979/19; Cass. n. 22130/17 ed innumerevoli altre).
Sul punto nuovamente si ritorna a Cass. n. 13455/24 cit. in cui, con ulteriori numerosi richiami ai quali pure si rinvia, si è anche ribadito che “la disponibilità dell’area produttrice di rifiuti determina una presunzione, iuris tantum, di produttività degli stessi, che può essere superata solo dalla prova contraria del detentore dell’area”.
Ciò premesso, si controverte qui di un’estesa area scoperta annessa al centro-vendita gestito da …, ed adibita a parcheggio gratuito della clientela e movimentazione mezzi commerciali. L’accertamento in fatto è contenuto a pag. 6 della sentenza impugnata, mentre Metro così descrive i luoghi (controricorso, pag. 22): “l’area scoperta di cui si controverte è costituita da parcheggio gratuito per la clientela per metri quadrati 7203 e da pensilina per metri quadrati 638, come puntualizzato nel ricorso introduttivo, confermato dalla planimetria e dall’analisi delle superfici dei documenti n. 3 n. 4, e come è pacifico tra le parti dopo le convergenze in fatto manifestate nelle controdeduzioni comunali di primo grado. Quanto alla pensilina si tratta di quella struttura a sbalzo, sopraelevata rispetto al piano di calpestio, alla quale accedono all’indietro gli autoarticolati per immettere direttamente le merci trasportate all’interno delle superfici coperte attraverso apposite imboccature. Non possono produrre rifiuti perché la movimentazione di carico e scarico non avviene sul piazzale, ma direttamente da autoveicolo a magazzino o viceversa, evitando qualsiasi dispersione”.
Come sostenuto dal Comune ricorrente, queste aree, in quanto operative e suscettibili di produzione di rifiuti per la loro connaturata destinazione alla frequentazione antropica e veicolare, debbono ritenersi tassabili.
E questa conclusione tanto più si avvalora nella considerazione dell’evoluzione normativa sul punto specifico, dalla quale emerge (a partire dall’art. 21 D.P.R. 915/82) la chiara e continuativa volontà legislativa di sottoporre ad imposizione anche le aree scoperte variamente utilizzate, con la sola eccezione delle aree pertinenziali improduttive di rifiuti perché non operative:
– art. 62 co. 1 D.Lvo 507/93 (Tarsu): “Presupposto della tassa ed esclusioni. 1. La tassa è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, (…) 2. Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell’anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione. (…)”;
– art. 14 co. 3 – 4 D.L. 201/11 conv. L. 214/11 (Tares): 3. “Il tributo è dovuto da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. 4. Sono escluse dalla tassazione le aree scoperte pertinenziali o accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali di cui all’articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva”.
– art. 1 co. 641 legge 147/13 (Tari): “Il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse dalla TARI le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all’articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva.(…)”.
La giurisprudenza di legittimità che si è formata sul punto specifico è del tutto costante ed uniforme nell’affermare la tassabilità delle aree scoperte destinate a parcheggio, in quanto almeno presuntivamente produttive di rifiuti.
Già Cass. n. 5047/15 ebbe a stabilire che: “In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, l’art. 62, comma 2, del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, nell’escludere dall’assoggettamento al tributo i locali e le aree che non possono produrre rifiuti ‘per il particolare uso cui sono stabilmente destinati’, chiaramente esige che sia provata dal contribuente non solo la stabile destinazione dell’area ad un determinato uso, ma anche la circostanza che tale uso non comporta produzione di rifiuti”. La norma esige quindi che sia provata dal contribuente non solo la stabile destinazione dell’area ad un determinato uso (quale, nel caso di specie, il parcheggio), ma anche la circostanza che tale uso non comporta produzione di rifiuti. Ne deriva che la tassa sui rifiuti è dovuta anche per i parcheggi, trattandosi di aree frequentate da persone e quindi produttive di rifiuti in via quantomeno presuntiva, rimanendo a carico dell’utente l’onere di provare con apposita denuncia ed idonea documentazione la sussistenza dei presupposti per l’esenzione; così Cass. n. 21335/22 cit. e Cass. n. 8753/23.
Ha affermato Cass. n. 8908/18 (in fattispecie Tarsu su parcheggio scoperto annesso a centro commerciale): “Né, d’altro canto, assume rilievo conclusivo la circostanza che ‘il Comune non esige il pagamento della TARSU’ in relazione alle superfici scoperte destinate a parcheggio del centro commerciale, poiché l’argomentazione si pone in palese contraddizione con la normativa primaria innanzi esaminata, in forza della quale anche per le aree scoperte il contribuente è tenuto a pagare la tassa, quando si tratta di aree frequentate da persone e, quindi, produttive in via presuntiva di rifiuti, rimanendo a suo carico l’onere di provare con apposita denuncia, ed idonea documentazione, la sussistenza dei presupposti per l’esenzione della quale più volte si è detto in precedenza (…)”.
La società rimarca il non perfetto allineamento tra la, su riportata, disciplina Tarsu (“ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali (…)”) e quella Tari (“le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative (…)”), concludendo per la non tassabilità in ragione del carattere pertinenziale ed accessorio (al centro-vendita) delle aree di parcheggio in questione.
Il susseguirsi della disciplina delle aree scoperte, tuttavia, non fa che confermare la loro ordinaria tassabilità proprio perché rientranti nel presupposto impositivo generale e comune a tutti i tributi sui rifiuti (occupazione e detenzione di aree produttive di rifiuti), in tanto escludendo quelle pertinenziali ed accessorie (rispetto ad altro immobile produttivo) in quanto comprovatamente “non operative” e, come tali, non autonomamente produttive di rifiuti. Il requisito della non-operatività, del resto anche testualmente esplicitato, deve ritenersi strettamente correlato alla nozione di pertinenzialità propria (anche) della Tari, e ciò proprio per la natura ambientale del tributo e, non ultimo, per i noti principi unionali in materia che legano l’imposizione alla eziologia inquinante.
D’altra parte, sempre con riguardo alla tassabilità delle aree destinate a parcheggio, si è sviluppata (pur nella oggettiva peculiarità della fattispecie) un’ampia casistica giurisprudenziale relativa alle autorimesse pubbliche e soprattutto ai parcheggi pubblici comunali (tra le molte: Cass. n. 16287/24; Cass. n. 14404/24; Cass. n. 18612/23; Cass. n. 34392/21; Cass. n. 19739/21; Cass. n. 18124/21), nella quale si è molto discusso della titolarità della legittimazione tributaria passiva (a seconda che il Comune mantenga il pieno controllo sostanziale ed organizzativo dell’area, ovvero l’affidi alla società concessionaria in una con la riscossione della tariffa di sosta), ma mai si è dubitato – per quello che anche qui deve valere – del fatto che le aree di parcheggio siano di per sé pienamente idonee alla produzione di rifiuti in ragione del flusso antropico su di esse, talora anche massiccio. Idoneità che, nella sua rilevanza puramente obiettiva, certo prescinde a fini impositivi dal carattere gratuito ovvero oneroso della fruizione del parcheggio.
Ha osservato Cass. n. 25632/22 (in materia di Tarsu ma, come detto, con affermazioni di portata più ampia) che: “(…) ai fini della tassabilità delle aree scoperte rileva esclusivamente la natura operativa delle stesse, intesa quale idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all’area principale già tassata e di cui, tenuto conto della destinazione funzionale, non rappresentano una mera estensione. Per tutti i prelievi sui rifiuti opera poi la presunzione di produttività che costituisce una condizione oggettiva fondata sulla mera disponibilità di un locale o area scoperta operativa idonea all’uso; ai fini dell’assoggettabilità a tributo conta la mera idoneità di locali ed aree alla produzione di rifiuti, piuttosto che l’effettivo utilizzo del servizio. La presunzione di potenzialità o attitudine a produrre rifiuti non costituisce poi una presunzione assoluta iuris et de iure, in quanto opera fino a prova contraria, fondata non sulla volontà del soggetto passivo di utilizzare o meno il bene, bensì sulla inidoneità per motivi strutturali o per la carenza di servizi minimi che ne consentano oggettivamente l’utilizzo”.
In linea si pone anche Cass. n. 14718/23 (in materia di Tares su area scoperta adiacente ad un immobile adibito ad autosalone e destinata alla sosta dei veicoli dei clienti, ma sempre in forza di principi applicabili anche nella specie) secondo cui: “la tassazione è esclusa solo per le aree scoperte che, ai sensi del codice civile, presentano la condizione della pertinenza soggettiva e oggettiva rispetto al locale o all’area principale e purché non siano operative; l’operatività consiste nell’idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all’area principale che già versa il tributo e non rappresenta dunque un’ulteriore estensione dell’attività svolta”.
Si è ancora da ultimo osservato che: “i parcheggi sono aree frequentate da persone e, quindi, presuntivamente produttive di rifiuti” (Cass. 16265/25 con ampi richiami).
Nella specie, poi, la conclusione in termini di operatività ed autonoma capacità produttiva si avvalora a fortiori, trattandosi pacificamente di parcheggio frequentato sia da clientela business sia da operatori dediti alla movimentazione di ingenti quantità di merce, come è connaturato ad un centro-vendita rivolto per lo più ad un pubblico professionale e di grossisti.
Sicché, in difetto del requisito di non-operatività come si è finora inteso, non possono che venir meno – ai fini della tassazione dei rifiuti – anche i parametri esonerativi della pertinenzialità e della accessorietà; del resto, anche logicamente irrealistici se rapportati, com’è d’obbligo, ad un tipo di attività commerciale come quella in esame il cui espletamento e la cui organizzazione, in assenza di quelle aree funzionali, neppure potrebbero concepirsi.
Erronea è dunque l’affermazione della Commissione Tributaria Regionale la quale, ponendosi in contrario avviso rispetto alla citata giurisprudenza di legittimità, ha escluso la tassazione qualificando tout court come pertinenziali ed improduttive di rifiuti le aree in questione, senza porre a carico della società onere dichiarativo e dimostrativo alcuno.
- Ne segue, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia che, in diversa composizione, riesaminerà la fattispecie in punto natura dei rifiuti di imballaggi, costante debenza della quota fissa del tributo, imponibilità aree scoperte di parcheggio, e deciderà anche sulle spese del presente procedimento di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
– accoglie il ricorso;
– cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia in diversa composizione.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria, riunitasi in data 12 giugno 2024.
Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2024.
MASSIMA: La TARI è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte produttive di rifiuti, con esclusione delle sole aree pertinenziali e non operative. È onere del contribuente dimostrare la mancata produzione su una determinata superficie di rifiuti conferibili al servizio pubblico o di rifiuti speciali non assimilati, ai fini della riduzione della superficie tassabile.