Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado dell’Abruzzo, sez. II, 02 gennaio 2024 n. 1


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Teramo, sulla base di un verbale della Guardia di finanza provvedeva a recuperare alcuni debiti d’imposta della G. Srl, per l’anno 2019, compensati con crediti che l’Amministrazione finanziaria assumeva essere inesistenti.

Impugnato tale provvedimento, sulla base dell’esistenza di un regolare contratto di accollo, la Corte di giustizia di primo grado di Teramo, con sentenza n. 183/2022 pubblicata il 28 settembre 2022, rigettava l’appello con condanna alla refusione delle spese di lite. 

In particolare la Corte teramana rilevava che “E’ assorbente il rilievo che, a differenza di quanto assume il ricorrente, l’onere della prova dell’esistenza dei crediti eccepiti in compensazione, trattandosi di fatti estintivi della incontestata pretesa fiscale, grava sul contribuente ai sensi della generale previsione dell’art. 2697, comma 2, cod. civ.

Concludendo poi con l’affermare che tale prova non era stata raggiunta, anche sulla base dell’interpretazione del contratto di cessione e del meccanismo di accollo dei crediti ceduti.

Proponeva appello la società contribuente affidandolo, dopo una premessa in ordine all’onere della prova, ai seguenti cinque motivi: 1) Nullità della sentenza per violazione del principio di ripartizione dell’onere della prova in violazione dell’art. 7, comma 5-bis del D. Lgs, n. 546/1992; 2) Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della l. n. 212/2000, 1, comma 421 della L. n. 311/2004 e 42 del D.P.R. n. 600/1973 – Nullità dell’atto di recupero per assenza/carenza e/o infondatezza della motivazione; 3) Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 11 delle preleggi e 3 della L. n. 212/2000 in relazione all’applicazione dell’art. 1, comma 4, lett. b) del D.L. n. 124/2019 – Nullità dell’atto di recupero emesso sulla base di una normativa non applicabile retroattivamente; 4) Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 8 della L. n. 212/2000; 5) Nullità della sentenza per violazione dell’art. 10 della L. n. 212/2000 nella irrogazione delle sanzioni – Violazione del principio del legittimo affidamento. 

Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle entrate con atto del 6 febbraio 2023 ribadendo la correttezza del proprio operato e chiedendo la conferma della decisione impugnata. 

Tali difese venivano ulteriormente illustrate con apposita memoria. 

All’udienza del 13 dicembre 2023, ascoltati i difensori delle parti come da verbale, il giudizio veniva riservato a decisione e quindi deciso come da dispositivo. 

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello non merita di essere accolto. 

Infatti la principale doglianza della società contribuente riguarda l’onere della prova, ritenuta dalla Commissione di prime cure gravare appunto sulla contribuente. 

Tuttavia la tesi dell’appellante, che ritiene tale onere ormai superato dall’art. 7, comma 5 bis del D. Lgs n. 546/1992 nella nuova formulazione entrata in vigore il 16 settembre 2022, a seguito della legge 130/2022, non convince. 

La disposizione in parola non modifica l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova, limitandosi semplicemente ad affermare che è l’Amministrazione finanziaria a dover provare le ragioni oggettive dell’accertamento, senza giungere, come pretenderebbe la contribuente, ad addossare ogni onere probatoria all’Agenzia delle entrate. 

Tale ordinaria ripartizione dell’onere della prova nel giudizio resta ancorata ai principi classici, ovvero quelli stabiliti dall’art. 2697 del cod. civ. che non risulta affatto abrogato o comunque inapplicabile al processo tributario. 

Venendo più in particolare al merito della vicenda il primo motivo di appello non può essere accolto proprio sulla base delle considerazioni che precedono, e che oneravano la contribuente di dimostrare l’esistenza dei crediti utilizzati in compensazione: onere che non solo non è stato assolto, ma che al contrario appare dimostrato in modo specifico ed in senso contrario proprio dall’Agenzia delle entrate attraverso i vari avvisi di accertamento emessi a carico delle società accollanti e divenuti definitivi, dove si evidenzia l’esistenza di una frode carosello fondata sull’emissione di fatture per operazioni inesistenti. 

Anche il secondo motivo d’appello non può essere accolto, in quanto volto a negare la sostanza dei contratti di accollo che sarebbero riconducibili ad una mera cessione dei crediti.

A prescindere dalla fondatezza di tale tesi, sia l’accollo che la cessione avrebbero comunque una causa (intesa come elemento essenziale del contratto) evasiva o comunque elusiva, e come tale illecita. 

In relazione al terzo motivo, che può essere esaminato unitamente al quarto per evidente connessione, si deve rilevare come la sentenza di primo grado risponda ad una logica argomentativa puntuale, che permette di comprendere l’iter seguito dai giudici, sottraendosi così alla censura di motivazione incompleta o contraddittoria. 

L’accertamento è stato emesso ai sensi dell’art. 1, commi 421-423 della legge 311/2004 nonché ai sensi dell’art. 13, comma 1 del D.Lgs. 471/1997 tenendo conto che la riforma operata dal D.Lgs. 158/2015 specifica la nozione di credito inesistente, ed in tale fattispecie rientrano pienamente i crediti di cui al presente giudizio. Infine non può essere accolto il quinto motivo, relativo all’applicazione delle sanzioni, facendo leva sul legittimo affidamento della contribuente e sulla sua conseguente buona fede. 

Il contesto in cui è avvenuta la sanzione, il testo dei contratti di accollo ed in particolare la clausola 9.5 del contratto stesso, l’elevato valore dei crediti compensati, avrebbero dovuto condurre un imprenditore avveduto a non utilizzare un meccanismo che, sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo, presentava un elevato livello di rischio. 

In questo ordine di idee tutte le ulteriori questioni possono ritenersi assorbite. 

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. 

P.Q.M.

La Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Aquila, seconda sezione, rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado. Condanna l’appellante alla refusione delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, che si liquidano in euro 9.000,00= (novemila) oltre accessori se dovuti. Così deciso in L’Aquila il 13 dicembre 2023


COMMENTO REDAZIONALE- La pronuncia in commento ribadisce come la disposizione di cui all’art. 7, comma 5-bis, D.lgs. 546/1992 (aggiunta dall’art. 6 Legge 31 agosto 2022 n. 130, entrata in vigore il 16 settembre 2022 ed applicabile a tutti i giudizi, ivi inclusi quelli già pendenti a tale data) non modifichi l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova, limitandosi semplicemente ad affermare che è l’Amministrazione finanziaria, quale parte attrice in senso sostanziale nelle controversie relative all’impugnazione di un atto di accertamento o di riscossione, a dover provare le ragioni oggettive dell’accertamento, quali fatti costitutivi della propria pretesa creditoria.

Si tratta di una regola di riparto dell’onere della prova del tutto analoga a quella prevista dall’art. 2697 c.c., norma pienamente applicabile al processo tributario.

Non trova quindi accoglimento la tesi della società contribuente secondo cui sull’Amministrazione finanziaria grava interamente qualunque onere probatorio nel processo tributario.

Al contrario, spetta alla società contribuente dimostrare l’esistenza dei crediti utilizzati in compensazione e, nel caso di specie, tale onere non viene ritenuto soddisfatto.

Sul carattere meramente ricognitivo, e non innovativo, del comma 5-bis dell’art. 7 D.lgs. 546/1992, la pronuncia in commento si uniforma all’indirizzo di legittimità secondo cui la predetta norma non stabilisce un onere della prova diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma si limita a ribadire in maniera circostanziata l’onere probatorio gravante in giudizio sull’Amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali tali da comportare l’inversione dell’onere della prova. Pertanto, la novella legislativa appare coerente con le ulteriori modifiche legislative in materia di prova, che assegnano un ruolo centrale all’istruttoria dibattimentale (si vedano, in tal senso, Cass. Civ., sez. V, ord., 27 ottobre 2022 n. 31878 e n. 31880).

Tanto è vero che, secondo quanto disposto dallo stesso art. 7, comma 5-bis, D.lgs. 546/1992, nelle cd. “liti da rimborso” è invece il contribuente a dover fornire le ragioni della richiesta di rimborso del proprio credito, qualora quest’ultimo non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.