Cass. civ. sez.V, sent. 4 ottobre 2023, n. 28017


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. DI PISA Fabio – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 15602/2021 R.G. proposto da:

Comune di Città Sant’Angelo, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso in giudizio dall’avv. …, e presso il suo studio ivi elettivamente domiciliato, in …, come da procura in atti;                                                                                     – parte ricorrente –

contro

…, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso in giudizio dagli avv.ti … elettivamente domiciliato in …, presso lo studio dell’avv. …, come da procura in atti;                                                                                                     – parte controricorrente –

Ricorso avverso sentenza Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo n. 508 del 24.11.2020;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 27 settembre 2023 dal Consigliere Dott. Giacomo Maria Stalla;

udito il Procuratore Generale che ha concluso per l’accoglimento del sesto motivo ed il rigetto degli altri;

Uditi i difensori delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. 1. Il Comune di Città Sant’Angelo propone sei motivi di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale la commissione tributaria regionale, a conferma per la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso della società contribuente per le aree diverse da quelle destinate a servizi ed uffici, ha ritenuto illegittimo il sollecito di pagamento per Tari 2015 notificato alla … Srl , esercente commercio all’ingrosso di abbigliamento (Centro Commerciale (Omissis)).

La commissione tributaria regionale ha in particolare osservato, per quanto concerne le aree a destinazione commerciale in questione, che:

– in ragione della natura e delle dimensioni professionali dell’attività svolta, doveva ritenersi, anche a fronte della perizia di parte versata in giudizio, che la produzione di imballaggi terziari da parte della società fosse in effetti del tutto prevalente rispetto alla produzione di rifiuti riconducibili alla mera presenza di personale nei locali;

– sulla base del decreto Ronchi e del Codice dell’Ambiente di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, i rifiuti da imballaggi terziari, o anche secondari in assenza di raccolta differenziata, non potevano essere assimilati ai rifiuti urbani, con conseguente loro sottrazione al regime di privativa comunale (art. 226, commi 1 e 2, art. 221, comma 4 Codice Ambiente) e disapplicazione, perchè contra legem, dei regolamenti comunali che questa assimilazione avessero disposto;

– come già accertato dai primi giudici, era emerso che la società usufruisse sulle aree di vendita della esenzione dalla Tari in quanto appunto produttive di imballaggi terziari smaltiti in proprio in forza di contratti con società specializzate, quali la Pescara recuperi; dalla perizia giurata risultava inoltre la prevalenza di tali rifiuti speciali non assimilabili anche su quelli secondari e primari, pur considerata la presenza di 9 dipendenti.

Resiste con controricorso la …

Il Comune ha depositato memoria.

  1. 2.1 Con il primo motivo di ricorso il Comune lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4). Per avere la Commissione Tributaria Regionale reso una motivazione assolutamente contraddittoria in ordine all’individuazione della disciplina di riferimento (pag. 3), richiamando dapprima il regime speciale non applicabile del decreto Ronchi salvo poi richiamare, solo a conclusione del lungo excursus normativo, la normativa in effetti applicabile alla Tari 2015.
  1. 2.2 Il motivo non può trovare accoglimento per almeno due dirimenti ragioni.

In primo luogo, l’eventuale contraddittorietà nell’individuazione, da parte del giudice di merito, della pertinente normativa applicabile alla fattispecie (quand’anche fosse effettivamente riscontrabile nella concretezza del caso) si risolverebbe, a tutto concedere, (e ciò pone la doglianza in un ambito di radicale inammissibilità più che di infondatezza) in un vizio di violazione o falsa applicazione di legge (eventualmente sub specie di difetto di sussunzione) suscettibile di essere dedotto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – non n. 4) – quindi non certo in una carenza di motivazione, tanto più nei rigorosi limiti entro i quali quest’ultima può essere oggi ancora fatta valere in sede di legittimità (limiti sostanzialmente riconducibili alla pratica assenza o apparenza di essa).

In secondo luogo, neppure può condividersi che il giudice di merito abbia effettivamente individuato in maniera impropria e contraddittoria la disciplina della fattispecie sottoposta alla sua attenzione, dal momento che – come meglio si vedrà nello svolgimento che segue – la disciplina Tari si pone su un piano di continuità normativa rispetto ai tributi che l’hanno preceduta e che tale continuità normativa è pure ravvisabile anche con specifico riguardo al regime degli imballaggi terziari e secondari; e non può sfuggire come la decisione qui censurata, pur all’esito di un lungo excursus concernente anche il decreto Ronchi, infine si sia basata sull’esplicito richiamo e sulla diretta applicazione del Codice dell’Ambiente di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, in quanto fonte di sistemazione e riordino delle norme in materia ambientale, tra le quali il decreto Ronchi.

  1. 3.1 Con il secondo motivo di ricorso il comune lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997 (Decreto Ronchi), della disciplina Tari (L. n. 147 del 2013, art. 1, commi 641 e 649), del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 221, art. 195, comma 2, lett. e), artt. 224, 226 e art. 198, comma 1), nonchè del Regolamento comunale Tari (art. 3). Per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente affermato, con riguardo ai locali destinati a magazzino e vendita, la non assimilabilità degli imballaggi secondari e terziari costituenti rifiuto (quali quelli pacificamente prodotti dalla società contribuente) e la conseguente disapplicazione del regolamento comunale (allegato al ricorso sub 4) ritenuto contra legem, nonostante che il generale potere comunale di assimilazione sussistesse anche sotto il vigore del Codice dell’ambiente e potesse concernere (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 221) il conferimento anche di rifiuti da imballaggi secondari e terziari ove assimilati per qualità e quantità, come nella specie. Da ciò conseguiva che, in presenza di assimilazione, sussisteva un obbligo, e non una mera facoltà, per gli utilizzatori di conferire al servizio pubblico tali rifiuti in regime di privativa. 
  1. 3.2 Il motivo è infondato perchè frontalmente confliggente con l’ormai consolidato assetto interpretativo adottato, in materia, da questa Corte di legittimità, che di seguito si riassume ed al quale ad ogni buon conto interamente si rinvia (tra le innumerevoli: Cass. nn. 4960/18, 10010/19, 8089/20, più recentemente riprese, proprio in tema di Tari, da Cass. nn. 5429/23, 5578/23, 8962/23 ed altre).

Come è noto, il regime fiscale dei rifiuti, a partire dalla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1993, ha subito nel tempo numerose modifiche legislative, in quanto la TARSU è stata sostituita dalla TIA 1 (tariffa di igiene ambientale), introdotta dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49 (cd. Decreto Ronchi) questa, a sua volta, dalla TIA 2 (tariffa integrata ambientale), di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238 (Codice dell’Ambiente), ed a sua volta sostituita dalla TARES (art. 14 del 6 dicembre 2011, n. 201 del 2011, conv. in L. 22 dicembre 2011, n. 214) ed ancora, infine, dalla TARI (tassa rifiuti) – tributo che costituisce una componente dell’imposta unica comunale (IUC) insieme con l’imposta municipale propria (IMU) ed il tributo per i servizi indivisibili (TASI) – istituita dalla legge di stabilità per l’anno 2014 (L. n. 147 del 2013, art. 1, commi 639 e segg.).

Nella successione legislativa, la TARI – oggetto di causa – ha dunque sostituito, a decorrere dal gennaio 2014, i preesistenti omologhi tributi conservandone, peraltro, la medesima natura tributaria, tanto che questa Corte ha più volte affermato che ad essa sono estensibili gli orientamenti di legittimità formatisi per i tributi che l’hanno immediatamente preceduta, quali appunto la TARSU e la TIA (tra le tante: Cass., Sez. 5, 22 dicembre 2017, n. 22130; Cass., Sez. 5, 26 gennaio 2018, n. 1963; Cass., Sez. 5, 15 maggio 2019, n. 12979; Cass., Sez. 5, 16 novembre 2021, n. 34635).

Il presupposto della TARI (L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 641) è “il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse dalla TARI le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all’art. 1117 c.c., che non siano detenute o occupate in via esclusiva”. Essa è dovuta “da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani” (art. 1, comma 641, L. cit.).

Nella determinazione della superficie assoggettabile ad imposizione (art. 1, comma 649 L. cit.) “non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente. Per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della TARI, il Comune disciplina con proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionali alle quantità di rifiuti speciali assimilati che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo, direttamente o tramite soggetti autorizzati. Con il medesimo regolamento il Comune individua le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all’esercizio di dette attività produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione”.

Per quanto concerne il punto specifico di causa, costituito dallo smaltimento dei rifiuti da imballaggio, si è affermato – con riferimento al previgente D.Lgs. n. 22 del 1997 (artt. 34 e segg.), ma con conclusioni che trovano conferma anche nella disciplina posta dal D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 216 bis e segg. – che essi costituiscono oggetto di un regime speciale rispetto a quello dei rifiuti in genere, regime caratterizzato essenzialmente dalla attribuzione ai produttori ed agli utilizzatori della loro gestione (termine che comprende tutte le fasi, dalla raccolta allo smaltimento); ciò vale in assoluto – secondo le definizioni di legge – per gli imballaggi terziari, per i quali è stabilito il divieto di immissione nel normale circuito di raccolta dei rifiuti urbani, cioè, in sostanza, il divieto di assoggettamento al regime di privativa comunale, ed anche per quelli secondari ove non assistiti da un servizio di raccolta differenziata (v., ex plurimis, Cass., 23 aprile 2020, n. 8088; Cass., 10 aprile 2019, n. 10010).

Ferma quindi restando l’assegnazione ai Comuni della potestà regolamentare di assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani (art. 21 decreto Ronchi e successiva abrogazione della L. n. 146 del 1994, art. 39), resta che in base alla specialità del regime proprio degli imballaggi (secondari e terziari), tale assimilazione è con riguardo ad essi ex lege preclusa, in modo tale che quei regolamenti comunali che una tale assimilazione abbiano invece previsto (come si assume nella specie) vanno perciò disapplicati in parte qua dal giudice tributario, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7, in quanto illegittimi (Cass. n. 627 del 19.10.2011; Cass. n. 627/2012; Cass. n. 4793/2016; Cass. 14414/2017; Cass. n. 6358 e 6359 del 2016 ed altre).

Dunque, indipendentemente dalla assimilazione per Delibera o regolamento, la parte variabile della tariffa non va applicata con riguardo alle superfici di loro produzione continuativa e prevalente.

Come detto, si tratta di conclusione che trova conferma anche alla luce del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 221 e 226, i quali recepiscono anch’essi (art. 218) la pregressa definizione e l’articolazione distintiva degli imballaggi, escludendo il conferimento dei terziari ed ammettendolo per i secondari solo in contesto di attivata raccolta differenziata.

Nè può avere ingresso – sulla base della nozione generale di “rifiuto”, ricondotta a qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi (art. 183, comma 1, lett. a)) – la distinzione operata in ricorso (e ripresa nella memoria del Comune) tra “rifiuti da imballaggi” e “imballaggi ancora utilizzabili”, in ordine ai quali ultimi non si pone in realtà il problema del conferimento e smaltimento se non a loro volta dismessi e, per ciò solo, assunti nella categoria legale dei rifiuti ex art. 183 cit..

Cass. 21130/21 (con richiami anche della Cassazione penale in ordine alla qualificazione di rifiuto: v. Cass. Sez. 3 Pen. Di Micco n. 48737/2013; Cass. Sez. 3 Pen. Rizzi n. 50309/2014), dopo aver ribadito che, ai sensi della citata normativa, i rifiuti degli imballaggi terziari, nonchè quelli degli imballaggi secondari ove non sia attivata la raccolta differenziata, non possono essere assimilati dai Comuni ai rifiuti urbani, nell’esercizio del potere ad essi restituito dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, e che i regolamenti che una tale assimilazione abbiano previsto vanno perciò disapplicati in parte qua dal giudice tributario, ha poi posto in luce come la gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sia stata ridisciplinata dal Titolo 2 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (Codice dell’Ambiente) senza soluzione di continuità (art. 264, comma 1, lett. i), D.Lgs. cit.), con il D.Lgs. n. 22 del 1997 (abrogato), attraverso disposizioni che recepiscono la Direttiva 2004/12/CE, con la quale è stata integrata e modificata la Direttiva 94/62/CE. Sicchè ai sensi dell’art. 218, comma 1, lett. a) del D.Lgs., sopra citato, si intende per imballaggio: “il prodotto, composto di materiali di qualsiasi natura, adibito a contenere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti, a proteggerle, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dai produttore ai consumatore o all’utilizzatore, ad assicurare la loro presentazione, nonchè gli articoli a perdere usati allo stesso scopo”, mentre la successiva lett. f) della medesima disposizione definisce come rifiuto da imballaggio: “ogni imballaggio o materiale di imballaggio, rientrante nella definizione di rifiuto di cui all’art. 183, comma 1, lett. a), esclusi i residui della produzione”, e la lett. g) qualifica “gestione dei rifiuti da imballaggio”: “le attività di gestione di cui all’art. 183, comma 1, lett. d)”.

E’ dunque evidente che l’intera problematica della imponibilità degli imballaggi debba in effetti più propriamente riferirsi ai rifiuti da imballaggio (e così la Commissione Tributaria Regionale nella sentenza impugnata), senza però che questo induca a conclusioni diverse da quelle fin qui esposte; e ciò proprio per il confluire della nozione (anche) di rifiuto di imballaggio nella definizione legale generale di cui all’art. 183 cit., con riguardo alla fase della loro dismissione ed indipendentemente dalla possibilità di recupero o riutilizzo ad opera di terzi.

  1. 4.1 Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 649 legge Tari e 9 Regolamento, nonchè dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., comma 2. Per avere la Commissione Tributaria Regionale riconosciuto l’esclusione da Tari sull’intera superficie di magazzino ed area vendita (per circa 1400 m2), nonostante che la natura dell’attività svolta (commercio all’ingrosso di cuoio, pellami ed affini) nonchè la costante presenza umana (inclusi sei dipendenti) rendessero di comune esperienza la produzione anche di rifiuti urbani assimilati, con la seguente mera riduzione dell’imposta secondo quanto previsto dall’art. 9 del regolamento comunale appunto per i casi di produzione promiscua. In ogni caso, la società non aveva provato, com’era suo onere, la produzione nei locali in via continuativa e prevalente di rifiuti speciali non assimilati ex art. 1, comma 649 cit..
  1. 4.2 Il motivo è infondato.

Rileva che il giudice di merito, con vaglio logicamente motivato ed insindacabile di tutte le risultanze istruttorie fornite dalla parte privata, si sia convinto della raggiunta dimostrazione di tutti i presupposti della non tassabilità delle superfici in esame (magazzino e vendita); e ciò proprio in ragione di una valutazione di continuità e prevalenza nella produzione in esse di imballaggi non assimilabili.

Non si ritiene che questa valutazione possa essere efficacemente censurata in diritto in ragione di una non meglio comprovata “comune esperienza” circa la contemporanea produzione altresì di rifiuti solidi urbani e comunque assimilabili; contemporanea produzione che potrebbe anzi darsi addirittura per notoria e pacifica, ma che ancora di per sè non inficerebbe il presupposto normativo della esclusione da imposizione. Tanto più a fronte di una disciplina legislativa, qual è quella Tari, che non riconduce la causa di esenzione alla produzione “esclusiva” e totalizzante di rifiuti non assimilabili, bensì alle sue caratteristiche di continuità e prevalenza.

Sicchè ben poteva il giudice di merito convincersi del fatto che, pur nella riconosciuta frequentazione dei locali da parte di alcuni dipendenti e di clienti (ma sempre sulla base delle caratteristiche del commercio all’ingrosso e della gestione a distanza di molti ordinativi), la continuità e prevalenza nella produzione dei rifiuti spettasse appunto agli imballaggi terziari e secondari non assimilabili. Ciò è desunto in sentenza sulla base della perizia tecnica in atti ed appunto della ricostruzione delle modalità ordinarie di svolgimento dell’attività all’ingrosso, comportante utilizzo pressochè esclusivo di imballaggi non assimilabili a fronte di modesto accesso fisico di clientela e gestione telematica degli ordini.

  1. 5.1 Con il quarto motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1 n. 4 – nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ed omessa pronuncia sull’eccezione opposta dal comune, tanto in primo quanto in secondo grado, circa il mancato puntuale adempimento, da parte della società, degli obblighi dichiarativi; ciò perchè la società aveva presentato una dichiarazione di variazione 29 gennaio 2015 del tutto generica in ordine alla tipologia dei rifiuti speciali non assimilabili prodotti, salvo inammissibilmente allegare soltanto nel corso del giudizio che si trattava di scarti da imballaggi secondari e terziari.

Con il quinto motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 649 e 684 legge Tari, nonchè art. 25 Regolamento comunale. Per non avere la Commissione Tributaria Regionale considerato che era onere della società dichiarare le superfici produttive dei rifiuti speciali non assimilabili, la natura dei rifiuti stessi ed ogni altro elemento utile a superare la presunzione di imponibilità dei locali produttivi di rifiuti; là dove, nel caso di specie, la dichiarazione presentata dalla società (allegata al ricorso sub 5) risultava assai vaga perchè facente esclusivo riferimento alla “produzione di rifiuti speciali non assimilabili”, senza neppure indicare la tipologia dei rifiuti prodotti secondo i codici CER; nè, diversamente da quanto affermato dal collegio regionale, questa indeterminatezza poteva essere colmata nel corso del giudizio.

  1. 5.2 Questi due motivi di ricorso, – suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle questioni giuridiche da essi poste – sono infondati.

Fermo restando che era effettivamente onere della società dichiarare inizialmente, o in sede di variazione, i presupposti di esclusione del tributo sulle superfici di produzione continuativa e prevalente di rifiuti speciali non assimilabili, tale onere doveva qui ritenersi soddisfatto; e ciò proprio nella delibazione della dichiarazione di variazione a tal fine presentata dalla società nel gennaio 2015, allegata al ricorso ed al controricorso.

Questa dichiarazione risultava sostanzialmente rispondente alle finalità normative di conoscenza e verificabilità, sul rilievo che essa conteneva, anche a mezzo di allegata planimetria e relativa legenda, la specifica indicazione dei vari locali utilizzati dalla società per vendita, deposito, uffici, ingresso e servizi, con attribuzione ripartita ai singoli settori delle superfici produttive di rifiuti solidi urbani ovvero di rifiuti speciali non assimilabili e smaltiti con servizio privato; il che si conformava, secondo la modulistica messa a tal fine a disposizione dal Comune, tanto all’art. 1, commi 649 e 684 legge Tari, quanto all’art. 25 del Regolamento comunale.

Vero è piuttosto che la doglianza in esame pare indebitamente sovrapporre i requisiti dichiarativi della denuncia ex art. 1, comma 684 cit., con la vera e propria “prova” della natura dei rifiuti speciali non assimilabili prodotti, delle superfici di relativa produzione e dello smaltimento in proprio.

Sul punto si osserva che seppure l’onere della prova dei fatti costituenti l’obbligazione tributaria spetta in via generale all’Amministrazione, per quanto attiene alla quantificazione della tassa è posto a carico dell’interessato un onere di informazione, di denuncia e di prova nella individuazione di quella superficie si assuma non tassabile, e quindi sottratta alla presunzione di produzione di rifiuti ricollegata per legge, come si è detto, alla sola detenzione di locali ad essa idonei.

Sennonchè il giudice di merito in doppio grado, con ciò rispettando e non sovvertendo la regola dell’onere probatorio, ha reputato – all’esito di una complessiva, argomentata e qui certo non rivedibile valutazione del quadro istruttorio, tra l’altro comprensivo dei formulari rifiuti, dei contratti stipulati con imprese terze, della perizia giurata di parte contribuente – che quest’ultima avesse pienamente soddisfatto l’onere dimostrativo (oltre che quello dichiarativo, con espressa menzione in denuncia della produzione di rifiuti tipologicamente definiti come “speciali” nelle aree in questione) posto a suo carico.

  1. 6.1 Con il sesto motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 158 del 1999, art. 3, art. 1, commi 649 e 654 legge Tari, nonchè 13 del Regolamento Comunale. Per avere la Commissione Tributaria Regionale escluso in toto, sui locali adibiti a magazzino e vendita, l’imposizione, nonostante che, in base all’art. 3 D.P.R. cit. (elaborazione del metodo normalizzato di definizione della tariffa), fosse comunque sempre dovuta una parte fissa di tariffa determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio generale, tanto che anche la riduzione prevista dal Regolamento aveva ad oggetto esclusivamente la parte variabile.
  1. 6.2 Il motivo è fondato.

La L. n. 147 del 2013 (art. 1, comma 651) dispone che “Il Comune nella commisurazione della tariffa tiene conto dei criteri determinati con il regolamento di cui al D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158”; e il D.P.R. n. 158 del 1999 cit., nel disciplinare i relativi criteri, articola la tariffa in una quota fissa ed in una quota variabile, disponendo che: – la tariffa “è composta da una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione.” (art. 3, comma 2); – ai fini della “attribuzione della parte variabile della tariffa gli enti locali organizzano e strutturano sistemi di misurazione delle quantità di rifiuti effettivamente conferiti dalle singole utenze. Gli enti locali non ancora organizzati applicano un sistema presuntivo, prendendo a riferimento per singola tipologia di attività la produzione annua per mq ritenuta congrua nell’ambito degli intervalli indicati nel punto 4.4 dell’allegato 1.” (art. 6, comma 2); – “Per le utenze non domestiche, sulla parte variabile della tariffa è applicato un coefficiente di riduzione, da determinarsi dall’ente locale, proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato a recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi.” (art. 7, comma 2).

Sulla base di questa articolazione tra parte variabile e parte fissa, si è quindi già più volte osservato come, quanto appunto alla quota fissa, l’imposizione muova in “relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti” (art. 49, comma 4, cit.), ed abbia la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni”, cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio, ma anche “esterni”, quali i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico; in modo da coprire anche le pubbliche spese afferenti ad un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e non riconducibile a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente (v. Cass., 23 maggio 2019, n. 14038 ed innumerevoli altre anche in materia di Tari).

Da ciò consegue che – esclusa nella specie l’applicazione del tributo con riferimento alla sua quota variabile – ne residuava comunque la relativa applicazione invece a riguardo della quota fissa che, come detto, attiene alla contribuzione generale ai costi complessivi del servizio e che prescinde dalla effettiva produzione di rifiuti urbani o speciali, assimilabili o no.

Si tratta, a ben vedere, di una conclusione che non fuoriesce dal perimetro delle domande e delle eccezioni di parte, se solo si consideri che l’affermazione della debenza della (sola) parte fissa del tributo sulle superfici in esame, da un lato, si poneva pur sempre ben all’interno della maggior pretesa dell’amministrazione comunale, sortendo l’effetto di semplicemente ridurre il petitum complessivamente dedotto dal Comune con l’atto impositivo opposto e, dall’altro, scaturiva direttamente dal governo “in diritto” della fattispecie impositiva, come tale ascrivibile all’applicazione della legge dovuta al giudice tributario sulla base di circostanze fattuali già da lui ritenute assodate. Nè, ad escludere qualsivoglia violazione del divieto di novità e di immutazione del tema decisionale o probatorio, il Comune aveva mai in corso di giudizio abdicato dalla richiesta di conferma integrale dell’atto impositivo opposto, certamente comprensivo anche della parte fissa di tassa sulle stesse aree erroneamente ritenute in toto esenti dal Collegio regionale.

  1. 7. In definitiva il ricorso va accolto limitatamente alla debenza della quota fissa della Tari per l’annualità dedotta, con conseguente necessità di cassazione in parte qua della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado dell’Abruzzo la quale, in diversa composizione, determinerà l’ammontare dovuto sulle aree in questione in ragione di tale quota fissa.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il ricorso limitatamente alla debenza della quota fissa Tari;

cassa in parte qua la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado dell’Abruzzo, anche per le spese, in diversa composizione.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria riunitasi, il 27 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2023


MASSIMA: L’imposizione della quota fissa della TARI muove in “relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti” (art. 49, comma 4, D.Lgs. n. 22 del 1997) ed ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni”, cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio, ma anche “esterni”, quali i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico; in modo da coprire anche le pubbliche spese afferenti ad un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e non riconducibile a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. Dunque, l’applicazione della quota fissa della TARI attiene alla contribuzione generale ai costi complessivi del servizio e prescinde dalla effettiva produzione di rifiuti urbani o speciali, assimilabili o no, così che l’eventuale esonero dal pagamento della TARI è limitato solo alla quota variabile.