Cass. civ., Sez. V, 19 giugno 2024, n. 16899


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta da

Dott. DE MASI Oronzo -Presidente

Dott. CANDIA Ugo – Consigliere

Dott. DI PISA Fabio – Consigliere

Dott. BILLI Stefania – Consigliere Rel.

DOTT. DELL’ONZO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20214/2022 R.G. proposto da …, in persona del rappresentante legale p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. …, presso il cui studio è elettivamente domiciliata, in …                                                                                                    – ricorrente –

contro

Roma Capitale, in persona del sindaco p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. …, elettivamente domiciliata presso gli uffici dell’Avvocatura capitolina, in …                                                                                                                                                            – controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 215/2022 depositata il 19 gennaio 2022;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 maggio 2024 dal Consigliere Stefania Billi.

Svolgimento del processo

La controversia ha ad oggetto un avviso di accertamento (n. omissis) con cui il Roma Capitale (d’ora in poi controricorrente) ha chiesto alla … Srl (d’ora in poi ricorrente) il pagamento dell’Imu 2012.

La questione riguarda l’esatta individuazione dell’immobile oggetto di imposizione.

La CTP ha accolto il ricorso, sul presupposto che la contribuente, odierna ricorrente, avesse dimostrato che l’immobile oggetto di accertamento non era di sua proprietà.

La CTR ha riformato la pronuncia di primo grado, accogliendo l’appello dell’odierno controricorrente, sulla base delle seguenti ragioni:

– la visura catastale attribuisce alla società appellata la proprietà dell’immobile catastalmente identificato al foglio …, particella …, subalterno … sito in …, n. (omissis);

– fermo restando che il diritto di proprietà non può essere provato in base alla mera annotazione di dati nei registri catastali, tuttavia, l’intestazione catastale di un immobile ad un determinato soggetto fa sorgere una presunzione sulla veridicità di tali risultanze, superabile attraverso la prova contraria a carico del contribuente;

– nella specie l’appellata, risultante intestataria dell’immobile oggetto del giudizio, non ha fornito adeguata prova contraria circa la carenza di possesso dell’immobile e circa la mancanza di titolarità del diritto di proprietà sul cespite;

– nello stesso senso milita la circostanza che la stessa parte appellata abbia promosso ricorso tributario avverso l’avviso di accertamento con il quale era stata rideterminata la classe, da 3 a 6, dell’immobile come sopra catastalmente identificato, elevandone la rendita da Euro 7.065,13 ad Euro 11.137,39, ricorso respinto sia in primo grado (sentenza CTP 13155/05/16 del 2030.05.2016), sia in secondo grado (sentenza CTR Lazio, 3213/05/18 del 09.04-15.05.2018); in quest’ultimo giudizio, peraltro, nessuna contestazione è stata mossa sulla disponibilità dell’immobile in capo alla società appellata;

– i dati tecnici offerti dall’appellata non raggiungono la prova contraria, in quanto l’atto di acquisto del 23.07.1979 in Notar Castelnuovo comprende cinque immobili, uno dei quali -descritto alla lettera D) – è, all’evidenza, porzione dell’immobile oggetto del gravame, essendo ubicato in via …, n. (omissis), ed avendo una consistenza inferiore (due camere ed accessori) rispetto a quello di cui si controverte;

– si deve concludere che l’immobile oggetto di appello costituisca l’esito di una variazione catastale del 04.06.1987 in cui fu operata una fusione di più unità immobiliari di cui faceva parte anche uno degli immobili acquistati dalla società contribuente con atto in Notar Castelnuovo del 23.07.1979, segnatamente l’immobile descritto alla lettera D); rispetto, poi, alla mancanza di titolarità delle altre unità immobiliari coinvolte nell’opera di fusione e di cui vi è traccia nella visura catastale storica (attraverso la indicazione delle unità soppresse) nessuna prova è stata offerta dall’appellante.

La ricorrente propone ricorso fondato su un unico motivo, la controparte resta intimata.

Ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., il consigliere delegato ha proposto la definizione anticipata del giudizio per manifesta infondatezza.

La ricorrente ha proposto istanza di decisione del ricorso.

Motivi della decisione

  1. Con l’unico motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, consistente nella diversa ubicazione dell’immobile assoggettato ad imposizione rispetto a quello dalla stessa denunciato, nonché nella connessa circostanza di non essere mai stata proprietaria dell’immobile oggetto di imposizione.

2.2. Il motivo è inammissibile.

2.3. Occorre premettere che la sentenza impugnata ha correttamente affermato il valore presuntivo delle mappe catastali (in tal senso Cass. Sez. 2, n. 7567/2019, Rv. 653289 -01; Sez. 2, n. 16094/2003, Rv. 567698 – 01).

Con riferimento all’Ici, ma il principio deve essere esteso anche all’Imu, stante la forte similitudine tra i due tributi, è stato sostenuto in modo del tutto condivisibile che l’intestazione catastale di un immobile ad un determinato soggetto, pur se il catasto è preordinato a fini essenzialmente fiscali, fa sorgere comunque una presunzione sulla veridicità di tale risultanza, ponendo, pertanto, a carico del contribuente l’onere di fornire la prova contraria per l’esenzione dal pagamento dell’imposta (Cass. Sez. 5, n. 16775/2017, Rv. 644888 – 01). Corretta, pertanto, è stata la ripartizione degli oneri probatori tra le parti del giudizio.

Posta questa premessa, si osserva che la sentenza impugnata ha ritenuto, non solo, che l’odierna ricorrente non ha dimostrato di non essere proprietaria dell’immobile in contestazione, ma anche che non ha neanche dimostrato di non possedere tale cespite. Tale ultima censura non è stata minimamente attinta dal motivo di ricorso oggi in esame.

In proposito deve essere ribadito il consolidato principio di legittimità, secondo cui nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo, che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, in toto o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (tra le molte, Cass. Sez. U, n. 16602/2005, Rv. 582945 – 01, Sez. 1, n. 2811/2006, Rv. 586593 – 01, Sez. U, n. 10374/2007, Rv. 596410 – 01).

Sotto un ulteriore profilo, giova ricordare che, in tema di scrutinio di legittimità del ragionamento sulle prove adottato del giudice di merito, la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante – costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della S.C. (con la conseguenza che, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non è denunciabile col ricorso per cassazione come vizio della decisione di merito), restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (Cass. Sez. 3, n. 37382/2022, Rv. 666679 – 05). Tale principio è da porre in linea con quanto già da tempo affermato in sede di legittimità, ovvero che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U, n. 34476/2019, Rv. 656492 – 03, Sez. 1, n. 5987/2021, Rv. 660761 – 02).

  1. Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

Le spese devono essere regolate secondo il principio della soccombenza.

La decisione del Collegio è conforme alla proposta di definizione accelerata, formulata, ai sensi dell’art. 380 bis, cod. proc. civ. e, quindi, trovano applicazione le previsioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ, sulla condanna della parte soccombente al pagamento in favore della controparte di una somma di denaro equitativamente determinata, ed in favore della Cassa delle ammende di una somma non inferiore a Euro 500,00 e non superiore ad Euro 5000,00.

L’art. 380-bis cod. proc. civ. configura uno strumento di agevolazione della definizione delle pendenze in sede di legittimità, anche tramite l’individuazione di strumenti dissuasivi di condotte rivelatesi ex post prive di giustificazione, e, quindi, idonee a concretare, secondo una valutazione legale tipica compiuta dal legislatore delegato (D.Lgs. n. 149 del 2022), un’ipotesi di abuso del diritto di difesa (Cass., Sez. U., n. 28540/2023, Rv. 669313 – 01, Sez. 2, n. 11346/2024). Richiamando, per i casi di conformità tra proposta e decisione finale, l’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., l’art. 380-bis, cod. proc. civ. codifica, attraverso una valutazione legale tipica compiuta dal legislatore delegato, una ipotesi di abuso del processo, già immanente nel sistema processuale, giacché non attenersi alla delibazione del Presidente o del Consigliere delegato alla definizione accelerata dei ricorsi che trovi poi conferma nella decisione finale, lascia presumere una responsabilità aggravata (Cass., Sez. U., n. 27195/2023, Rv. 668850 – 01).

Va, tuttavia, esclusa, come anche ha opportunamente precisato la Corte (Cass., Sez. U., n. 36069/2023), “una interpretazione della norma che conduca ad automatismi non in linea con una lettura costituzionalmente compatibile del nuovo istituto, dovendo l’applicazione in concreto delle predette sanzioni rimanere affidata alla valutazione delle caratteristiche del caso di specie.”.

Ciò detto, nel caso in esame, che non presenta peculiarità di sorta, non si rinvengono ragioni per discostarsi dalla sopra detta previsione legale.

Per l’effetto va disposta la condanna della ricorrente al pagamento di Euro 1.500,00 (valutata equitativamente) in favore della costituita controparte, e di ulteriori Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo

unificato dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida nell’importo di Euro 1.500,00, per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario e accessori di legge, nella misura del 15%. Condanna, altresì, la ricorrente al pagamento della somma di Euro 1.500,00 in favore della controricorrente, e di Euro 1.500,00 in favore della cassa ammende.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma il 15 maggio 2024.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2024.


MASSIMA: In tema di controversie relative all’Imu, l’intestazione catastale di un immobile ad un determinato soggetto fa sorgere una presunzione sulla veridicità di tale risultanza, ponendo a carico del contribuente l’onere di fornire la prova contraria per l’esenzione dal pagamento dell’imposta.