Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sez. XXIV, 02.12.2019 n. 4846
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La controversia qui in discussione trae origine dalla notifica di un atto di contestazione emanato dall’ufficio provinciale di Lecco, con il quale l’agenzia delle entrate contestava le compensazioni effettuate nell’anno 2012, avendo riscontrato il superamento del limite di Euro 516.456,90, previsto per ciascun anno solare, in relazione al quale veniva altresì irrogata la sanzione del 30% sull’importo compensato in eccedenza (Euro 37.434,56..). Con ricorso presentato in data 22 febbraio 2018, la società impugnava l’atto di contestazione, sostenendo di aver correttamente effettuato i pagamenti mediante compensazione, in quanto riteneva che il limite di Euro 516.456,90 dovesse essere riferito, non già all’anno solare, ma all’anno d’imposta. La CTP di Lecco, con la sentenza n. 256/01/2018, oggi gravata dal presente appello, respingeva il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite, stante il chiaro tenore letterale della normativa di riferimento.
L’odierna impugnante proponeva quindi appello ribadendo le proprie argomentazioni concernente la locuzione “anno d’imposta”, che sarebbe stata sostituita con quella “anno solare”, rendendo però del tutto incomprensibile la seguente parte della disposizione, che prevede che la compensazione “deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva”. Riteneva quindi che il giudicante avesse mal interpretato la normativa, giudicando come eccedenti le compensazioni effettuate fino al 16 febbraio del 2012, giacché relative al 2011.
Invocava poi l’applicazione dell’art. 10 dello Statuto del Contribuente, argomentando in ordine all’esistenza di un’obiettiva condizione di incertezza normativa. Chiedeva quindi l’integrale riforma della sentenza n. 256/1/2018, pronunciata dalla sez. 1 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecco, il 21 novembre 2018, con vittoria di spese e onorari.
L’ufficio si costituiva in giudizio, in data 11 luglio 2019, sostenendo invece la bontà della decisione del primo giudice. In particolare, richiamava il testo dell’art. 34 comma 1 del D.Lgs. n. 158 del 2015, a norma del quale “a decorrere dal 1 gennaio 2001 il limite massimo dei crediti di imposta e dei contributi compensabili ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, ovvero rimborsabili ai soggetti intestatari di conto fiscale, è fissato in 516.456,90 Euro per ciascun anno solare”. Riteneva quindi chiara la norma, laddove pone in correlazione il limite di Euro 516.456,90 al singolo anno solare, disposizione che, come correttamente evidenziato dal giudice di prime cure, sostituiva il precedente riferimento all’anno d’imposta, proprio al fine di garantire allo Stato un certo gettito annuale. Con specifico riferimento all’invocata applicazione dell’art. 10 dello Statuto del contribuente, l’ufficio evidenziava il fatto che si trattasse evidentemente di nuovo motivo, mai ritualmente dedotto in primo grado, come tale inammissibile. Concludeva quindi chiedendo l’integrale rigetto dell’appello di controparte, con vittoria di spese e onorari.
In data 25 ottobre 2019, l’appellante depositava un’ulteriore memoria, con la quale replicava alle controdeduzioni dell’ufficio, soffermandosi in particolare sulla possibilità per la Commissione Tributaria Regionale adita di disapplicare le sanzioni amministrative irrogate, in ragione della sussistenza di obiettive condizioni d’incertezza, mai smentite dalla agenzia resistente.
Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle loro richieste ed eccezioni.
Il Collegio giudicante così decide. La sentenza di primo grado viene confermata in toto in quanto appare prima facie completa ed esaustiva. L’AdE di Lecco notificava alla società R. Srl atto di contestazione, mediante il quale comunicava di aver controllato le compensazioni effettuate nell’anno 2012 e, riscontrato il superamento del limite di Euro 516.456,90, di aver irrogato la sanzione del 30% sull’importo compensato in eccedenza, pari a Euro 37.434,56. Con tempestivo ricorso la società impugnava l’atto di contestazione emesso dall’ufficio, sostenendo di aver correttamente effettuato i pagamenti mediante compensazione, in quanto il limite di Euro 516.456,90 era riferibile, non già all’anno solare, ma all’anno d’imposta. Il primo giudice rigettava il ricorso e la società impugnava la sentenza qui gravata. Su tali premesse, questo Giudice d’appello, così decide.
La società ritiene che il limite delle compensazioni sia riferibile all’anno d’imposta e non all’anno solare e che le compensazioni effettuate in data 16 gennaio 2012 e in data 16 febbraio 2012, per un totale di Euro 37.434,56 vadano scomputate dal totale, in quanto riferibili all’anno d’imposta 2011.
Al fine di legittimare la propria condotta, la società cita l’art. 17 comma 1 del D.Lgs. n. 241 del 1997, secondo la cui lettera, i versamenti delle imposte possono essere effettuati con eventuale compensazione di crediti dello stesso periodo, compensazione che deve avvenire entro la data di presentazione della dichiarazione successiva. Tale disposizione, secondo il Collegio giudicante, fornisce le regole sull’utilizzo dei crediti, senza dire nulla sul limite massimo di compensazioni effettuabili.
Tale limite si rinviene, invece, nell’art. 34 comma 1 del D.Lgs. n. 158 del 2015, secondo la cui lettera “a decorrere dal 1 gennaio 2001 il limite massimo dei crediti di imposta e dei contributi compensabili a’ sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, ovvero rimborsabili ai soggetti intestatari di conto fiscale, è fissato in 516.456,90 Euro, per ciascun anno solare”.
Come si vede, la norma è chiara nel mettere in correlazione il limite dell’importo sopra citato, al singolo anno solare. Il riferimento all’anno solare sostituiva il precedente riferimento all’anno d’imposta, proprio al fine di garantire allo Stato un certo gettito annuale. La condotta di parte appellante risulta, pertanto, contraria non solo alla lettera della legge, ma anche alla ratio di quest’ultima, volta ad evitare squilibri nel gettito fiscale annuo.
La società invoca, inoltre, l’applicazione dell’art. 10 dello Statuto del Contribuente sostenendo che la sanzione non sarebbe irrogabile, stante la sussistenza di “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”. Il motivo è nuovo e, pertanto, deve essere respinto. Tale questione poteva essere ritualmente introdotta solo con il ricorso di primo grado e non nell’atto di appello. Ciò perché il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 24, esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione (da ultimo sentenza n. 15051/2014 Corte di cassazione).
Sulla scorta di quanto sopra esposto, è evidente la violazione degli articoli 21, 24 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 61 D.P.R. n. 600 del 1973 dato che la società chiede al collegio d’appello di pronunciarsi su una questione, sollevata per la prima volta nel presente giudizio.
Sono queste le ragioni per le quali la pronuncia di primo grado viene confermata in toto e rigettate le richieste formulate in sede di appello.
Spese del giudizio
Le spese del giudizio seguono la soccombenza, come da dispositivo.
Il collegio giudicante
P.Q.M.
conferma la sentenza di primo grado. Condanna parte soccombente alle spese di giudizio quantificate in Euro 800,00 (ottocento Euro).
Milano, il 19 novembre 2019.
COMMENTO
La sentenza in commento respinge l’appello della società contribuente e conferma integralmente la statuizione di primo grado.
In particolare, respinge il motivo di appello relativo alla mancata debenza delle sanzioni amministrative, ex art. 10 Legge 27.07.2000 n. 212 (cd. Statuto del contribuente).
Tale norma, al comma 3, prevede che “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria”.
Si tratta, peraltro, di una norma analoga a quella dell’art. 6, comma 2, D.lgs. 18.12.1997 n. 472 (“Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono”) e dell’art. 8 D.lgs. 31.12.1992 n. 546 (“La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”).
Tale motivo di appello viene tuttavia respinto (i.e.: ritenuto inammissibile), in quanto proposto per la prima volta solo in secondo grado.
Viene così confermato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative, derivante dalle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria, può essere ritualmente introdotta solo con il ricorso di primo grado, mentre è inammissibile se dedotta per la prima volta con l’atto di appello. Quest’ultimo, anche in ambito tributario, non costituisce un novum judicium, bensì solo una revisio prioris instantiae, in quanto il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti con il ricorso di primo grado, il cui ambito può essere modificato solo mediante la presentazione di motivi aggiunti (art. 24 D.lgs. 546/1992), peraltro ammissibili esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione” (si veda, in tal senso, Cass. civ., sez. V, 02.07.2014 n. 15051).