L’espressione “funzionario di fatto” viene utilizzata con riferimento a quelle ipotesi in cui l’atto di investitura del titolare dell’organo sia viziato o manchi del tutto.

Data l’assenza di un preciso riferimento normativo, non c’è uniformità di vedute in dottrina relativamente alle figure riconducibili sotto tale denominazione.

Secondo l’orientamento prevalente, l’esercizio di fatto di pubbliche funzioni trova il proprio fondamento nel principio di effettività e di affidamento.

Esso si verifica dunque tutte le volte in cui una pubblica funzione, che sia essenziale o indifferibile, sia stata effettivamente esercitata da un soggetto che non possa essere considerato organo della pubblica amministrazione, a condizione che tale esercizio sia stato accompagnato dalla convinzione pubblica della validità e dell’efficacia degli atti posti in essere da quel soggetto. In tal caso, infatti, l’esercizio effettivo di funzioni pubbliche determina la nascita di un rapporto precario di servizio.

Presupposti essenziali affinché l’attività del funzionario di fatto possa considerarsi produttiva di effetti sono quindi due:

  • il fatto che l’esercizio di quella determinata funzione pubblica si presenti come essenziale (ossia tale che, senza di esso, l’ordinamento non possa reggersi) o almeno indifferibile (ossia che non possa essere rimandato ad un momento successivo);
  • il fatto che i destinatari degli atti compiuti nell’esercizio di tale funzione siano convinti dell’autorità di chi li ha posti in essere.

Quando ricorrano tali requisiti, gli atti compiuti dal funzionario di fatto sono validi ed efficaci ed i risultati di tale attività sono direttamente imputabili alla Pubblica Amministrazione, anche se chi ha agito non poteva essere considerato un suo organo.

Per quanto concerne il regime giuridico degli atti compiuti dal funzionario di fatto, la giurisprudenza, applicando la regola del cd. “fatto compiuto”, ritiene che, una volta decorsi i termini per l’impugnativa dell’atto di investitura (allorché esistente), gli atti siano validi, fatta sempre salva la loro impugnabilità per un vizio diverso da quello di incompetenza.

Secondo una recente teoria, il problema di fondo della tematica del funzionario di fatto è quello relativo alla tutela dei destinatari degli atti dallo stesso emanati. 

In particolare, secondo tale teoria, la soluzione del problema va differenziata a seconda che l’attività del funzionario di fatto abbia prodotto effetti favorevoli per i terzi o, al contrario, effetti pregiudizievoli per essi. 

Nel primo caso, il principio generale dell’ordinamento di tutela dell’affidamento dei terzi porta senza dubbio a concludere per la piena efficacia di tale attività. 

Nel secondo caso, invece, occorrerebbe operare un’ulteriore distinzione tra l’ipotesi di usurpazione e le ipotesi residuali. 

Nelle fattispecie di usurpazione, configurandosi una vera e propria nullità, il terzo pregiudicato potrebbe far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale senza alcun tipo di preclusione. 

Negli altri casi (e quindi, in particolare, nel caso di atti emanati dal funzionario la cui nomina risulti viziata e, pertanto, caducabile), il terzo non può dedurre il vizio di incompetenza quando l’atto di nomina viziato sia divenuto inoppugnabile per decorso dei termini.

Infine, ci si è posti il problema della configurabilità di una gestione di affari propri della pubblica amministrazione, assunta spontaneamente da soggetti estranei ad essa, secondo le norme di cui agli artt. 2028 e ss. c.c.

Essa deve escludersi per quanto riguarda lo svolgimento di attività pubbliche, in virtù del principio generale di prohibitio domini relativo allo svolgimento delle stesse da parte di soggetti estranei alla pubblica amministrazione.

La giurisprudenza appare invece generalmente favorevole all’applicazione dell’istituto della gestione di affari altrui, relativamente all’attività jure privatorum della pubblica amministrazione, che in tal caso versa in una posizione analoga a quella di qualsiasi altro soggetto privato. 

Tuttavia, spetta alla pubblica amministrazione (e non al giudice ordinario, impossibilitato a sostituirsi ad essa nelle sue valutazioni discrezionali) valutare l’utilità iniziale della gestione (utiliter coeptum). 

Ai fini di tale riconoscimento, la più recente giurisprudenza ha peraltro ritenuto sufficiente la circostanza che la pubblica amministrazione, pur in assenza di un’esplicita dichiarazione in tal senso, abbia fatto propri gli effetti favorevoli dell’attività compiuta da terzi con atto positivo o con un comportamento concludente.