Accanto al silenzio, l’ordinamento prevede la figura del cd. “atto amministrativo implicito”. Si tratta di un atto della Pubblica Amministrazione, che non si estrinseca attraverso le forme tipiche del provvedimento amministrativo, ma che assume valore analogo a quest’ultimo.

La differenza tra il silenzio e l’atto amministrativo implicito consiste nel fatto che il primo si caratterizza per una mancanza di volontà positiva, mentre nel secondo la volontà positiva dell’amministrazione  discende da un altro provvedimento o da un comportamento della Pubblica Amministrazione. In tal modo l’atto, sebbene indirettamente, viene esteriorizzato.

Affinché si configuri un atto amministrativo implicito, è necessario che:

  • vi sia a monte una manifestazione espressa di volontà dell’amministrazione;
  • detta manifestazione discenda da un organo della Pubblica Amministrazione competente e nell’esercizio delle proprie funzioni;
  • tale atto non debba rivestire una forma determinata a pena di nullità;
  • la manifestazione di volontà dell’amministrazione si esteriorizzi in modo non equivoco.

In relazione alla tematica del silenzio viene in rilievo il problema della sopravvenienza del provvedimento amministrativo dopo che, a seguito dell’inerzia dell’amministrazione, sia stato proposto ricorso al Giudice amministrativo o ricorso straordinario al Capo dello Stato.

In caso di silenzio-inadempimento, l’amministrazione non perde il potere di pronunciarsi sulla situazione oggetto dell’istanza, che ha determinato la formazione del silenzio. In tal senso si esprime l’art. 117, comma 5, D.lgs. 02 luglio 2010 n. 104 (Codice del processo amministrativo), secondo cui, se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito. 

In sostanza, quindi, si verifica una conversione obbligatoria del rito camerale in rito ordinario ed il contenzioso si concentra sul provvedimento espresso sopravvenuto.

In materia di provvedimento sopravvenuto dopo l’impugnativa del silenzio determinatosi per la mancata decisione di un ricorso gerarchico, si sono formati tre orientamenti giurisprudenziali.

Prima dell’emanazione del D.P.R. 1199/1971 e della Legge 1034/1971, la giurisprudenza riteneva che, nonostante la scadenza del termine previsto per la decisione e la pendenza del ricorso giurisdizionale, la Pubblica Amministrazione potesse comunque decidere il ricorso gerarchico. Il provvedimento esplicito sopravvenuto determinava la cessazione della materia del contendere. Il provvedimento esplicito sopravvenuto di rigetto del ricorso gerarchico onerava il ricorrente della proposizione del ricorso giurisdizionale nei termini di legge (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 03 maggio 1960 n. 8).

Dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 1199/1971 e della Legge 1034/1971, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che la Pubblica Amministrazione, decorso il termine di novanta giorni ex art. 6 D.P.R. 1199/1971 e art. 20 Legge 1034/1971, e maturata quindi una vera e propria decisione tacita di rigetto, non possa più decidere il ricorso gerarchico, anche in mancanza di un ricorso giurisdizionale o straordinario (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 07 febbraio 1978 n. 4).

Secondo un diverso indirizzo giurisprudenziale, invece, la Pubblica Amministrazione conserva il potere di decidere il ricorso gerarchico, nonostante la scadenza del termine di novanta giorni e l’eventuale proposizione di un ricorso giurisdizionale o straordinario. Il decorso del termine di novanta giorni non costituisce infatti un provvedimento tacito, ma solo un presupposto processuale che consente al privato di ricorrere in via giurisdizionale o straordinaria, impugnando il provvedimento originario unitamente all’eventuale decisione tardiva sul proposto ricorso gerarchico (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 22 ottobre 2014 n. 2532). Tale conclusione è avvalorata dalla lettera dell’art. 6 D.P.R. 1199/1971, che prevede l’esperibilità del ricorso giurisdizionale o straordinario non già avverso il provvedimento tacito di rigetto, bensì contro il provvedimento originario, già impugnato in  sede gerarchica (cd. “provvedimento base”).

Infine, il decorso del termine previsto per la maturazione del silenzio assenso comporta la consumazione del potere di decidere sull’istanza da parte della Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, l’inammissibilità di una pronuncia tardiva di rigetto.

In altri termini, la Pubblica Amministrazione, in caso di insussistenza dei requisiti per lo svolgimento dell’attività da parte del privato, può utilizzare i propri poteri di autotutela, ma non può emanare un provvedimento tardivo di rigetto.

Sul piano della tutela giurisdizionale dell’istante, ne consegue la legittimazione di quest’ultimo ad impugnare il provvedimento tardivo di diniego, intrinsecamente illegittimo, e, in seguito all’annullamento del medesimo, a riprendere l’attività tacitamente autorizzata.

Quanto all’ipotesi di tardiva decisione di accoglimento dell’istanza, la stessa, seppure in via di principio illegittima, risulta meramente confermativa del precedente assenso tacito, con conseguente carenza di interesse all’impugnazione della stessa da parte del privato.