Sommario: §. 1 Nozione. §. 2 Differenza rispetto ai cd. “danni punitivi”. §. 3 Differenza rispetto alle cd. “astreintes”.
- . 1 Nozione.
La clausola penale è la clausola con la quale si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti sarà tenuto ad una determinata prestazione, solitamente ma non necessariamente coincidente con il pagamento di una somma di denaro (art. 1382 c.c.).
Molto discussa è la natura giuridica della clausola penale: parte della dottrina la configura come un negozio autonomo con funzione sanzionatoria (TRIMARCHI), mentre secondo l’orientamento dominante essa costituisce un patto accessorio, con la duplice funzione di incentivare il debitore all’adempimento e di liquidare preventivamente i danni, sollevando la parte che subisce il danno preventivamente liquidato dall’onere di provarlo.
Per tale motivo, ad avviso di tale secondo indirizzo, la clausola penale è soggetta ai medesimi requisiti formali del contratto principale cui accede.
In caso di inadempimento, è previsto che la penale sia dovuta nella misura convenzionalmente stabilita e che il creditore non possa, di regola, esigere un ulteriore risarcimento.
Non si tratta, peraltro, di una regola assoluta, in quanto le parti possono convenire la risarcibilità del danno ulteriore: quest’ultimo, tuttavia, deve essere non solo allegato, ma anche compiutamente provato dal creditore.
L’art. 1383 c.c. prevede inoltre il cd. “divieto di cumulo”: infatti, il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo.
Il successivo art. 1384 c.c. prevede infine la possibilità di “riduzione equitativa” della clausola penale, da parte del giudice, se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento.
- . 2 Differenza rispetto ai cd. “danni punitivi”.
Dottrina e giurisprudenza appaiono generalmente concordi nella differenziazione tra la clausola penale, così come configurata nel nostro ordinamento, ed i cd. “danni punitivi” (punitive damages), di matrice nordamericana.
In particolare, con i danni punitivi al danneggiato è riconosciuto un risarcimento ulteriore rispetto a quello necessario per compensare il danno subito (i compensatory damages), qualora venga dimostrato che il danneggiante ha agito con malice (termine approssimativamente traducibile con “dolo”) o gross negligence (colpa grave).
I danni punitivi si collegano dunque alla condotta dell’autore dell’illecito, e non al tipo di lesione subita dal danneggiato, e si caratterizzano per una necessaria “sproporzione” tra il danno effettivamente subìto e l’importo liquidato.
La compatibilità dei predetti “danni punitivi” con l’ordinamento italiano è stata posta in discussione sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza, al punto da dare luogo ad un’ordinanza di rimessione al Primo Presidente della Corte di Cassazione, affinché ne valutasse l’assegnazione alle Sezioni Unite (Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2016 n. 9978).
Queste ultime si sono di recente pronunciate in senso favorevole, statuendo il principio di diritto per cui “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.
Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico” (Cass. civ., Sezioni Unite, 05 luglio 2017 n. 16601).
Pur avendo riconosciuto la possibilità di delibazione di una sentenza straniera contenente la liquidazione di “danni punitivi”, e quindi la non ontologica contrarietà di questi ultimi all’ordine pubblico, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito l’estraneità di tale istituto rispetto all’ordinamento italiano.
Ne risulta così rafforzata la conclusione dell’impossibilità di ricondurre a tale categoria la clausola penale.
- . 3 Differenza rispetto alle cd. “astreintes”.
Ancora ontologicamente diverse sia dai “danni punitivi”, sia dalla clausola penale sono le cd. “astreintes” (letteralmente: “costrizioni”), ossia quelle misure che, mediante il pagamento di una somma di denaro crescente con il protrarsi dell’inadempimento, sono dirette ad attuare una pressione psicologica sul debitore per indurlo all’adempimento.
Risarcimento del danno ed astreinte costituiscono misure tra loro ontologicamente diverse, perché aventi funzioni prevalentemente reintegrativa, il primo, e prevalentemente coercitiva, la seconda (che è diretta, appunto, a facilitare l’induzione del debitore all’adempimento).
Le astreintes sono anch’esse certamente compatibili con l’ordinamento italiano, che le ha almeno in parte mutuate dal diritto straniero (in particolare, francese).
Una forma particolare di “astreinte” veniva per la prima volta introdotta nel nostro ordinamento, in materia di provvedimenti adottabili dal giudice in caso di inadempienza o violazioni delle disposizioni sull’affidamento dei figli minori nei giudizi di separazione.
L’art. 709-ter, comma 2, n. 4 c.p.c. (introdotto dall’art. 2 Legge 08 febbraio 2006 n. 54) stabilisce infatti che il giudice possa “condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”, al fine di indurlo a non ostacolare il corretto svolgimento delle modalità di affidamento dei figli minori.
L’applicazione dell’istituto della “astreinte” veniva successivamente generalizzata con l’introduzione dell’art. 614-bis c.p.c.
Tale norma, rubricata “Misure di coercizione indiretta”, è stata inserita nell’ambito del Codice di procedura civile dall’art. 49, comma 1, Legge 18 giugno 2009 n. 69, e successivamente in parte modificata dal D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito con modificazioni in Legge 06 agosto 2015 n. 132.
Essa stabilisce che: “Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.
L’introduzione della predetta norma ha quindi generalizzato l’applicazione dell’istituto della cd. “astreinte” all’inadempimento di tutti gli obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, fatta eccezione per quelli espressamente esclusi dalla disposizione medesima.
Anche le “astreintes”, così come i danni punitivi, sono dunque un istituto compatibile con l’ordine pubblico italiano, ma ontologicamente diverso rispetto alla clausola penale, rispetto alla quale differiscono radicalmente per funzione (coercitiva per le “astreintes”, prevalentemente reintegrativa per la clausola penale).