- . 1 Premessa.
La risoluzione del contratto si verifica quando quest’ultimo non è più in grado di realizzare gli interessi, che le parti avevano composto nel regolamento negoziale, a causa di eventi sopravvenuti rispetto alla conclusione del contratto medesimo.
Essa attiene pertanto ad una alterazione del sinallagma e, per tale motivo, riguarda solo i contratti a prestazioni corrispettive; in questa ipotesi, a differenza di ciò che accade con la rescissione, il vizio è funzionale, non genetico.
La risoluzione ha l’effetto di sciogliere le parti dal vincolo contrattuale e di recuperare, con effetto ex tunc, le prestazioni già eseguite.
Essa non incide, come l’invalidità, sul contratto, ma piuttosto sui suoi effetti, e dunque sul rapporto che deriva dal contratto medesimo.
Ciò premesso, esistono diverse fattispecie di risoluzione, profondamente diverse tra loro per presupposti e disciplina, e separatamente disciplinate dal Codice civile.
I tre casi di risoluzione contrattuale previsti dal nostro ordinamento sono:
- la risoluzione per inadempimento (art. 1453 ss. c.c.);
- la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 ss. c.c.);
- la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 ss. c.c.).
- . 2 La risoluzione per inadempimento giudiziale.
La risoluzione per inadempimento può essere giudiziale o di diritto.
Presupposto necessario per la risoluzione giudiziale è un inadempimento imputabile ad una delle parti e di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455 c.c.).
Così, l’inadempimento di una prestazione contrattuale solo accessoria, che non appaia, nell’economia complessiva dell’affare, idonea ad incidere in maniera significativa sul nesso di corrispettività delle prestazioni, o anche un inadempimento meramente parziale e di ridotta consistenza della prestazione principale, non sono cause di risoluzione.
Nella valutazione di che cosa debba intendersi per “inadempimento di non scarsa importanza”, dottrina e giurisprudenza appaiono divise tra un’interpretazione soggettiva, che ha riguardo alle finalità concrete perseguite dalle parti, ed in particolare dal creditore, ed ai loro reali interessi, ed un’interpretazione oggettiva, che ha riguardo al solo profilo funzionale del contratto ed alle prestazioni in esso dedotte.
La soluzione preferibile appare quella che tiene conto di entrambi i predetti criteri, combinandoli tra loro.
La norma fa infatti espresso riferimento all’interesse della parte che subisce l’inadempimento, per cui certamente la valutazione della gravità dell’inadempimento deve operarsi con riferimento all’interesse del creditore a ricevere la prestazione.
Ciò, però, non significa che tale valutazione vada operata in termini esclusivamente soggettivi, senza considerare le oggettive prestazioni, alla luce delle quali va anche ponderato l’interesse del creditore.
Così, può rilevare anche l’inadempimento di una prestazione accessoria, se esso faccia venire meno l’interesse del creditore alla prestazione principale e non sia, quindi, di scarsa importanza.
In alcune fattispecie, è poi la stessa normativa a qualificare quale sia l’inadempimento “di non scarsa importanza”, idoneo a legittimare la risoluzione.
Ad esempio, l’art. 1525 c.c., in materia di vendita con riserva della proprietà, stabilisce che, nonostante qualsiasi patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto.
Ancora, gli artt. 5 e 55 Legge 27 luglio 1978 n. 392 stabiliscono che il mancato pagamento del canone integra un motivo di risoluzione del contratto di locazione di un immobile urbano, solo se protratto per oltre venti giorni dalla scadenza prevista; il mancato pagamento degli oneri accessori (es.: oneri condominiali che incombono sul conduttore) integra un motivo di risoluzione di tale contratto, solo se di importo superiore a quello di due mensilità del canone.
Nei contratti a prestazioni corrispettive, a fronte dell’inadempimento di non scarsa importanza di una parte, l’altra parte ha due possibilità, a seconda che abbia o non abbia ancora interesse all’adempimento tardivo.
Essa infatti può, alternativamente e a sua scelta, chiedere l’adempimento del contratto oppure agire per la sua risoluzione, salvo, in ogni caso, il diritto al risarcimento del danno (art. 1453, comma 1, c.c.).
Pertanto, se il creditore ha ancora interesse alla prestazione, potrà decidere di mettere in mora il debitore, ed eventualmente, a fronte di un suo persistente inadempimento, agire per ottenere, da parte del giudice, la condanna di controparte all’esecuzione; in caso di inosservanza della sentenza, potrà poi agire per l’esecuzione forzata del proprio credito.
Qualora invece egli preferisca, a fronte dell’altrui inadempimento, sciogliersi dal vincolo contrattuale, agirà per la risoluzione dell’accordo.
In entrambi i casi la parte potrà ottenere il risarcimento del danno, patrimoniale ed anche non patrimoniale, patito a causa dell’altrui inadempimento.
Trattandosi di una responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), il risarcimento si riferisce al cd. “interesse positivo”.
Pertanto, se la domanda di risarcimento si affianca a quella di risoluzione, la parte avrà diritto ad una somma pari alle spese eventualmente affrontate per preparare l’adempimento non eseguito (danno emergente), nonché al vantaggio patrimoniale che sarebbe derivato dall’esecuzione del contratto (lucro cessante).
Se, invece, la domanda di risarcimento si affianca a quella di adempimento, il danno da risarcire sarà equivalente alla differenza tra un’esatta e tempestiva esecuzione del contratto (cui il richiedente avrebbe avuto diritto) ed un’esecuzione inesatta o tardiva (che si è in effetti realizzata).
Se una parte agisce per l’adempimento può successivamente, nel corso del medesimo giudizio, modificare la domanda per ottenere la risoluzione del contratto; viceversa, qualora la parte abbia inizialmente domandato la risoluzione, non può poi chiedere l’adempimento del contratto (art. 1453, comma 2, c.c.).
La ragione dell’inammissibilità della richiesta di adempimento, una volta che sia stata chiesta la risoluzione, va ravvisata nel fatto che la parte, che ha domandato la risoluzione, ha dimostrato di non avere più interesse alla prestazione e di voler rinunciare alla stessa, e deve conseguentemente assumersi la responsabilità della propria decisione, senza “ripensamenti” che sarebbero di ostacolo ad una chiara definizione dei conflitti tra le parti (“electa una via, non datur recursus ad altera”).
A ciò deve aggiungersi che, una volta che nei suoi confronti è stata formulata la domanda di risoluzione, la controparte non può più considerarsi né tenuta, né autorizzata ad adempiere la propria prestazione.
Alla medesima ratio si ispira anche l’art. 1453, comma 3, c.c., secondo cui “dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.
Viceversa, l’iniziale domanda di adempimento può essere mutata in quella di risoluzione, perché l’iniziale interesse ad un adempimento tardivo potrebbe venire meno con il decorso del tempo.
Il mutamento della domanda di adempimento in una domanda di risoluzione può perciò avvenire in ogni stato e grado del giudizio.
La sentenza che risolve giudizialmente un contratto ha natura costitutiva, in quanto produce una modifica della realtà giuridica, eliminando gli effetti di un contratto fino a quel momento valido ed efficace.