1) Nozione

L’interpretazione del contratto consiste nell’attività ermeneutica, volta ad indagare e ricostruire il significato da attribuire alle dichiarazioni delle parti e, quindi, al contenuto sostanziale del contratto.

Supposto, infatti, che l’interprete qualifichi un determinato atto come contratto – o, più in generale, come atto giuridico negoziale-, diviene a questo punto necessario ricostruire pienamente il contenuto dell’atto di autonomia, attribuendogli un significato che consenta di determinare in maniera esauriente la natura e la portata degli effetti che ad esso vanno ricollegati.

I canoni di interpretazione di un contratto appaiono nettamente diversi da quelli per l’interpretazione della legge, poiché diversi sono gli scopi delle due attività di interpretazione.

L’interpretazione della legge è infatti finalizzata a chiarire una volontà impersonale: pertanto, sono ammesse forme di interpretazione evolutiva, quali l’interpretazione estensiva e analogica.

Diversamente, l’interpretazione contrattuale è finalizzata alla ricerca di una volontà effettiva, riconducibile a soggetti determinati, ancorché comune agli stessi, ed espressa in un determinato testo: pertanto, le sue eventuali lacune possono essere integrate esclusivamente dalla legge.

L’interpretazione del contratto è regolata dalle norme di cui agli artt. 1362-1371 c.c.

Si tratta di norme che, pur essendo molto spesso formulate secondo la tecnica delle clausole generali, così da rappresentare un parametro elastico di valutazione, risultano tuttavia vincolanti per l’interprete (in primis, per il giudice), tanto che la loro violazione può costituire motivo di ricorso in Cassazione (art. 360 n. 3 c.p.c.), in quanto si può avere un’errata applicazione di “norme di diritto” anche nell’interpretazione di una disposizione, che presenti il contenuto di una clausola generale.

Le norme relative all’interpretazione del contratto vengono tradizionalmente distinte in due gruppi:

  • gli artt. 1362-1365 c.c. attengono ai criteri di interpretazione soggettiva e storica, diretta a ricostruire la reale comune intenzione delle parti;
  • gli artt. 1366-1371 c.c. attengono ai criteri di interpretazione oggettiva, diretta a determinare un congruo significato della singola clausola o dell’intero contratto, quando è incerta o dubbia la volontà comune.

Le regole di interpretazione oggettiva hanno carattere sussidiario, ossia si applicano solo quando l’applicazione delle norme sull’interpretazione soggettiva non siano state risolutive per rendere chiara la volontà delle parti contraenti.

I risultati dell’interpretazione del negozio possono avere un notevole rilievo in sede di determinazione dell’assetto da attribuire agli interessi delle parti: spesso, infatti, da un adeguato esercizio dell’attività interpretativa dipende la stessa possibilità di conservare efficacia al negozio, nonché quella di attribuire all’atto un determinato significato socialmente apprezzabile, con importanti conseguenze sulle – spesso contrapposte -aspettative economiche delle parti.

Il problema interpretativo non è infine circoscritto ai soli contratti, ma si pone invece per tutti i negozi giuridici.

In forza del richiamo di cui all’art. 1324 c.c., le regole dettate in materia di interpretazione del contratto sono applicabili, nei limiti della compatibilità, a tutti i negozi unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.

Problematiche del tutto particolari si prospettano invece per l’interpretazione del testamento: per tale negozio, infatti, non opera il rinvio di cui all’art. 1324 c.c., neppure nei limiti della compatibilità, trattandosi di un atto di ultima volontà.

Tale esclusione è stata anzi l’argomento principale a sostegno della tesi contraria alla natura negoziale del testamento.

In ogni caso, malgrado la non operatività del rinvio ex art. 1324 c.c., è indubbio che anche al testamento possano trovare applicazione analogica alcune delle norme dettate in materia di interpretazione del contratto, quali, in particolare, i criteri di interpretazione soggettiva, diretti a ricostruire, anche al di là del tenore letterale della dichiarazione, l’effettivo intento del disponente. Minor rilievo assumono invece i criteri di interpretazione oggettiva, volti a ricercare il rilievo obiettivo che l’atto assume all’esterno e l’equilibrio che crea tra gli affidamenti e gli interessi in conflitto, posto che in materia testamentaria l’ordinamento non accorda alcuna rilevanza all’affidamento dei terzi, nei confronti dei quali è destinata ad operare la disposizione testamentaria (posto che i terzi, anteriormente all’apertura della successione, sono titolari di una mera aspettativa di fatto, non tutelata dall’ordinamento).

In ogni caso, secondo la prevalente dottrina, appare eccessivo escludere qualsiasi rilevanza di tutti i criteri di interpretazione oggettiva rispetto alla materia testamentaria.

Se ciò, infatti, è senz’altro vero per alcuni di tali criteri (es.: l’art. 1370 c.c., che detta una norma interpretativa applicabile ai soli contratti per adesione, e quindi ontologicamente non estensibile al testamento), non lo è invece per altri.

Anche alla materia testamentaria trova senza dubbio applicazione il principio di conservazione (art. 1367 c.c.), ritenuto anzi particolarmente meritevole di tutela in materia testamentaria, laddove all’invalidità o all’inefficacia del negozio consegue la definitiva impossibilità per il disponente, ormai defunto, di autoregolamentare efficacemente i propri interessi. Si giustifica, in tal modo, l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al riconoscimento di un preciso significato dispositivo anche alle espressioni generiche del testamento, formulate in termini di mero “desiderio”.

Non si deve infine dimenticare come, in materia testamentaria, rilevino alcune cd. “norme interpretative speciali” (quali gli artt. 638, 659, 660, 684, 686, 689 c.c.).

 

2) Criteri di interpretazione soggettiva (artt. 1362-1365 c.c.).

Costituiscono norme di interpretazione soggettiva (o storica) dei contratti gli artt. 1362-1365 c.c.

Esse sono volte ad individuare l’effettivo intento comune dei contraenti, attraverso criteri interpretativi di ragionevolezza ed usualità.

Il Codice civile si occupa per prime di tali regole, in quanto prioritarie nell’ordine di graduazione (nel senso che, solo laddove il loro utilizzo non si riveli risolutivo nell’attribuire un significato al testo del contratto, si deve far ricorso ai successivi canoni di interpretazione oggettiva).

L’art. 1362, comma 1, c.c. fissa le finalità cui deve essere indirizzata l’opera interpretativa.

Esso stabilisce che: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

La norma esprime il tradizionale contrasto tra la teoria della volontà (la “comune intenzione delle parti”) e quella della dichiarazione (il “senso letterale delle parole)”. Apparentemente, vincolando l’interprete a non arrestarsi al senso letterale delle parole, la norma sembrerebbe propendere in favore della teoria della volontà.

Tuttavia, essa non può essere intesa come una totale svalutazione della dichiarazione.

In realtà, l’art. 1362, comma 1, c.c. non introduce una contrapposizione tra dichiarazione e volontà, ma prescrive di intendere la dichiarazione in senso non formalistico, non meramente letterale, ma in un senso ragionevole e sostanziale.

In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui “a norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione “prima facie” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle stesse” (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2016 n. 9380).

Il riferimento, al fine di pervenire a questa lettura non formalistica, ma ragionevole, è quello alla comune intenzione delle parti, ossia alla volontà esteriorizzata dalle parti medesime e composta nel contratto (diversa dalla volontà singola ed intima di ciascun contraente).

Il compito dell’interprete è dunque quello di verificare che cosa le parti abbiano realmente voluto dire, senza fermarsi al senso meramente letterale delle parole.

Queste ultime, ovviamente, assumono grandissimo rilievo nel procedimento interpretativo, ma non precludono altre indagini dirette ad accertare la comune ed effettiva volontà delle parti.

La giurisprudenza fa talvolta uso del concetto espresso dal noto brocardo latino “in claris non fit interpretatio”, secondo il quale, se le espressioni utilizzate dai contraenti sono chiare e non danno adito a dubbi interpretativi, non vi è motivo di procedere ad ulteriori indagini interpretative.

Tale principio, a ben vedere, non si pone in contrasto insanabile con la norma di cui all’art. 1362 c.c. e con l’invito, in esso formulato, a non fermarsi al senso letterale delle parole.

Infatti, tale invito trova la sua ragion d’essere quando le espressioni utilizzate dalle parti, sebbene chiare, consentono tuttavia di attribuire loro un significato ulteriore rispetto a quello letterale.

In ogni caso, resta fermo che l’operazione ermeneutica non deve mai fermarsi al senso letterale delle parole, perché ogni espressione, anche la più chiara, è suscettibile di interpretazione nel contesto del comportamento tenuto dalle parti.

In altri termini, il canone interpretativo di cui all’art. 1362, comma 1, c.c. vale non solo quando la dichiarazione negoziale sia obiettivamente equivoca, ma anche quando essa abbia un significato univoco che, tuttavia, sia stato concordemente inteso dalle parti in un significato diverso.

Qualora il testo contrattuale non sia ancora chiaro nonostante l’utilizzo del criterio della “comune intenzione”, il Codice detta altre regole interpretative cui attenersi.

Innanzitutto, l’art. 1362, comma 2, c.c. prescrive che, per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto.

Si deve quindi tenere conto del comportamento delle parti, sia anteriore, sia successivo al raggiungimento dell’accordo.

Per quanto riguarda il comportamento successivo, esso rileva, ai fini interpretativi, se si tratta di un comportamento attuato da entrambe le parti o, qualora sia attuato da una parte sola, se si tratti di un comportamento contrastante con l’interpretazione che la parte avrebbe interesse ad assegnare al contratto. Se la parte si comporta in modo conforme al senso che ha interesse ad attribuire al contratto, tale comportamento non assume invece rilievo ai fini interpretativi.

Nella determinazione dell’intento pratico perseguito dalle parti, assolutamente non decisiva è invece la qualificazione del contratto (cd. nomen juris) da esse operata (es.: le parti qualificano il contratto come comodato, ma in realtà concludono una locazione, perché prevedono un corrispettivo per il godimento del bene).

L’art. 1363 c.c. stabilisce che “le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”: tale norma fissa pertanto il principio dell’interpretazione sistematica del contratto.

In altri termini, il contratto deve essere interpretato nella propria interezza, senza pretendere di svolgere analisi isolate e analitiche su singole parti, che non tengano conto del contesto negoziale generale.

Gli artt. 1364 e 1365 c.c. dettano infine due criteri ulteriori, e tra loro speculari, di interpretazione soggettiva, che parte della dottrina considera come specificazioni particolari del criterio generale di cui all’art. 1362 c.c.

La prima di tali norme dispone che “per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare”.

La seconda stabilisce che  “quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto”.

Le ultime due norme citate regolano quindi due situazioni tra loro opposte: l’art. 1364 c.c. restringe l’ambito applicativo delle eventuali espressioni generali utilizzate dal contratto, le quali non possono in alcun caso estendersi oltre l’ambito oggettivo del contratto stesso, mentre l’art. 1365 c.c. amplia l’ambito applicativo degli eventuali casi esemplificativi utilizzati dalle parti, quando ciò appaia conforme alla logica contrattuale voluta dalle parti.

 

3) Criteri di interpretazione oggettiva (artt. 1366-1370 c.c.).

Esauriti i criteri di interpretazione soggettiva, se permane ancora oscuro il senso dell’accordo, soccorrono i criteri di interpretazione oggettiva.

La prima di tali norme (art. 1366 c.c.) stabilisce che “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”.

Si tratta di un parametro di buona fede oggettiva, quale regola di condotta ispirata ai principi di correttezza e lealtà, ai quali il Codice civile fa riferimento anche in materia di trattative precontrattuali (art. 1337 c.c.), esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e comportamento delle parti nell’esecuzione di qualsiasi rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.).

Nella fattispecie di cui all’art. 1366 c.c., il principio di buona fede si rivolge non tanto alle parti, quanto all’interprete, il quale deve presumere che le parti, nel raggiungimento dell’accordo contrattuale, si siano comportate in maniera conforme a buona fede, ossia con lealtà e correttezza.

La norma impone dunque di privilegiare la parte che abbia inteso le espressioni contrattuali in senso conforme ai criteri della correttezza, evitando interpretazioni cavillose e formalistiche.

Ciò significa che, se le parti si sono comportate secondo buona fede, l’interpretazione che utilizzi tale canone si avvicinerà al comune intento delle parti; altrimenti, l’interpretazione se ne discosterà, presumendo che le parti si siano comportate secondo buona fede nello stilare il contratto, anche se ciò non dovesse corrispondere al vero.

Parte della dottrina ha attribuito al canone di buona fede interpretativa una valenza ulteriore, integrativa del contenuto contrattuale, e talvolta addirittura correttiva del testo del contratto, o comunque tale da conformare il testo contrattuale al canone di solidarietà sociale espresso dall’art. 2 Costituzione.

Altra parte della dottrina critica tale impostazione, che finisce per stravolgere l’accordo contrattuale, mentre l’opera dell’interprete non deve attenere agli effetti contrattuali, ma alla fattispecie da cui tali effetti derivano.

Il successivo art. 1367 c.c. sancisce invece il principio di conservazione del contratto (e, più in generale, di qualsiasi negozio giuridico), statuendo che “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.

Parte della dottrina ha evidenziato come la norma dell’art. 1367 c.c. ponga un criterio di interpretazione più soggettivo che oggettivo, volto ad individuare la comune intenzione delle parti, le quali certamente hanno voluto attribuire al contratto un senso che possa produrre effetti,  e non un senso che priverebbe l’accordo di qualsiasi effetto.

A tale considerazione si obietta che le parti non sempre sono consapevoli che il contratto o una sua clausola possano avere un significato produttivo di effetti ed un altro che, invece, renderebbe l’accordo inefficace.  In tal caso, la norma di cui all’art. 1367 cc. sarebbe utile ad attribuire al negozio un significato che sia idoneo a produrre effetti, a prescindere dall’individuazione dell’effettiva volontà dei contraenti.

La norma in esame trova quindi applicazione solo quando la scelta tra due significati comporti anche una scelta tra efficacia o inefficacia del contratto.

Quando, invece, l’accordo abbia più significati possibili, nessuno dei quali condurrebbe all’inefficacia del contratto, deve ritenersi che l’art. 1367 c.c. non trovi applicazione.

Non appare infatti possibile, come pure è stato proposto da un indirizzo dottrinario minoritario, applicare l’art. 1367 c.c. al fine di privilegiare il significato maggiormente efficace del contratto, assicurando così l’efficacia massima di quest’ultimo, non essendo agevole, tra più opzioni interpretative che conducono tutte, comunque, ad attribuire effetti al contratto, individuare quella “più efficace” di altre.

L’art. 1368 c.c. stabilisce che:“Le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso. Nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa”.

La norma attribuisce pertanto rilevanza ai cd. “usi interpretativi” del luogo di conclusione del contratto o, se una delle parti è un imprenditore, del luogo in cui si trova la sede dell’impresa.

Gli “usi interpretativi”, ai quali viene fatto riferimento nell’art. 1368 c.c.,  si differenziano dai cd. “usi normativi”, annoverati tra le fonti del diritto (art. 8 “preleggi” al Codice civile) e tra le fonti di integrazione del contratto (art. 1374 c.c.).

Gli “usi normativi” assegnano al contratto effetti ulteriori rispetto a quelli voluti dalle parti; gli “usi interpretativi” o “pratiche generali”, invece, sono uno strumento interpretativo, volto ad individuare la comune intenzione delle parti e ad attribuire un determinato significato al negozio. Essi fanno riferimento ad un comportamento costante, secondo cui certe espressioni, in un determinato ambiente o contesto sociale, non possono che intendersi in un dato significato.

Gli “usi interpretativi” ex art. 1368 c.c.  si differenziano inoltre anche dagli “usi negoziali” o “clausole d’uso” ex art. 1340 c.c., per mezzo dei quali determinate clausole vengono inserite nel contratto, pur in assenza di una espressa previsione dei contraenti in tal senso ed a meno che non risulti che le parti non le abbiano volute.

Gli “usi interpretativi” ex art. 1368 c.c.  sono funzionali ad un’opera di interpretazione della volontà espressa dalle parti nel contratto; gli “usi negoziali” ex art. 1340 c.c. ad un’integrazione del contenuto del contratto.

L’art. 1369 c.c. stabilisce un canone di interpretazione funzionale delle espressioni cd. “polivalenti” o “polisense”, disponendo che “le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.

La norma, quindi, impone di considerare le espressioni usate dai contraenti secondo il senso che assumono nel contesto sociale di riferimento, considerando la materia disciplinata dal contratto (inteso come assetto negoziale concreto, e non già come tipologia contrattuale astrattamente prevista dallo schema legale del Codice civile) e la funzione che esso è chiamato ad assolvere in concreto.

Tale senso potrebbe anche non coincidere con quello che le parti hanno attribuito al loro accordo.

L’art. 1370 c.c. pone un criterio interpretativo specifico  dei cd. “contratti per adesione” di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c., ossia dei contratti le cui clausole generali sono predisposte unilateralmente da uno dei contraenti o dei contratti che vengono conclusi mediante l’utilizzo di moduli e formulari.

La predetta norma dispone che “le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”.

Essa fissa pertanto un canone di interpretazione contro il predisponente, il cui scopo non è quello di individuare la comune intenzione delle parti, bensì quello di favorire l’aderente, ossia la parte più debole del contratto, la quale si avvantaggia così dell’ambiguità del testo contrattuale predisposto unilateralmente dalla controparte.

La norma è confermata dall’art. 35 “Codice del consumo” (D.lgs. 06 settembre 2005 n. 206), che l’ha estesa ai contratti del consumatore.

Si tratta di una regola che riveste certamente carattere sussidiario, dovendo essere adottata dall’interprete “soltanto se, dopo aver fatto uso dei canoni ermeneutici principali della letteralità e della sistematicità, rimanga dubbio il significato delle clausole” (Cass. civ., sez. III, 27 maggio 2005 n. 11278).

 

4) Regole finali (art. 1371 c.c.).

L’art. 1371 c.c. dispone che qualora, nonostante l’applicazione delle altre norme di interpretazione del contratto, il significato di quest’ultimo rimanga oscuro, esso deve essere inteso:

  • nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è un contratto a titolo gratuito;
  • nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, se è un contratto a titolo oneroso.

Parte della dottrina include la predetta norma nell’ambito dei criteri di interpretazione oggettiva del contratto, mentre altro orientamento la considera una disposizione “di chiusura”, applicabile solo in via ulteriormente residuale, quando tutte le ulteriori regole ermeneutiche (sia di carattere soggettivo, sia, in via subordinata, di carattere oggettivo), non si siano rivelate risolutive per chiarire il reale significato del contratto.

Anche in questo caso,  la regola non mira ad individuare la comune intenzione delle parti o a fare assumere al contratto un significato consono all’ambiente in cui esso si inserisce, ma ad attribuire all’accordo un senso che gli consenta di realizzare un equilibrato assetto degli interessi coinvolti.

D’altra parte tale regola, come quella dell’art. 1370 c.c., è destinata ad operare quando risulti impossibile, nell’ambito di un procedimento interpretativo già avanzato, ricostruire il senso comune che le parti hanno voluto assegnare al loro accordo.

Per questo si è da più parti osservato come si tratti di regole, più che interpretative vere e proprie, integrative del contratto, perché destinate a colmare eventuali lacune del regolamento di interessi.

L’interpretazione del contratto costituisce una indagine di fatto, riservata al giudice di merito e censurabile in cassazione sia per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., sia per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti (Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2016 n. 14355).