Consiglio di Stato, Sez. V, Sent., 07 gennaio 2025, n. 81


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10158 del 2019, proposto da …, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difeso dagli avvocati …, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del secondo di essi in …;

contro

Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati …, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio …;

nei confronti

…, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. 01962/2019, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 ottobre 2024 il Cons. Massimo Santini e uditi per le parti gli avvocati … e, in delega dell’avv. …, l’avv. …;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con il ricorso introduttivo dinanzi al TAR Campania la società … (in qualità di gestore di aree coperte e/o scoperte adibite a uso autorimessa o parcheggio a raso nel Comune di Napoli) e la … tra gli operatori nel settore della sosta e dei parcheggi (in qualità di soggetto portatore degli interessi di categoria) impugnavano, chiedendone l’annullamento, la Delib. n. 46 del 2014 del Consiglio Comunale di Napoli che ha determinato le misure della tassa sui rifiuti (TARI) per il 2014.

Le originarie ricorrenti lamentavano che, con tale delibera, il Comune ha: a) individuato ed applicato un coefficiente di produzione rifiuti per le autorimesse equivalente al valore medio del D.P.R. n. 158 del 1999 pari circa kg 4,00 mq/anno; b) inserito le autorimesse nella categoria n. (…), insieme ai magazzini senza vendita diretta; c) fissato una tariffa totale per tale categoria pari a € 3,66/mq.

A tale proposito, allegavano perizie di parte da cui emerge che il quantitativo annuo prodotto all’interno delle aree di parcheggio sarebbe invece pari a 0,40 kg/anno, quindi notevolmente inferiore a quello presuntivamente stimato dall’amministrazione (kg. 4,00 per anno).

  1. Il TAR Campania ha rigettato il gravame in quanto, tenuto conto della “difficoltà oggettiva consistente nel determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore … in tali circostanze … il Comune può … ricorrere a criteri basati sulla capacità produttiva dei detentori, calcolata in funzione della superficie dei beni immobili che occupano, nonché della loro destinazione e/o sulla natura dei rifiuti prodotti, elementi in base ai quali l’amministrazione può consentire di calcolare i costi dello smaltimento e ripartirli tra i vari detentori. Tali considerazioni hanno infatti indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare che la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo effettivamente prodotto non può essere considerata in contrasto con l’art. 15, lett. a), della direttiva 2006/12 (Cass. Civ. n. 17498/2017). Si è quindi osservato che, in materia, le autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto riguarda le modalità di calcolo della tassa”. Lo stesso giudice di primo grado affermava inoltre che: “Quanto al finanziamento dei costi di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani, gli Stati membri sono tenuti a far sì che, in linea di principio, tutti gli utenti di tale servizio, fornito collettivamente ad un complesso di “detentori”, sopportino collettivamente il costo globale di smaltimento dei rifiuti. Nondimeno le competenti autorità nazionali, pur essendo vincolate riguardo al risultato da conseguire, dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto concerne la determinazione della forma e dei mezzi per il perseguimento di tale risultato”. Ed infine che: “la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento della gestione e dello smaltimento dei rifiuti urbani, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo di rifiuti effettivamente prodotto e conferito non può essere considerata in contrasto con la vigente normativa comunitaria”.
  1. La sentenza di primo grado formava oggetto di appello, da parte della sola A., per i motivi di seguito sintetizzati:

3.1. Omessa pronunzia sul motivo principale di ricorso ossia la violazione del principio di proporzionalità (data la evidente sproporzione tra rifiuti effettivamente prodotti da tali categorie di utenti e la stima di rifiuti producibili sulla base del metodo normalizzato adottato dal Comune di Napoli), violazione che avrebbe dovuto comportare la condanna del Comune stesso alla rideterminazione della tariffa sulla base del metodo “puntuale” (ossia sulla base delle quantità effettive e non presunte di rifiuti producibili);

3.2. Erroneità nella parte in cui non sarebbe stato rilevato il difetto di istruttoria e di motivazione laddove non si dà conto, nella suddetta delibera comunale, della mancata applicazione del metodo “puntuale” (basato sulle quantità di rifiuti effettivamente prodotte) in luogo di quello “normalizzato” (basato su una mera stima dei rifiuti teoricamente producibili);

3.3 Con memoria in data 16 settembre 2024 veniva inoltre chiesto che la questione sia rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea perché questa provveda a pronunciarsi in merito ad “una più puntuale interpretazione del principio “qui inquina paga” nel contesto normativo della TARI come disciplinata attualmente dall’ordinamento Italiano, con particolare riferimento alla previsione della prolungata applicazione del sistema di misurazione proporzionale dei rifiuti in luogo di quella puntuale”.

  1. Si costituiva in giudizio l’appellata amministrazione comunale la quale, nel chiedere il rigetto del gravame, sollevava nuovamente le due eccezioni di rito già proposte in primo grado ossia:

4.1. Inammissibilità del gravame per omessa impugnazione del PEF quale atto presupposto;

4.2. Tardività del gravame in quanto la previsione di cui alla Delib. n. 46 del 7 agosto 2014 replicava pedissequamente, in ordine alla categoria di utenza qui in contestazione, quella della Delib. n. 14 del 21 giugno 2012.

  1. Con ordinanza collegiale n. 1125 del 2 febbraio 2024 questa sezione così disponeva:

“Considerata … la necessità di giungere ad un maggiore approfondimento sui fatti oggetto di indagine mediante verificazione, ai sensi dell’art. 66 c.p.a., sul punto specifico ossia sulla “quantità di rifiuti potenzialmente producibili” all’interno dei suddetti esercizi (cfr. Cass. civile, sez. VI, 24 febbraio 2023, n. 5744 nonché Corte di giustizia UE, sez. II, 16 luglio 2009, n. 254). E ciò – giova ripetere – con particolare riguardo al settore delle “aree coperte e/o scoperte adibite a uso autorimessa o parcheggio a raso” poste all’interno di zone metropolitane con caratteristiche analoghe a quelle di specie (Comune di Napoli);

Ritenuto che alla suddetta verificazione debba provvedere il Direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), o un funzionario/dirigente dal medesimo delegato, nel termine di giorni 30 (trenta) decorrente dalla comunicazione/notificazione della presente ordinanza istruttoria e mediante deposito telematico, presso la segreteria di questa sezione giurisdizionale, di una dettagliata relazione tecnica e conclusiva”.

Successivamente veniva depositata relazione del collegio ISPRA con cui si concludeva che una risposta al quesito non sarebbe stata possibile attesa la estrema difficoltà di operare raffronti con altre città ove il metodo puntuale è stato adottato. Occorrerebbe procedere, in altre parole, ad una puntuale analisi dello “specifico contesto territoriale” non potendo essere sufficiente un raffronto con città di analoghe dimensioni.

  1. Alla pubblica udienza del 17 ottobre 2024 le parti rassegnavano le proprie rispettive conclusioni e la causa veniva infine trattenuta in decisione.
  1. Tutto ciò premesso vanno innanzitutto rigettate le riproposte eccezioni di rito per le ragioni di seguito indicate:

7.1. Quanto alla dedotta inammissibilità per omessa impugnazione del propedeutico Piano economico e finanziario osserva il collegio che: a) tale documento non riguardava, specificamente, la categoria dei parcheggi a pagamento; b) la portata lesiva è comunque determinata dall’atto finale ossia dalla delibera di adozione della tariffa adottata ai sensi dell’art. 69 del D.Lgs. n. 507 del 1993. Di qui il rigetto della specifica eccezione;

7.2. Con riguardo all’eccezione di tardività (in quanto la tariffa per le suddette aree coperte a parcheggio era prevista sin dal 2012), rammenta il collegio che il citato art. 69 del D.Lgs. n. 507 del 1993 prevede che i singoli comuni provvedano annualmente a deliberare le singole tariffe rifiuti e quindi a rinnovare, anche in termini di possibile lesività, le decisioni a tal fine singolarmente intraprese. Di qui il rigetto, altresì, di tale specifica eccezione di rito.

  1. Nel merito si rammenta che si controverte sulla delibera comunale n. 46 del 2014 la quale stabilisce, per i gestori di parcheggi a pagamento, una tariffa rifiuti corrispondente a quella di magazzini senza vendita sul posto, presupponendo ossia una produzione annua di 4 chili di rifiuti per ogni metro quadrato. In base a numerose perizie effettuate da tecnici della parte appellante in relazione a diversi parcheggi italiani, invece, risulterebbe che tale produzione annua di rifiuti sarebbe pari a 0,4 chili per metro quadrato. Tanto ulteriormente premesso, il secondo motivo di appello della associazione di categoria A. (da affrontare prioritariamente per ragioni di carattere logico e sistematico) si rivela fondato dal momento che:

8.1. Come correttamente evidenziato dal giudice di primo grado:

“E’ noto che la TARI (tassa sui rifiuti) è stata istituita a decorrere dal 2014 con L. n. 147 del 2013, art. 1, commi 639 e seguenti, è destinata a finanziare i costi relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte suscettibili di produrre i rifiuti medesimi.

Le tariffe devono assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti e sono determinate con delibera del Consiglio comunale sulla base dei costi individuati e classificati nel piano finanziario approvato dallo stesso Consiglio.

Nello specifico, ai sensi dell’art. 1, comma 651, della L. n. 147 del 2013 “Il Comune nella commisurazione della tariffa tiene conto dei criteri determinati con il regolamento di cui al D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158” (c.d. metodo normalizzato). L’art. 3 del citato regolamento prevede al riguardo che la tariffa è composta da una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione.

L’art. 1, comma 652, della L. n. 147 del 2013 dispone poi che il Comune, in alternativa ai criteri di cui al comma 651 e nel rispetto del principio “chi inquina paga”, sancito dall’articolo 14 della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti, può commisurare la tariffa alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte nonché al costo del servizio sui rifiuti”.

Alla luce di quanto sopra riportato, due sono pertanto i metodi indicati dal legislatore per il calcolo della tariffa: quello “normalizzato” basato sulla stima dei rifiuti tendenzialmente producibili dalle singole categorie di uffici e servizi; l’altro “puntuale” basato sulla quantità effettiva di rifiuti producibili (e non prodotti). I due modelli sono posti dal legislatore “in alternativa” tra di loro;

8.2. Va ulteriormente premesso che, in base alla giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia UE, sez. II, n. 254 del 16 luglio 2009), il metodo di calcolo della tariffa rifiuti (basata ossia “sulla stima del volume di rifiuti generato dagli utenti di tale sevizio e non sul quantitativo di rifiuti effettivamente prodotto e conferito”), se da un lato è frutto di discrezionalità tecnica nonché di presunzioni (ossia basato su una stima delle quantità producibili e non strettamente commisurato alle quantità effettivamente prodotte e conferite), dall’altro lato non deve essere manifestamente sproporzionato e deve tenere conto delle quantità comunque “producibili” (anche se non di quelle “prodotte”) in termini di natura e volume del rifiuto. Queste in particolare le conclusioni della Corte di giustizia:

– “la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento della gestione e dello smaltimento dei rifiuti urbani, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo di rifiuti effettivamente prodotto e conferito non può essere considerata, allo stato attuale del diritto comunitario, in contrasto con l’art. 15, lett. a), della direttiva 2006/12”;

– “le competenti autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto concerne la determinazione delle modalità di calcolo di siffatta tassa”;

– “Spetta pertanto al giudice a quo accertare, sulla scorta degli elementi di fatto e di diritto che gli sono stati sottoposti, se la tassa sui rifiuti su cui verte la causa principale non comporti che taluni “detentori” … si facciano carico di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili”.

Pertanto: se da un lato è ammissibile e compatibile con il diritto UE anche il metodo “normalizzato” (basato su stime e presunzioni), dall’altro lato in presenza di indici di manifesta sproporzione ed iniquità (circa le tariffe calcolate con metodo normalizzato) occorre ripiegare su metodi diversamente basati sulle quantità di rifiuti effettivamente producibili (metodo puntuale).

8.3. Ebbene nel caso di specie la delibera impugnata non reca alcuna motivazione circa le ragioni che avrebbero indotto l’amministrazione ad optare per il metodo normalizzato piuttosto che per quello puntuale. Il provvedimento impugnato fa infatti riferimento al solo comma 651 (metodo normalizzato) ignorando del tutto il contenuto e la portata del successivo comma 652 (metodo puntuale). Ciò in quanto (tesi del giudice di primo grado, effettivamente seguita da buona parte della giurisprudenza) l’amministrazione godrebbe in proposito della più ampia discrezionalità. Il giudice di primo grado si è dunque limitato a richiamare la sussistenza di un ampio potere discrezionale, nonché del tipo di calcolo che si effettua in questi casi, senza mai entrare tuttavia nel merito della motivazione (del tutto insussistente, essendosi la PA limitata a richiamare la normativa applicabile);

8.4. Ritiene il collegio si possa affermare che, di regola, rientri nella facoltà dell’ente comunale dare applicazione al metodo normalizzato di cui al comma 651 della L. n. 147 del 2013 (applicazione della tariffa sulla base di parametri predeterminati dal legislatore) oppure al metodo puntuale di cui al successivo comma 652 della stessa legge (applicazione della tariffa sulla base di una valutazione quantitativa dei rifiuti effettivamente producibili);

8.5. Una simile ampia facoltà discrezionale, soprattutto in presenza di indici di sproporzione quali quelli evidenziati dalla difesa di parte appellante nelle proprie perizie, non può tuttavia tradursi in un sostanziale azzeramento del significato e della portata giuridica della disposizione di cui al comma 652 (metodo puntuale basato sulle quantità effettive di rifiuti prodotti). Verrebbe infatti meno, per tale via, uno dei caratteri fondamentali della norma giuridica ossia la positività che, a sua volta, risiede nella effettiva applicazione ed applicabilità del precetto in essa contenuto. In altre parole la disposizione di cui al comma 652, al pari di altre norme giuridiche, è dotata quanto meno di positività dal momento che risulta inserita in un sistema normativo e dunque esprime, proprio per tale ragione, un interesse ed un valore considerato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico e prima ancora dalla comunità collettiva di riferimento. Il che significa che i soggetti ai quali tale norma è indirizzata (nel caso di specie, i competenti organi comunali), sono tenuti ad applicarla secondo quanto essa dispone. In questa direzione, attribuire all’amministrazione il potere insindacabile di scelta di un metodo rispetto all’altro senza motivarne le ragioni, soprattutto in presenza di puntuali analisi quali quelle prodotte nella specie dalla difesa di parte appellante, implicherebbe invece l’elisione integrale del significato e dunque della portata positiva della norma medesima. Pertanto le amministrazioni debbono avere ben presente di avere due opzioni metodologiche (da scegliere “in alternativa”) e che la scelta dell’una rispetto all’altra, proprio per garantire la tenuta positiva e dunque l’effettività della norma (in particolare quella di cui al comma 652), deve essere il frutto di adeguata ponderazione che induca la PA a scegliere uno dei due modelli non solo per ragioni di “opportunità organizzativa” (cui il privato deve restare indifferente) ma anche per le ricadute in termini pratici ed economici nei confronti degli utenti: in altre parole deve darsi adeguata dimostrazione che il metodo puntuale, per i suoi criteri di elaborazione e per i suoi effetti finali, non si discosti più di tanto rispetto al metodo normalizzato e non comporti, rispetto a quest’ultimo, benefici di gran lunga superiori rispetto a quelli ricavabili dal metodo puntuale. Detto altrimenti, ossia allorché si prosegua nel dare in concreto “libera scelta” alla PA sul metodo di volta in volta da applicare: a) si assisterebbe ad una sostanziale negazione di una norma positiva dell’ordinamento quale quella di cui al ridetto comma 652, concernente la adozione del metodo puntuale, che automaticamente perderebbe di effettività; b) si determinerebbe una compromissione evidente del principio eurounitario in base al quale “chi inquina paga” (che la Corte di giustizia UE ha puntualmente rammentato nelle predette decisioni). Del resto, come pure evidenziato nella suddetta relazione di verificazione (pag. 13): “La tariffazione puntuale, basata sui principi europei di “chi inquina paga” e “paga per quello che butti” (PAYT-“Pay-As-You-Throw”), consente agli utenti di beneficiare di tariffe più vantaggiose attraverso la misurazione dei rifiuti conferiti”;

8.6. Con ciò si vuole dire in conclusione che: a) una volta che il legislatore ha previsto due metodi tra di loro alternativi, la PA deve tenerli in considerazione entrambi senza poter sostanzialmente accordare preferenza ad uno solo di essi negando, parallelamente, l’esistenza dell’altro; b) il potere di scelta tra i due metodi (normalizzato e puntuale) resta saldo in capo alla PA purché quest’ultima giustifichi adeguatamente le ragioni per cui ritiene di optare per un metodo in luogo dell’altro; c) un simile obbligo di motivazione, nella scelta tra i due metodi, assume contorni ancora più stringenti nel momento in cui emergono – proprio come nel caso di specie mediante le suddette relazioni tecniche di parte appellante – elementi tali da far propendere per una applicazione iniqua e sproporzionata della suddetta tariffa rifiuti per via del metodo normalizzato (in questa direzione le puntuali relazioni di parte, che in ogni caso costituiscono almeno un principio di prova, non risultano tra l’altro essere state adeguatamente e puntualmente contestate dalla difesa comunale).

Il descritto percorso logico e procedimentale risulta peraltro pienamente conforme a quanto affermato dalla Corte di giustizia UE, nella richiamata decisione n. 254 del 2009, per cui il metodo normalizzato è comunitariamente ammissibile, sì, ma a condizione che non emergano – come nella specie – elementi di sproporzione e di iniquità tali da ritenere preferibile (o quanto meno percorribile anche) il metodo puntuale.

8.7. Sull’obbligo di motivazione di siffatte delibere si veda peraltro la giurisprudenza di questa stessa sezione (cfr. sentenze n. 7719 del 23 settembre 2024 e n. 3781 del 1 agosto 2015) la quale fa riferimento all’art. 69, comma 2, del D.Lgs. n. 507 del 1993. La prima delle richiamate decisioni ha in particolare affermato che: “l’art. 69, comma 2, del D.Lgs. n. 507 del 1993 stabilisce che “ai fini del controllo di legittimità, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché i dati e le circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo ovvero gli aumenti di cui al comma 3″ … Tale disposizione all’evidenza contiene un elemento di limitazione della portata della sottrazione all’obbligo di motivazione degli atti generali definita in via generale dall’art. 3 della L. n. 241 del 1990, e richiamata da una parte della giurisprudenza (cfr., tra le altre, Cons. Stato, V, 22 marzo 2023, n. 2910); ed infatti per la norma generale da ultimo richiamata può escludersi l’obbligo di motivazione nella determinazione delle tariffe (potere esercitato dal Comune ai sensi dell’art. 65, comma 2, del D.Lgs. n. 507 del 1993), ma sussiste invece l’esigenza di indicare (melius, giustificare), onde consentire un controllo di legittimità, le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe a mente di quanto disposto dall’art. 69, comma 2, dello stesso corpus legislativo”;

8.8. Pertanto, in ossequio alla richiamata giurisprudenza amministrativa (su obbligo di motivazione) ed alla normativa eurounitaria (la quale esprime quanto meno un certo favor per il metodo puntuale, considerata la sua maggiore vicinanza al principio secondo cui “chi inquina paga”) il secondo motivo di appello deve essere accolto nel senso che l’amministrazione non ha adeguatamente istruito la procedura e motivato le ragioni per cui il metodo normalizzato, anche in presenza di taluni dati forniti dalla appellante associazione, debba incondizionatamente essere preferito rispetto a quello puntuale. Con la precisazione che in fase di riesame una simile rideterminazione della citata imposizione fiscale, quale che sia il metodo alla fine di questo percorso adottato, si riveli ad ogni modo equa per gli utenti finali che in questa sede ricorrono.

  1. Non può invece essere accolto il primo motivo di appello in quanto questo giudice amministrativo, pena la violazione dell’art. 34, comma 2, c.p.a. (secondo cui: “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”), non potrebbe imporre alla PA l’utilizzo di un metodo rispetto ad un altro sin da questo momento, essendo una simile scelta riservata alla discrezionalità della PA. Discrezionalità tuttavia da esercitare – in presenza di talune analisi puntuali della parte privata interessata – non in forma libera ma, come sopra evidenziato, nel rispetto dei criteri di cui al punto 8 ossia mediante adeguata ponderazione tra i due metodi, in termini di costi e benefici, non solo per la PA sul piano organizzativo ma anche per il privato sul piano delle tariffe che non debbono risultare manifestamente inique e sproporzionate rispetto al volume delle quantità di rifiuti effettivamente prodotte, ove ciò risulti in qualche modo agli atti della PA.
  1. La richiesta di rinvio alla C. va infine rigettata sulla base della giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. ordinanza n. 17498 del 14 luglio 2017 della quinta sezione) secondo cui, in particolare: “nella valutazione di conformità della disciplina nazionale in materia rispetto al principio evincibile dall’art. 15, lett. a), della direttiva 2006/12 (già desumibile dall’art. 11 della direttiva 75/442), la CG ebbe ad affermare (come recepito da Cass. cit.), che: – “- è spesso difficile, persino oneroso, determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore; – in tali circostanze, ricorrere a criteri basati sulla capacità produttiva dei detentori, calcolata in funzione della superficie dei beni immobili che occupano, nonchè della loro destinazione e/o sulla natura dei rifiuti prodotti può consentire di calcolare i costi dello smaltimento e ripartirli tra i vari detentori; – sotto tale profilo, la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo effettivamente prodotto non può essere considerata in contrasto con l’art. 15, lett. a), della direttiva 2006/12; – nella materia le autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto riguarda le modalità di calcolo della tassa; – per quanto riguarda la differenziazione tra categorie di detentori, la stessa deve ritenersi ammessa, purchè non venga fatto carico ad alcuni di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili””. La questione non viene dunque ulteriormente rimessa alla Corte di giustizia anche perché, sulla base di quanto affermato al precedente paragrafo 8 di questa decisione, il metodo normalizzato non deve essere sic et simpliciter preferito al metodo puntuale ma occorre pur sempre che la PA, in presenza di talune serie e circostanziate allegazioni quali quelle prodotte dalla parte appellante nel caso di specie, operi una adeguata ponderazione tra i due modelli optando per quello che, in ogni caso, non comporti conseguenze manifestamente sproporzionate per i singoli operatori/utenti. Di qui il rigetto della specifica richiesta.
  1. In conclusione il ricorso in appello deve essere accolto sotto il profilo del difetto di motivazione e di istruttoria nei sensi e nei limiti di cui ai paragrafi che precedono (scelta non libera ma motivata e ponderata tra metodo normalizzato e metodo puntuale).
  1. In considerazione della complessità e della novità delle esaminate questioni, le spese di lite possono essere integralmente compensate tra tutte le parti costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della gravata sentenza, accoglie altresì il ricorso di primo grado ed annulla, in parte qua, la delibera comunale n. 46 del 7 agosto 2014 nei sensi e nei limiti di cui alla parte motiva.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 ottobre 2024 con l’intervento dei magistrati:

Francesco Caringella, Presidente

Alberto Urso, Consigliere

Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere

Elena Quadri, Consigliere

Massimo Santini, Consigliere, Estensore


MASSIMA: Le delibere Tari con le quali le amministrazioni comunali fissano le tariffe non devono essere motivate, ma devono essere giustificati i rapporti stabiliti tra le varie tariffe. La motivazione non è imposta, in quanto le delibere sono atti generali.